III e ultima parte della
conferenza che terrò il 28 agosto alle ore 21 nella libreria della
Festa provinciale dell’Unità di Bologna.
Presenterò il libro Atti
mancati di Matteo Marchesini, Voland, Roma
2012
IX capitolo (pp. 74-88)
Usciti da villa Baruzziana, Marco
e Lucia sono in macchina sullo stradone verso la Persicetana. L’uomo
quasi trema di rabbia per l’assurdità della visita grottesca cui
lei l’ha costretto. Ha la sensazione che Lucia giochi con lui.
Ha pure la sensazione che la
ragazza abbia voluto mettergli “davanti Davide come uno specchio
appena deformato” (p. 75).
Il decisionismo di lei lo
ipnotizza e lo immobilizza.
Lucia ha la vocazione delle
metamorfosi; dove c’è lei le cose cambiano (p. 76) e i suoi
mutamenti penetrano perfino nei sottilissimi spifferi di realtà che
Marco lascia entrare in sé.
Apre bocca Lucia con
“allegria…sinistra”.
E’ un efficace ossimoro, e del
resto Lucia stessa e Marco e Davide, Ernesto sono tutti ossimori
viventi, come Bruto e Amleto. Questi sono falsi sciocchi, loro sono
false persone.
Di Davide, Marco dice: “sembra
che abbia assoldato un truccatore” (p. 76). Ha cambiato immagine
“per parassitare il fratello morto, per prenderne beffardamente il
posto”.
Comunque Davide recitava, ha
sempre recitato.
L’automobile imbocca la Centese
(p. 77).
Marco
avverte nell’aria l’Eris1
che certi personaggi associano sempre a Eros: Lucia parla “come se
mi stesse concedendo un breve armistizio” (p. 77).
Scendono alla trattoria Bonasoni
di San Matteo della Decima. Per loro è un luogo storico, quasi
sacro, un monumento al loro passato.
Marco ricorda le prime volte che
andarono insieme in quel luogo ultrapopolare, frequentato da
camionisti in tuta e “la felicità esotistica” (p. 78) di Lucia.
Noi del ’68 andavamo nei paesi
dell’est, quelli del patto di Varsavia per amore dell’esotismo
socio politico. Più tardi, a Bologna, al Mulino Bruciato o dai tre
vecchi di San Pietro.
Loro due all’epoca erano
contenti e si lasciavano andare: per brevi tratti cadeva la maschera
e ogni affettazione.
Ma la maschera cadrà del tutto
solo negli ultimi capitoli, in prossimità della morte di lei
Cito alcuni esametri di Lucrezio
dove l’autore del De rerum natura sostiene che la maschera
cade del tutto nelle difficoltà e nei pericolo:"Quo magis in
dubiis hominem spectare periclis/convenit adversisque in rebus
noscere qui sit;/nam verae voces tum demum pectore ab imo/eliciuntur
<et> eripitur persona, manet res" (III, 55-58), tanto
più è necessario provare la persona nei pericoli rischiosi e
conoscerne la qualità nelle situazioni sfavorevoli; infatti le
parole autentiche allora finalmente escono dal fondo del cuore e si
strappa la maschera, rimane la sostanza.
Ora invece i due distillano le
parole e compongono quasi letterariamente le frasi (p. 79).
L’atmosfera della trattoria, i ricordi, comunque conciliano un
certo, precario, buonumore.
Ma alla domanda diretta: “
‘perché mi hai lasciato dopo il funerale?’, Lucia reagisce
“delusiva come un oracolo” (p. 80). Risponde cambiando argomento:
ha letto il troncone del romanzo di Marco.
Quindi la critica: “No so, è
come se le tue pagine fossero al tempo stesso troppo intelligenti e
un po’ cieche, come se si muovessero intorno a un centro che non
viene mai galla” (p. 81). Pagine che riflettono la paura di vedere
la realtà effettuale delle cose spogliate da “fuchi calamistri e
altri elementi ascitizi” che le mistificano.
Poi arriva il cibo. Lui si
abbuffa, lei ne lascia la metà sul piatto. Un altro segno di
discrepanza. Lucia si sente male.
Vanno comunque al Pratello.
Lucia gli ricorda il periodo in
cui lui si sottraeva al contatto fisico, come se fosse diventata sua
sorella o peggio sua madre (p. 83)
A Marco viene in mente una battuta
di Groucho Marx “sugli uomini che non accetterebbero mai di stare
con una donna che si mettesse con uno come loro” (p. 83). La realtà
è stata tenuta fuori dalla porta, vista come un noumeno.
Finalmente Lucia spiega che è
scappata per questo: “non potevo strapparti a forza dall’angolo
in cui ti eri rifugiato” (p. 83).
Un angolo, per giunta inameno.
