II parte della conferenza che terrò il 28 agosto alle 21
nella libreria della Festa provinciale dell’Unità di Bologna.
Presenterò il libro Atti mancati di Matteo
Marchesini, Voland, Roma 2012
La prima parte è già presente nel blog in questa pagina.
VI capitolo di Atti
mancati (pp. 37-52)
In questo capitolo
Marco e Lucia si danno appuntamenti e si incontrano nei punti cruciali del loro
passato.
Lucia in tali
incroci però non cerca tanto i luoghi quanto il tempo: “Non mi manca un luogo,
mi manca il tempo” (p. 39).
Infatti, quando si
torna nei posti dove siamo stati felici per ritrovarci qualcosa di allora,
restiamo sempre delusi.
Lo ha scritto in
più di una poesia Cesare Pavese.
Aleggia la tristezza della sconfitta. Il
romanzo, dice Molinari, è “una palude” (p. 40). A lei “mancano dei veri punti
d’appoggio bolognesi”, sebbene Bologna “dopo tutto” resti la sua città (p. 41).
Marco ha dei dubbi
sulla salute di Lucia, per misteriose reticenze delle amiche di lei, e per un
segno invece chiaro, poiché le parole possono non dire, ma il corpo parla:
“Solo adesso mi accorgo di quanto sono diventate magre quelle sue gambe una
volta così infantilmente tornite” (p. 43).
Poi un brutto segno
ancora più forte : Lucia vomita e sviene (p. 44).
Marco “orribile a
dirsi” vorrebbe disfarsene (p. 44) affidandola magari a un’amica.
Mi viene ancora in
mente Pavese.
Parla Giasone a una giovane ierodula del tempio
sull'Acrocorinto:"Piccola Mèlita, tu sei del tempio. E non sapete che nel
tempio-nel vostro- l'uomo sale per essere dio almeno un giorno, almeno un'ora,
per giacere con voi come foste la dea? Sempre l'uomo pretende di giacere con
lei-poi s'accorge che aveva a che fare con carne mortale, con la povera donna
che voi siete e che son tutte. E allora infuria-cerca altrove di essere dio"[1].
E’ vero, a un certo punto ci accorgiamo che la loro carne, seppure diversa, è comunque mortale, e allora si scappa, si cerca altra carne, magari più giovane e circonfusa da un’aureola magica, che rinnovi l’illusione dell’immortalità.
E’ vero, a un certo punto ci accorgiamo che la loro carne, seppure diversa, è comunque mortale, e allora si scappa, si cerca altra carne, magari più giovane e circonfusa da un’aureola magica, che rinnovi l’illusione dell’immortalità.
Ma nessuna amica passa e Marco porta Lucia nella loro “ex
casa” in via Castiglione “circonfusa dalla sua solita atmosfera torpida e
curiale” (p. 45). Molto ben detto. Un’atmosfera da funerale.
Nella loro ex casa ci sono “oggetti chiave”, come l’amaca
che Lucia aveva portato da un viaggio nel Pernambuco (p. 45). Dov’è? Francamente,
non lo so.
“La leggendaria incuria” di Marco però non ha dato a quest’oggetto simbolo la sistemazione e la cornice adeguata per il suo rifiuto “di personalizzare gli ambienti”, conseguenza di una cronica precarietà, fattuale e mentale.
Lucia vuole parlare del passato, del loro amico Ernesto morto, del romanzo che aveva abbozzato; Marco invece vuole prima di tutto spiegazioni sull’abbandono subito. Ma i due ancora una volta non parlano. Lucia va in bagno e sviene. Marco la vede mal ridotta, piena di orrende ferite chirurgiche, povere bocche tutt’altro che mute. Le ferite parlano chiaro e “l’idea platonica di Lucia” conservata per anni “va di colpo in pezzi” (p. 48). C’è una cicatrice che “le sfigura il pube completamente glabro” (49) e arriva “quasi fino all’ombelico”.
“La leggendaria incuria” di Marco però non ha dato a quest’oggetto simbolo la sistemazione e la cornice adeguata per il suo rifiuto “di personalizzare gli ambienti”, conseguenza di una cronica precarietà, fattuale e mentale.
