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mercoledì 21 agosto 2013

La condizione della donna: Boccaccio, Euripide, Aristofane, Senofonte




Prima parte della conferenza che terrò il 2 settembre alla festa provinciale dell’Unità di Bologna.

Il tema è Boccaccio

In questa sezione prendo spunto dal Proemio del Decameron per parlare della condizione delle donne.
Il Decameron fu scritto da Giovanni Boccaccio tra il 1349 e il 1353.

Il Proemio
La compassione e la gratitudine.
Il Proemio comincia così: “Umana cosa è l’aver compassione degli afflitti”, che poi sono uomini innamorati non contraccambiati, e soprattutto le donne innamorate e respinte.
Scrive per gratitudine verso chi gli ha dato conforto in un amore ormai passato poiché “la gratitudine tra l’altre vertù è sommamente da commendare ed il contrario da biasimare”.
Cfr. la condanna dell’ingratitudine in Senofonte[1], e l’elogio della gratitudine nell’Eracle di Euripide[2].

La condizione femminile. La reclusione della donna .
Il conforto sarà conveniente donarlo “più alle vaghe donne che agli uomini… Esse dentro a’dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascoste” fiamme più forti delle palesi e “oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano, e quasi oziose[3] sedendosi… Seco rivolgono diversi pensieri, li quali non è possibile che sieno sempre allegri”.

Medea, la donna abbandonata e non rassegnata.
Leggiamo alcuni versi con i quali la Medea di Euripide lamenta la reclusione in casa delle donne.

“Fra tutti gli esseri, quanti sono vivi e hanno raziocinio,
noi donne siamo la creatura più tribolata:
noi che innanzitutto dobbiamo comprare[4] un marito
con gran dispendio di ricchezze, e prenderlo come padrone
del corpo, e questo è un male ancora più doloroso del male.
E in questo sta la gara massima, prenderlo cattivo
o buono. Infatti non danno buona fama le separazioni
alle donne, e non è possibile ripudiare lo sposo.
Quella poi giunta tra nuovi costumi e leggi,
bisogna che sia un'indovina, se non ha appreso da casa
con quale atteggiamento tratterà nel modo più appropriato il marito.
E se con noi che ci affatichiamo in questo con successo,
il coniuge convive, sopportando il giogo non per forza,
la vita è invidiabile; se no, bisogna morire.
Un uomo poi , quando gli pesa stare insieme a quelli di casa,
uscito fuori, depone la noia dal cuore
(volgendosi a un amico o a un coetaneo):
per noi al contrario è necessario mirare su una sola persona.
Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli
in casa, mentre loro combattono con la lancia,
pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo
preferirei stare che partorire una volta sola “. (
Medea, vv. 230-251).

La moglie silenziosa e sottomessa: Andromaca, personaggio delle tragedie di Euripide Troiane e Andromaca.
L’Andromaca delle Troiane (del 415) di Euripide è tutt’ altro tipo di sposa. Anche Ettore del resto non era Giasone
Sentiamo la vedova dell’eroe troiano :
"Io che mirai alla buona fama (ejgw; de; toxeuvsasa[5] th'" eujdoxiva", v.643) / dopo averla ottenuta in larga misura, fallivo il successo (th'" tuvch" hJmavrtanon, v. 644) [6]./Infatti quelle che sono le qualità conosciute di una sposa saggia / io le mettevo in pratica nella casa di Ettore. / Là dunque per prima cosa / che vi sia o non vi sia / motivo di biasimo per le donne (yovgo" gunaixivn, v. 648) / la cosa in sé attira / cattiva fama se una donna non rimane in casa [7], / io, messo via il desiderio di questo, rimanevo in casa ("e[mimnon ejn dovmoi"", v. 650); / e dentro casa non facevo entrare scaltre chiacchiere di donne /, ma avendo come maestro il mio senno (to;n de; nou'n didavskalon, v. 652)/ buono per natura, bastavo a me stessa. / E allo sposo offrivo silenzio di lingua e volto / calmo ("glwvssh" te sigh;n o[mma q j h{sucon povsei-parei'con", vv. 654-655); e sapevo in che cosa dovevo vincere lo sposo, / e in che cosa bisognava che lasciassi a lui la vittoria" (vv. 643-656).