Parlano un poco di Ernesto ma,
dice Lucia: “tu non rifiuti: lasci sfumare, piuttosto. O divaghi”.
Lucia ricorda un episodio, una
doppia commedia recitata da Marco, prima per dare importanza a se
stesso, poi, per resipiscenza, a Ernesto.
“Dietro di te spuntano subito le
erinni, come diresti tu: la vergogna, il rimorso eccessivo,
sbagliato” (p. 85). Può essere un modo per prevenire mali
peggiori.
Cfr.
uJmei`~ me;n oujc oJra`te tavsd j, ejgw; d j
oJrw` (Eschilo,
Coefore,
1061), "voi non le vedete queste, ma io le vedo". Parla
Oreste inseguito dalle Erinni.
Questo
verso cruciale è citato da Eliot quale epigrafe di Sweeny
agonista del 1930.
Quindi, nel dramma La
Riunione di famiglia
(del 1939) mostra come tali visioni siano un privilegio:"Voi non
le vedete, ma io le vedo, ed esse vedono me".
Bisognerebbe
seguire le Erinni come segni mandati da un altro mondo, non cercare
invano di evitarle con un'impossibile fuga in quella "deriva
infinita di forme urlanti in un deserto circolare" che è la
storia umana. Quelli che vedono le Erinni insomma, sono monocoli in
una terra di ciechi i quali pongono fede nell'ordine mondano non
regolato da un cosmo superiore, divino, e non fanno che fissare il
disordine con occhi vuoti.
Marco è competitivo, agonistico
ma anche frenato dalle Erinni.
Intanto beve il nero d’Avola (p.
86) e fa un gesto di resa “la canonica apertura di braccia” che
significa “colpito e affondato”.
Fanno due passi per il Pratello.
Vedono “la vecchia matta in giarrettiere e sottoveste col rossetto
sbavato e la rosa rossa piantata tra i seni flaccidi, che tutti qui
chiamano contessa” (p. 87).
Un poco di colore e folklore
della Bologna fricchettona.
Marco menziona le code di Bologna.
Io non le ho viste quasi mai, o solo qualche volta alla cassa del
cinema Odeon. Quando ero studente facevo la coda alla segreteria
della facoltà di lettere. Tra il Pratello e Belle Arti, non c’è
posto per la fretta “niente zelo, per nessun motivo al mondo” (p.
87). Eppure il tempo è il nostro bene più prezioso.
Lucia continua a fissare l’agenda
sua e di Marco il quale acconsente come se sperasse di scoprire in
lei “chissà quale saggezza purificatrice” (p. 88). Ancora il
tw/` pavqei mavqo~.
Poi però, quando lei lo saluta
con “a domani!”, “la voglia di sfuggirla” prevale di nuovo.
E’ la paura dell’autonomia minacciata, e il bisogno di tempo per
riflettere, per “assorbire tutte le sue parole e cicatrizzare le
ferite che mi hanno inflitto con quasi scientifica minuzia” (p.
88). Da questo rapporto non è assente il sadismo.
X capitolo (pp.89-93)
Lucia non si fa sentire. Marco si
butta sul lavoro. Poi, dopo 10 giorni le telefona. Risponde il padre,
il dottor Malaguti che non gli passa Lucia dicendo che è impegnata
(p. 90). Marco consuma “con la solita voracità bulimica” il suo
pranzo preferito, “quello ribattezzato da Lucia “delle tre B”:
bufala, banana, birra”. Anche bulimia comincia con b.
Gironzola , ma alla fine non può
resistere: si avvicina al portone di Lucia per suonare il campanello.
Lì vede un furgone bianco, e lo identifica come uno di quelli che
portano morfina ai malati terminali (p. 91). Gli viene in mente una
frase di Lucia “ho finito le cure” (p. 92). Il furgone è come
l’ultimo tassello .
Torna a casa dove Lucia lo chiama
con voce squillante e gli propone di andare da Bernardo. Marco
telefona all’amico che li invita a pranzo
XI capitolo 94-100
Lucia appare molto sofferente, e
spenge l’estrema speranza di Marco sulla sua sopravvivenza.
Magrissima e, nello stesso tempo, con una guancia gonfia (p. 94). La
donna è oramai tutta deformata dalla malattia. I due non sanno come
parlarne: “Non abbiamo parole condivise per affrontare il dolore.
Non le abbiamo avute neanche per Ernesto” (p. 95). Ma presto
verranno da sole e ci sarà la resa dei conti. Salgono per la
Porrettana.
Lucia ora vuole chiarire. Vuole
che Marco apra gli occhi e guardi finalmente. Vuole anche rivedere la
chiesa di Alvar Aalto (p. 98)
Dal ponte che separa Grizzana da
Riola si possono vedere due costruzioni simili a specie incompatibili
e nemiche: “l’eclettismo follemente ottocentesco della Rocchetta
Mattei e l’ascetico Novecento del tempio di Aalto” (p. 98).