Lucia vuole parlare del passato, del loro amico Ernesto morto, del romanzo che aveva abbozzato; Marco invece vuole prima di tutto spiegazioni sull’abbandono subito. Ma i due ancora una volta non parlano. Lucia va in bagno e sviene. Marco la vede mal ridotta, piena di orrende ferite chirurgiche, povere bocche tutt’altro che mute. Le ferite parlano chiaro e “l’idea platonica di Lucia” conservata per anni “va di colpo in pezzi” (p. 48). C’è una cicatrice che “le sfigura il pube completamente glabro” (49) e arriva “quasi fino all’ombelico”.
Allora “nella mia mente i pezzi vanno orribilmente a posto”.
Paradossalmente sono i pezzi fuori posto del corpo di lei, ferito proprio nella femminilità e nella maternità, a mettere insieme i pezzi della mente di lui.
Paradossalmente sono i pezzi fuori posto del corpo di lei, ferito proprio nella femminilità e nella maternità, a mettere insieme i pezzi della mente di lui.
Insomma gli indizi precedenti si strutturano nel segno
evidente del cancro di lei. Un cancro all’utero. Ma Lucia gli fa: “sta’
tranquillo”.
Il corpo di lei però significa lo svuotamento e la negazione
della vita: “questo corpo di donna magro, bianco, che sembra il rovescio
concavo della ragazza di cinque anni fa” (p. 50)
Lucia cerca di minimizzare ma non può negare la sicura
“sterilità”. Del resto già prima aveva poche probabilità per il precedente scoppio
dell’ovaia. La sterilità è anche fisica. I due fanno l’amore. Lei lo fa “con
una specie di disperata efficienza” che dovrebbe coprire l’inefficienza delle
parole (p. 51). Una mossa azzeccata, tanto che Marco ne viene Marco.
Nel tempo passato invece lo eccitava piuttosto la docilità
di lei che nell’amore abbandonava qualsiasi atteggiamento agonistico: eros altrimenti
si associava a eris. Dopo, lui si addormenta e quando si sveglia trova un
biglietto di Lucia con la proposta di un giro “nella Bassa verso Persiceto, e magari
alla trattoria Bonasoni, dove siamo stati tante volte negli anni
dell’Università e della nostra storia”
Un pellegrinaggio a luoghi delle occasioni passate e
perdute.
Capitolo VII (pp. 53-60)
Marco ripensa a quel “sesso fuori tempo, assurdamente volontaristico” (p. 53), a quell’ “evitare coi gesti le parole” e gli torna in mente “il pensiero magico” per cui l’assai meno grave scoppio dell’ovaia poteva essere stata una reazione estrema dell’organismo di lei per catturare lui.
Capitolo VII (pp. 53-60)
Marco ripensa a quel “sesso fuori tempo, assurdamente volontaristico” (p. 53), a quell’ “evitare coi gesti le parole” e gli torna in mente “il pensiero magico” per cui l’assai meno grave scoppio dell’ovaia poteva essere stata una reazione estrema dell’organismo di lei per catturare lui.
A volte il corpo pensa delle cose che la mente non pensa.
Ora gli viene in mente che il gravissimo male di Lucia possa
rappresentare un pericolo anche per lui “Quasi che fosse un mezzo per
richiamare alla realtà la mia irrealtà, per inchiodare all’esperienza più
viscerale la mia tetragona, cocciuta scelta d’inesperienza”.
C’è infatti un lato della carne che è rivolto verso lo
spirito e un lato dello spirito che è riverso sulla carne. Lucia porta sul
corpo tutto il suo accumulo negativo di errori, di omissioni, di frustrazioni e
Marco teme un esito del genere per sé. Nel rimestare di Lucia “c’è qualcosa di
teatrale” pensa Marco (p. 54). Credo che in tutti noi, da Alessandro Magno ad
Achille a Tersite, ci sia qualcosa di teatrale perché vogliamo tutti farci
vedere, rappresentarci, mitizzarci, talora perfino pariodarci.
Ora lei vuole anche “imporre l’agenda degli incontri e dei
relativi intervalli, dei gesti e dei temi di conversazione” (p. 55). E’
l’egoismo e la prepotenza dei malati. E’ anche il tornaconto della malattia.
Ma chi sono, cosa sono i malati?
Sentiamo T. Mann.
“La malattia porta con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi provvidenziali, misure di adattamento e di alleggerimento spirituali e morali della natura, che il sano ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio migliore era tutta quella marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza, la loro stupidaggine, il loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona volontà per raggiungere la salute”[2].