La totale abnegazione di Andromaca in favore del marito.
In un’altra tragedia, Andromaca, la vedova di Ettore istruisce la più giovane Ermione dicendole che addirittura lei allattava i bastardi del proprio sposo.
La competizione va abolita per lasciare la vittoria all'uomo: "Bisogna infatti che la donna, anche se viene data in moglie a un uomo da poco/lo ami e non faccia gare di pensieri" (Andromaca, vv. 213-214).
In nome della sottomissione, Andromaca suggerisce di abbassare la testa e reprimere ogni sentimento e pensiero che non sia di devozione nei confronti dello sposo. Quindi, poco più avanti, aggiunge:: "O carissimo Ettore, io per compiacerti / partecipavo ai tuoi amori[8], se in qualche occasione Cipride ti faceva scivolare,/e la mammella ho offerto già molte volte ai tuoi bastardi /, per non darti nessuna amarezza. / E così facendo attiravo a me lo sposo / con la virtù ; tu[9] neppure una goccia di celeste rugiada/ lasci che si posi sul tuo sposo per paura" (vv. 222-228).
L'abnegazione di Andromaca arriva al punto di accettare le amanti di Ettore condividendo gli amori di lui, ossia amandole. Se questo le dava amarezza (pikrovn , v. 225) non importa: bastava toglierla allo sposo.

L’antifemminismo di Andromaca e quello, vero o presunto, di Euripide

Euripide ha ricevuto da Aristofane, tra l’altro, la reputazione di misogino: nelle Tesmoforiazuse che rappresenta le donne alla festa di Demetra, una battuta attribuita al personaggio del tragediografo manifesta il suo timore delle femmine umane decise a vendicarsi per tutte le maldicenze, più o meno giustamente, subite: “mevllousi m j aiJ gunai'ke~ ajpolei'n thvmeron / toi'~ Qesmoforivoi~, o[ti kakw'~ aujta;~ levgw" (vv. 181-182), oggi alle Tesmoforie le donne vogliono uccidermi poiché dico male di loro[10].

Andromaca dunque conclude l'episodio (il primo della tragedia) scagliando un anatema contro tutte le donne immorali, o contro tutte le donne esclusa se stessa, se vogliamo dare credito alla nomea di antifemminismo del suo creatore:

"E' terribile che uno degli dèi abbia concesso farmaci
ai mortali anche contro i morsi dei serpenti velenosi,
mentre per ciò che va oltre la vipera e il fuoco,
per la donna, nessuno ha trovato ancora dei rimedi
se è cattiva: così grande male siamo noi per gli uomini"(269-273).
Un antifemminismo certamente professato da Andromaca nel secondo episodio:
"non bisogna preparare grandi mali per piccole cose
né, se noi donne siamo un male pernicioso,
gli uomini devono assimilarsi alla nostra natura"(352-354).

Più avanti Ermione, la moglie legittima, parlando con Oreste, deplora la rovina subita dalle visite delle comari maligne: "kakw'n gunaikw'n ei[sodoi m ' ajjpwvlesan" (v. 930). La sposa che permette a tale genìa di guastare la sua intesa coniugale, viene come trascinata da un vento di demenza. Sentiamo la figlia di Menelao pentita di essersi lasciata montare la testa da queste pessime maestre che hanno provocato la rovina del suo matrimonio con Neottolemo: "Ed io ascoltando queste parole di Sirene[11], / scaltre, maligne, variopinte, chiacchierone, / fui trascinata da un vento di follia. Che bisogno c'era infatti che io / controllassi il mio sposo, io che avevo quanto mi occorreva? / grande era la mia prosperità, ero padrona della casa, / e avrei generato figli legittimi, / quella[12] invece dei mezzi schiavi e bastardi[13] servi dei miei. / Mai, mai, infatti non lo dirò una sola volta, / bisogna che quelli che hanno senno, e hanno una moglie, / lascino andare e venire dalla moglie che è in casa / le donne: queste infatti sono maestre di mali: / una per guadagnare qualcosa contribuisce a corrompere il letto, / un'altra, siccome ha commesso una colpa vuole che diventi malata con lei, / molte poi per dissolutezza; quindi sono malate / le case degli uomini. Considerando questo, custodite bene / con serrature e sbarre le porte delle case; / infatti nulla di sano producono le visite / dall'esterno delle donne ma molte brutture e anche dei mali (vv. 936-953).