Sentiamo T. Mann.
“La malattia porta con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi provvidenziali, misure di adattamento e di alleggerimento spirituali e morali della natura, che il sano ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio migliore era tutta quella marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza, la loro stupidaggine, il loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona volontà per raggiungere la salute”[2].
La teoria della inumanità della malattia esposta dall’umanista
Settembrini, convince Hans Castorp: “Giovanni Castorp trovò la cosa bellissima
, interessante, e disse al signor Settembrini che la sua teoria plastica lo
aveva completamente conquistato. Poiché, si dicesse pure quello che si voleva-e
qualcosa si poteva pur dire; per esempio: che la malattia era uno stato vitale
accentuato, ed aveva quindi in sé qualcosa di festivo, di solenne-si dicesse
dunque pure quello che si voleva, fatto sta che la malattia significava una
superaccentuazione dell’elemento corporeo; essa additava, per così dire,
all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la
dignità umana fino al suo annientamento, appunto perché abbassava l’uomo fino a
diventare soltanto corpo. La malattia era dunque inumana”.
Il gesuita naturalmente ribatte e confuta questa teoria:
“Naphta replicò dicendo che la malattia era invece altamente umana; poiché
essere uomo significa essere malato”[3].
Leopardi
Il malato, l’infelice, l’insicuro è più egoista del sano, felice, sicuro: “Io, inclinato all’egoismo, perché debole e infermo, sono mille volte più egoista l’inverno che la buona stagione, nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza dell’avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico” (Zibaldone).
Infine Nietzsche: “Quando uno pensa molto e intelligentemente, non solo il suo volto, ma anche il suo corpo acquista un aspetto intelligente”[4].
Quando uno pensa male, il suo corpo sta male.
Non si deve sottovalutare mai sottovalutare il linguaggio del corpo: “il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’”[5]
Lucia continua a vivere con una maschera, la vita per lei è una partita a scacchi: mette “in atto con perentorietà una tattica da gnorri”, quella che una volta era “connessa alla completa metamorfosi subita dal suo comportamento quando passava dall’intimità della casa al galateo dell’aria aperta”(p. 55).
Leopardi
Il malato, l’infelice, l’insicuro è più egoista del sano, felice, sicuro: “Io, inclinato all’egoismo, perché debole e infermo, sono mille volte più egoista l’inverno che la buona stagione, nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza dell’avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico” (Zibaldone).
Infine Nietzsche: “Quando uno pensa molto e intelligentemente, non solo il suo volto, ma anche il suo corpo acquista un aspetto intelligente”[4].
Quando uno pensa male, il suo corpo sta male.
Non si deve sottovalutare mai sottovalutare il linguaggio del corpo: “il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’”[5]
Lucia continua a vivere con una maschera, la vita per lei è una partita a scacchi: mette “in atto con perentorietà una tattica da gnorri”, quella che una volta era “connessa alla completa metamorfosi subita dal suo comportamento quando passava dall’intimità della casa al galateo dell’aria aperta”(p. 55).
Una metamorfosi assai nociva per la salute. Non essere se
stesso fa molto male alla salute. Mi stupisco che i medici non ne mettano in
guardia i pazienti.
Marco guarda vecchie foto di Lucia e riflette sul male che
l’ha devastata, sulla loro amicizia con Ernesto, sul romanzo di Ernesto che per
molte pagine “di mirabolante furore barocco” (p. 57) dichiarava, attraverso
l’io narrante il suo odio per il fratello pazzo, o simulatore di pazzia come
l’Enrico IV di Pirandello. L’odio fraterno è piuttosto un tema da tragedia
greca o senecana.
Un ispiratore dei due personaggi era lo stesso Marco. La
figura del fratello gli somigliava “nella sua astuta e malata scelta
d’inesperienza” (p. 58)
Quell’incipit di narrativa gli sembra “un ircocervo formale;
quasi un mostro generato insieme da Ernesto e dalla parte di me che non riesce
a confessarsi” (p. 59). Marco beve molte Menabree, francamente non so cosa
sono, e rimugina pensieri più o meno sconclusionati. Cerca “per quanto poco
nicciani si sia” (p. 59) di giungere all’accettazione, anzi al “proprio sì di
elogio al fatto compiuto”, all’amor fati.