Secondo Senofonte[14] la sposa deve occuparsi dei lavori interni alla casa, mentre il marito seguirà quelli esterni. Infatti per la donna è più bello restare dentro casa che vivere fuori (" Th'/ me;n ga;r gunaiki; kavllion e[ndon mevnein h] quraulei'n", Economico , VII, 30); per l'uomo al contrario è più vergognoso rimanere in casa che impegnarsi nelle cose esterne.

Nella Lisistra, Aristofane fa dire all'ateniese Cleonice:"caleph; toi gunaikw'n e[xodo" "(v. 16), è difficile per noi donne uscire. Infatti, spiega questa sposa, una di noi deve attendere il marito, l'altra deve svegliare lo schiavo, l'altra mettere a letto il bambino, l’altra lavarlo, l'altra imboccarlo (vv. 17-20). Ma, ribatte Lisistrata, ci sono cose più importanti per loro (v. 20). Si tratta di porre termine alla guerra. Noi donne di Atene, con quelle di Beozia e con quelle del Peloponneso, sostiene la protagonista, insieme salveremo la Grecia (koinh'/ swvsomen th;n JEllavda"[15] (v. 41).

Mettiamoci almeno un autore latino, un santo per giunta.
Al tipo della moglie sottomessa appartiene Monica, la madre di Agostino la quale “tradita viro servivit veluti domino” (Confessiones, 9, 9), affidata al marito, lo servì come un padrone. Non solo: “ita autem toleravit cubilis iniurias, ut nullam de hac re cum marito haberet umquam simultatem”, del resto tollerò le offese del letto tanto da non farne mai motivo di litigio.
E non è finita qui: aveva imparato a non opporsi al marito infuriato e questa remissività la salvava dalle botte che invece le mogli litigiose buscavano. E quando ne parlavano con lei “illae arguebant maritorum vitam, haec earum linguam”, quelle accusavano la vita dei mariti, ella la loro lingua. Ricordava pure che il contratto matrimoniale prevedeva la loro schiavitù, per cui, memori della loro condizione, non era il caso che fossero arroganti con i loro padroni: “proinde memores conditionis superbire adversus dominos non oportere”. Ella con il suo metodo non prendeva botte dal pur violento marito Patrizio. Insomma Monica era persevērans tolerantiā et mansuetudine, persistente nella tolleranza e nella mansuetudine.
E, per concludere la rassegna, un autore mitteleuropeo.
Non diversi da quelli di Ettore sono i gusti del triestino Zeno:"Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina"[16].

Ma torniamo a Boccaccio
Il Certaldese afferma, come la Medea di Euripide, che gli uomini, diversamente dalle donne, hanno molte possibilità di alleviare “malinconia o gravezza di pensieri…che a loro, volendo essi, non manca l’andare attorno, udire e vedere molte cose, uccellare, cacciare o pescare, cavalcare, giucare o mercatare” attività con le quali possono trarre l’animo a sé “e dal noioso pensiero rimuoverlo”.

In conclusione di Proemio, l’autore del Decameron espone la sua intenzione di porre un rimedio al peccato della fortuna.
Questa “ dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno”. E allora: “ in soccorso e rifugio di quelle che amano, perciò che all’altre è assai l’ago il fuso e l’arcolaio, io intendo di raccontare cento novelle o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistilenzioso tempo della passata mortalità”.

Giovanni Ghiselli

[1] Senofonte Nella Ciropedia annette al vizio capitale dell'ingratitudine quello dell'impudenza che
 anzi considera madre di tutte le turpitudini: "e{pesqai de; dokei' mavlista th'/ ajcaristiva/ hJ 
ajnaiscuntiva: kai; ga;r au}th megivsth dokei' ei\nai ejpi; pavnta ta; aijscra; hJgemwvn" (I, 2, 7),
 pare che all'ingratitudine di solito si accompagni l'impudenza: questa infatti sembra essere 
la guida più grande verso tutte le brutture.
[2] Il tragediografo mette in evidenza il grande valore della gratitudine quale componente dell'amicizia nell'Eracle dove Teseo non ha dimenticato l'aiuto ricevuto dall'amico che lo ha riportato in luce dal regno dei morti (v. 1222) e, disponendosi ad aiutarlo, gli dice: "cavrin de; ghravskousan ejcqaivrw fivlwn" (v. 1223), io odio la gratitudine degli amici che invecchia, e chi vuole godere delle cose belle ma non imbarcarsi con gli amici quando se la passano male.
[3] L’ozio è un pessimo consigliere: spinse Egisto a sedurre la cognata e a preparare la morte del marito tradito e di loro due amanti. Cfr. Ovidio: "Quaeritis Aegisthus quare sit factus adulter; / in promptu causa est; desidiosus erat" (Remedia amoris, vv. 161-162), volete sapere perché Egisto divenne adultero? il motivo è a portata di mano: non aveva nulla da fare. Gli altri Greci infatti facevano la guerra e ad Argo non c'erano processi a impegnarlo.
[4] Con la dote.
[5] L'ottima sposa si presenta, metaforicamente, come un arciere toxovth" che con il suo arco (tovxon) mira alla buona reputazione cui si accompagna la felicità nella culture of shame
[6] Euripide sembra indicare l'insufficienza "della cultura di vergogna"
[7] Nell'Elettra di Euripide il contadino che ha sposato la figlia di Agamennone senza del resto consumare il matrimonio, dopo avere visto la moglie che parla con Oreste davanti alla casupola, le dice: "gunaikiv toi-aijscro;n met' ajndrw'n eJstavnai neaniw'n" (vv. 343-344), per una donna certo è una vergogna stare fuori con uomini giovani.
[8] Cfr. Amarcord di Fellini.
[9] Andromaca sta istruendo la più giovane Ermione che è anche la moglie di Neottolemo il quale la pospone alla vedova di Ettore. 
[10] Il parente che si reca alla festa travestito da donna per difendere Euripide, risponde all’accusatrice la quale lo rimprovera poiché fa il paladino di un tragediografo che non ha rappresentato mai una Penelope, gunh; swvfrwn (Tesmoforiazuse, v. 548), una signora per bene. Ecco le parole del difensore di Euripide :"io infatti conosco la causa: ché, tra le donne di ora, non potresti menzionarmi una sola Penelope, sono tutte Fedre, dalla prima all'ultima"(vv. 549-550). Con questo nome si intende la moglie infedele, anzi sgualdrina come viene chiamata Fedra in compagnia di Stenebea nelle Rane (v. 1043). Ma la creatura di Euripide è un'altra cosa. Casomai donna favorevole ai facili costumi nell’Ippolito è la nutrice di Fedra che cerca di favorire il soddisfacimento della libidine della sua signora per il figliastro in varie maniere: prima spingendola a non curarsi dell'integrità morale: "chi è nato per morire non deve passare la vita affaticandosi troppo" (Ippolito, v. 467); quindi tentando di chiarirle di quale cosa veramente necessiti:"tu non hai bisogno di parole piene di decoro, ma di quell'uomo"(Ippolito, 490-491). Infine la nutrice rivela l’amore della sua pupilla a Ippolito il quale, dedito principalmente a intrecciare ghirlande con fiori colti da prati immacolati (vv.73-74) per donarle ad Artemide, una dea vergine, dà in escandescenze, e si scaglia contro le femmine umane tutte, biasimate in ogni possibile versione, tanto che per ciascuna viene auspicata come naturale la convivenza con le bestie mute (v.646). Leggiamo l’intera invettiva: “O Zeus perché ponesti nella luce del sole le donne, un male ingannatore per gli uomini? Se infatti volevi seminare la stirpe mortale, non era necessario ottenere questo dalle donne , ma bastava che i mortali mettendo in cambio nei tuoi templi oro e ferro o un peso di bronzo, comprassero il seme dei figli, ciascuno del valore del dono offerto, e vivessero in case libere, senza le femmine. Ora invece quando dapprima stiamo per portare in casa quel malanno, sperperiamo la prosperità della casa. Con questo è chiaro che la donna è un gran malanno: infatti