Questo è un segno di maturità o di resa, secondo il punto di vista.
E allora sentiamo d nuovo Nietzsche: “La mia formula per la
grandezza dell’uomo è amor fati: non
voler nulla di diverso, né dietro, né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non
solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario-tutto l’idealismo è
una continua menzogna di fronte al necessario-ma amarlo…”[6].
“Ma in fondo, proprio “in fondo” a noi stessi c’è sicuramente qualcosa che non si può insegnare, un Fatum spirituale granitico…ciò che “in fondo a noi” non è insegnabile”[7].
“Ma in fondo, proprio “in fondo” a noi stessi c’è sicuramente qualcosa che non si può insegnare, un Fatum spirituale granitico…ciò che “in fondo a noi” non è insegnabile”[7].
“Il necessario non mi ferisce; amor
fati è la mia intima natura, das ist meine
innerste Natur ”[8].
La Necessità.
L’amore o almeno l’accettazione del fato è preceduta dalla presa di coscienza della Necessità.
La Necessità.
L’amore o almeno l’accettazione del fato è preceduta dalla presa di coscienza della Necessità.
Questa è una divinità non placabile nella tragedia greca.
Nell'Agamennone di Eschilo dove Clitennestra dice:"to; mevllon h{xei" (v. 1240), il futuro verrà[9].
Secondo Eschilo anzi alla parte (Moira ) assegnata dal destino nemmeno Zeus può sfuggire ( Prometeo incatenato, 518).
Prometeo, il sedicente benefattore tecnologico sa che la necessità è più forte delle sue tevcnai, del suo sapere pratico: “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ” (Prometeo incatenato, v. 514):, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Nell'Agamennone di Eschilo dove Clitennestra dice:"to; mevllon h{xei" (v. 1240), il futuro verrà[9].
Secondo Eschilo anzi alla parte (Moira ) assegnata dal destino nemmeno Zeus può sfuggire ( Prometeo incatenato, 518).
Prometeo, il sedicente benefattore tecnologico sa che la necessità è più forte delle sue tevcnai, del suo sapere pratico: “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/ ” (Prometeo incatenato, v. 514):, la conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh
viene apertamente affermato da Euripide nell'Alcesti. Nel terzo Stasimo della tragedia più antica ( è del 438)
tra le diciassette a noi pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista
come la divinità massima, quella che vincola e subordina tutti, compresi gli
dèi:
"Io attraverso le muse/mi lanciai nelle altezze, e/ho
toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn
aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della
Necessità né alcun rimedio (krei'sson
oujde;n jAnavgka"-hu|ron oujdev ti favrmakon)/nelle tavolette
tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né tra quanti farmaci/diede agli
Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe come antidoti/per i mortali
afflitti dalle malattie"(vv. 962-972). Da questi versi si vede che la
Necessità è più forte del lovgo"
, della poesia, dell'arte medica. Se confrontiamo le due tragedie possiamo
affermare che la Necessità ha una potenza confrontabile solo con lo qumov".
“For Euripides, Man is the slave, not the favourite child,
of the gods;[10]
and the name of the ‘ageless order’ is Necessity. krei'sson oujde;n jAnavgka"-hu|ron, cry the Chorus in
the Alcestis[11].”[12], per Euripide
l’Uomo è lo schiavo, non il figlio favorito degli dèi; e il nome di ordine
eterno è Necessità, niente ho trovato più forte della Necessità, grida il Coro
dell’Alcesti.
Platone, della generazione successiva a quella di Euripide,
sostiene che l'asse dell'Universo è il fuso di Ananche (616c) il quale si volge sulle ginocchia (617b) di lei, madre
delle Moire : Cloto, Atropo e Lachesi
che distribuisce le parti la cui scelta del resto è relativamente libera.
Altrettanto nella Medea della Wolf:"Ciò che deve
accadere, è deciso da tempo senza di noi" (p.171).
VIII capitolo pp. 61-73
I due si incontrano in via Castiglione per andare nella
Bassa, ma Lucia propone di andare oiuttosto a trovare Davide, il fratello matto
di Ernesto. Si trova a Villa Baruzziana, una casa di cura, di fatto un
manicomio. Prendono via dell’Osservanza dove 5 anni prima Ernesto si è
schiantato con la macchina in un incidente. Alcuni squilibrati si muovono “sul
bellissimo velluto del prato, simili a pedine di un gioco misterioso” (p. 64).