il padre che l'ha generata e allevata, dopo avere aggiunto la dote la colloca altrove, per liberarsi da un male. Quello che ha preso in casa la pianta perniciosa invece, gode nel caricare di ornamenti belli l'idolo pessimo e si affatica per i pepli, infelice, distruggendo la ricchezza della casa. Ma è costretto al punto che, se si è imparentato bene, si tiene lieto un letto amaro, mentre, se ha preso buoni letti ma parenti inutili stringe con il bene una sciagura. E' più facile per quello con il quale si è messa in casa una nullità, che del resto è una donna inutile per la stoltezza. La saccente poi la detesto; che non stia in casa con me una donna la quale pensi più di quanto a una donna convenga. Infatti l'operare malvagio Cipride lo fa nascere più nelle saccenti; mentre una donna sprovveduta è sottratta alla pazzia dalla sua mente corta. Bisognerebbe poi che dalla donna non andasse una serva ma che con loro vivessero le mute bestie feroci tra i bruti, affinché non potessero parlare ad alcuno né ricevessero a loro volta voce da quelle. Ma ora le scellerate che sono in casa filano tele scellerate e le serve le portano fuori. Come anche tu, certo, scellerata testa, sei venuta da me per trafficare il letto inviolabile del padre, infamie che io ripulirò con acque correnti, versandole nelle orecchie. Come dunque potrei essere cattivo io che avendo udito tali infamie ritengo di essere impuro? Sappi bene o donna che ti salva la mia religiosità: se infatti non fossi stato preso alla sprovvista da giuramenti sugli dèi, non mi sarei mai trattenuto dal rilevare questo al padre. Ma ora me ne vado al palazzo finché Teseo è lontano dalla regione, e terrò la bocca in silenzio. Poi, tornato con il piede del padre, osserverò come lo guarderai tu e la tua padrona; e mi renderò conto, avendola assaggiata, della tua sfrontatezza. Possiate morire! Non mi sazierò mai di odiare le donne, neppure se uno dice che io lo ripeto sempre; infatti quelle appunto sono sempre malvagie in una maniera o nell'altra. Dunque o qualcuno insegna loro a essere sagge, oppure lasci che io le calpesti sempre" (Ippolito  vv. 616-668).
[11] Sono mostri che adescano i naviganti con la malìa del loro canto per poi ucciderli. Per attirare Odisseo gli dicono che chi fa sosta da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose ("kai; pleivona eijdwv"", Odissea, XII, 188). Ma il figlio di Laerte, unico tra gli uomini, riesce a udire il canto delle Sirene senza esserne sedotto. Come nel caso di Circe, come in quello dell'accesso all'Ade, egli sa che cosa deve fare, e di fronte alle Sirene escogita uno stratagemma: tappa gli orecchi dei suoi marinai e si fa legare all'albero della nave.
[12] Andromaca che dopo la morte di Ettore e la caduta di Troia era diventata , per forza, schiava e amante di Neottolemo, il figlio di Achille. .
[13] Si può pensare all'elogio dei bastardi pronunciato da Edmondo, il figlio illegittimo (di Gloster) che nel Re Lear si presenta come devoto adoratore della dea natura. "Thou, Nature, art my goddess". Bastardo dunque, secondo la natura, è un titolo onorifico: "Noi nel gagliardo furto di natura prendiamo una tempra più solida maggior fierezza di carattere rispetto ai gonzi generati tra il sonno e la veglia in un letto freddo, frollo e fiacco" (I, 2).
[14] 430 ca-355ca a. C.
[15] Ricevo oggi, 3 marzo 2003, questa posta elettronica dagli USA:"Oggi, in almeno 600 citta americane, leggeranno Lysistrata (non lo so come
si scrive in italiano) come una forma di lotta contro la guerra. Purtroppo non ho informazione piu precise, la cosa e organizzata da un
gruppo di femministe, l'ho sentita su CNN.
Tanti saluti .Agatha. 
[16] Svevo, La coscienza di Zeno, p. 241.

1 commento:

  1. ciao Gianni,i tuoi brani sono sempre interessanti...non vedo l'ora di assistere alla tua conferenza del 2 Settembre a Bologna : devo dire che hai stuzzicato la mia curiosità con questi esempi ( o suggerimenti?) di comportamenti femminili .Se la mitezza e la mansuetudine aiutano i rapporti mi sembra di ricordare che le donne del Boccaccio suggeriscono anche altri modelli,...insomma conto sulla bella conferenza che terrai per approfondire l'argomento. Dalle tue lezioni imparo sempre tanto e te ne sono grata. Giovanna

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