Un gioco comunque truccato, truccato da forze miteriose.
In un frammento (895) di Sofocle leggiamo: “ajei; ga;r eu\ pivptousin oiJ Dio;~ kuvboi”,
i dadi di Zeus cadono sempre bene, ossia sono truccati.
Appare Davide che ha assunto l’aspetto e gli atteggiamenti
di Ernesto.
“sembra un attore compiaciuto dall’effetto prodotto dalla
sua recita” (p. 65). I pazzi forse sono giudicati tali perché recitano male.
Infatti recitiamo tutti, sempre, come Pisistrato quando si ferì da solo
Ce lo racconta Plutarco nella Vita di Solone. Il feritore di se stesso è il futuro tiranno di
Atene, un personaggio del resto non del tutto negativo, “seducente e amabile
nel conversare, uno che soccorreva i poveri ed era umano e moderato nei
confronti degli avversari (29, 3). Ebbene questo capo politico “feritosi da
solo, si fece portare su un carro nell’agorà dove istigava il popolo dicendo di
essere stato vittima di un attentato a causa della sua posizione politica.
Allora molti si associavano al suo sdegno e rumoreggiavano. Invece Solone, che
aveva confidenza con lui, gli disse: “Fai male a recitare la parte dell’Odisseo
di Omero: lui infatti si ferì per ingannare i nemici, tu invece fai lo stesso
per trarre in inganno i tuoi concittadini” (30, 1). Entrambi comunque
recitavano, come recita Davide e pure Lucia e anche Marco.
Davide saluta i due conoscenti con il tono leggermente
adulatorio che si usa nella Bologna bene: “tu sei il famoso Molinari. Ti leggo
sai” (p. 65). Cos’ si dice a chi ha fama di scrittore. Il più delle volte
mentendo. Le parole sono dette non senza una cantilena.
Marco riconosce in Davide anche qualche cosa di se stesso.
Entrambi hanno cercato “alibi per non vivere nel mondo” (p. 66).
Davide li porta a vedere la sua stanza “al tempo stesso
lussuosa e monacale” (p. 66).
Lucia gli chiede “studi?” con un tono “insopportabilmente
affettato” (p. 66). L’affettazione evidente è il segno del malessere, e pure
della cattiva educazione di questa gente che appare, vuole apparire ben
educata.
L’affettazione evidente del resto equivale a recitare male.
L’affettazione (è già presente in
una nota della prima parte. La ripeto qui in piena pagina con qualche
aggiunta).
Infatti, scrive Castiglione "somma disgrazia a tutte le
cose dà sempre la pestifera affettazione e per contrario grazia estrema la
simplicità e la sprezzatura" Quindi la gentildonna non deve mostrare
l'artificio :"questi vostri difetti di che io parlo vi levano la grazia,
perché d'altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad
ognuno scopertamente il troppo desiderio d'esser belle" (I, 40).
Leopardi trova grande saggezza e verità in queste parole:
“Grazia del contrasto. Conte Baldessar Castiglione, il libro del Cortegiano…Ma
avendo io già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando
quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi
par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più
che alcun altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e
pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in
ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si
fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo
io che derivi assai la grazia” (Zibaldone,
2682).
Anche A. Schopenhauer[13]
negli Aforismi sulla saggezza della vita
prescrive di evitare l'affettazione:"Si deve...mettere in guardia di fronte a qualsiasi affettazione. Questa
provoca in ogni caso il disprezzo, in primo luogo perché è un inganno...in
secondo luogo perché rappresenta un giudizio di condanna pronunciato da una
persona su se stessa, volendo essa in tal caso apparire ciò che non è, e
mostrarsi di conseguenza come migliore di quanto essa sia. L'affettazione di una qualità e il
pavoneggiarsi con questa costituiscono una confessione spontanea della sua
mancanza. Se uno si fa bello di un qualche pregio, sia poi esso
coraggio, erudizione, spirito, arguzia, fortuna presso le donne, ricchezza, posizione
elevata, o qualunque altra cosa, si può
dedurre da ciò che a lui manca qualcosa proprio in ciò di cui si vanta:
a chi infatti possiede realmente in modo completo una qualità, non verrà mai in
mente di metterla in mostra e di affettarla, e se ne starà ben tranquillo a
questo proposito"[14].
Il conte Alessandro Manzoni conosce le regole dello stile aristocratico e
non omette di biasimare l’affettazione. Nell'Introduzione a I promessi sposi
squalifica lo stile del "buon secentista" definendolo "rozzo insieme e affettato...Ecco qui:
declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto
quella goffaggine ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel
secolo, in questo paese". Quindi la decisione di "rifarne la
dicitura".
Sentiamo di nuovo Leopardi a
proposito dell’affettazione nello scrivere: “l’affettazione è la peste d’ogni
bellezza e d’ogni bontà, perciò appunto che la prima e più necessaria dote sì
dello scrivere, come di tutti gli atti della vita umana, è la naturalezza (28.
Feb. 1821)[15].
Anche Dostoevskij in I fratelli Karamazov considera
l'affettazione segno di cattiva educazione: Alioscia sebbene affascinato da Gruscenka" si domandava con
un'oscura sensazione sgradevole e quasi con commiserazione perché ella strascicasse
le parole a quel modo e non parlasse in
tono naturale. Evidentemente, lo faceva perché trovava bella quella
pronuncia strascicata e quella sdolcinata e forzata attenuazione delle sillabe
e dei suoni. Certo, non era che una cattiva abitudine di dubbio gusto, la quale testimoniava un'educazione volgare e
una volgare comprensione, acquisita sin dall'infanzia, delle convenienze e del
decoro"[16].
Davide rivolge qualche rimprovero a Ernesto e a tutta la sua
famiglia: “dove loro vedevano opportunità io vedevo ostacoli: e la mia
vocazione è appianarli, è ridurre tutto all’essenziale” (p. 67). E’ in fondo la
vocazione del genio. Ma poi prende il sopravvento il pazzo: ripete la parola
“essenziale” come un tic.
Quindi si dichiara inferiore a Ernesto “con un narcisismo
rovesciato” (p.68). Una bella espressione che utilizzerò.
Lucia dà una interessante definizione di scienze politiche:
“una versione fancazzista di economia o giurisprudenza” (p. 68).
Davide “sembra un Ernesto manovrato da uno Ionesco occulto”
(p. 69). Poi però “si affloscia sulla sedia come una marionetta cui abbiano
tagliato i fili” (p. 70). Oramai è scarico. In fondo tutti noi funzioniamo
finché abbiamo una carica. Siamo tutti caricati e ricaricati giornalmente da
qualche cosa: alcol, sesso, i momenti dionisiaci, coribantici della vita o il
cibo del sileno “di carni pieno” il sonno, lo studio. Secondo.
Davide ripete che deve andare a studiare. Studiare e
svagarsi, ripetute prima con accento autoparodico, poi “in una spirale verbale
sempre più ripida” (p. 72). Infine ripiomba in se stesso, come Edipo nella
madre.
Poi “le medicine sono fondamentali” deve prenderle. Questo è
rimasto l’essenziale. In chiusura di capitolo li saluta stringendo loro le mani
“con una flemma cordiale, quasi distante, che fa pensare al perfetto aplomb di
un diplomatico” (p. 73). Lucia e Davide sono rappresentanti di una società
falsa, sepolcrale, morente. Molinari deve staccarsene.
Giovanni Ghiselli, 13 agosto
[9] Altrettanto
nella Medea della Wolf: "Ciò che deve accadere, è deciso da tempo
senza di noi" (p.171).
[10] Or. 418.Oreste
riconosce l’oggettiva sottomissione degli uomini a potenze che li sovrastano:
"Noi siamo asserviti agli dèi, qualsiasi cosa siano mai gli dèi" (v.
418). Una dichiarazione di malinconica impotenza che ritroviamo accentuata ed
esasperata nel Re
Lear : "As flies to wanton boys are we to the gods. They kill us for
their sport"(IV, I), come mosche per ragazzi capricciosi siamo noi per gli
dèi: ci ammazzano per loro passatempo. Ndr
[11] 965; cf. Hel. 513 f., and
the repeated insistence that Man is subject to the same cycle of physical
necessity as Nature, frags. 330, 415,
757. Cfr. Elena 513
ss. e la ripetuta insistenza che l’Uomo è soggetto al medesimo ciclo della
necessità fisica, come Natura, frammenti 330, 415, 757.
Giovanna
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