Possono simboleggiare i due personaggi o i loro ambienti di
provenienza. Entrano nella chiesa e si fermano tra le panche di abete
“come se in quel chiarore modernista, dove il cattolicesimo si
traveste di patetiche nudità luterane, dovesse accaderci qualcosa”
(p. 98). Le nudità delle opere di Aalto vuole essere mimetica della
natura. Una mivmhsi~ th`~ fuvsew~. Ora
Marco chiede a Lucia di parlargli anche di quello che lui non vuole
sapere. Ma lei non parla. Soltanto dopo il superamento di Porretta,
Lucia comincia a parlare. Ricorda che il giorno del funerale del loro
amico, Pagi le telefonò per dirle che il romanzo di Ernesto gli era
piaciuto. Sta per dire altro ma poi si interrompe “Adesso mi
riposo”. Marco ha capito che la confessione finale non sarà senza
dolore per lui, e che forse gli toglierà il poco equilibrio che gli
rimane.
Lucia “ chiude gli occhi mentre
rallento, tenendo il volante stretto con tutte e due le mani per non
sbandare” (p. 100)
XII pp. 101-109
Bernardo Pagi li accoglie
chiamandoli “Lucia” (invece del solito bambina, il che fa
rabbrividire Marco) e “polemista”. Molinari va a lavarsi le mani
e si guarda allo specchio: “più grasso, più stempiato ma in fondo
uguale” (p. 100). Invero qualche cosa della decadenza dell’ambiente
di Lucia si è attaccata pure a lui.
Certamente ama molto mangiare. La
cuoca di Pagi, Rina dai capelli “orribilmente rossi” sa fare
“divinamente le pappardelle al cinghiale e il pollo dorato”.
Uno solo di questi due piatti basta e avanza a nutrire.
Mi viene in mente il Satyricon.
Vediamone tre righe :"
recepta cocus tunica cultrum arripuit porcique ventrem hinc atque
illinc timida manu secuit. nec mora , ex plagis ponderis inclinatione
crescentibus tomacula cum botulis effusa sunt" (49, 9-10),
il cuoco, ripresa la tunica, afferrò un coltello e con mano
circospetta sventrò il maiale da una parte e dall'altra. Senza
indugio, dai tagli che si allargavano per la pressione del peso,
sgorgarono salcicce con involtini.
Bernardo diversamente da Molinari
“ha fatto pace con la realtà” e si è ritirato lassù solo
perché vuole essere lasciato tranquillo (p, 102).
Il ritiro dalla polis mi sembra
una tranquillità improduttiva. E’ vero che il maestro scrive, ma
la scrittura viva si nutre anche di rapporti umani.
Arriva “il pentolone delle
pappardelle” mentre Bernardo versa il vino “bianco giallino e
trasparente” comprato “a un’osteria di Mentemurlo, durante una
delle periodiche bevute con Guccini” (p. 103).
Un maestro di trasgressioni
disordinate, trasgressioni non politiche, fondate sul narcisismo.
Bernardo ne ricorda le sbronze,
come cose simpatiche.
La cuoca ribatte “A l’è un
sudiciòn” (103). Poi sparisce in cucina “come una caratterista
che esce di scena”. Una realtà diversa, quasi ridicola rispetto a
questi intellettuali.
Eppure più avanti leggiamo che
Pagi prima di mandare i pezzi ai giornali li sottopone al giudizio
della cuoca (p. 105).
Intanto Bernardo racconta fatti
di cronaca “con un brio..leggero” con “l’arte consumata del
conversatore” (p. 103).
Mi viene in mente Odisseo la
“consumata volpe” del Filottete di Sofocle.
Pagi
possiede tutti gli artifici del sofista, infatti viene paragonato a
Socrate il quale secondo Leopardi non fu altro che un sofista: “E
Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore,
l'odiator de' calamistri2
e de' fuchi3
e d'ogni ornamento ascitizio4
e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un
sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone,
3474).
“Io voglio solo che ciascuno
mostri ciò che è” ha detto Pagi (p. 104).
A Molinari ha fatto confessare
“invidie…Wille zur Macht” la tendenza a nascondersi a se
stesso e “la foga verbale che occulta tutto questo” (p. 104).
Marco scinde il parlato dissimulatore dallo scritto dove dice la
verità. Sul romanzo che non procede Pagi incoraggia Molinari: gli
dice che finire un libro è solo “prenderne atto” (p. 105).
Prendere atto di che cosa? Della necessità di scriverlo? Della
realtà? Lo chiederò all’autore.
Arriva la Rina con il pollo
dorato.
Molinari mangia in fretta, come ha
fretta nello scrivere
“E’ come col cibo, hai un
rapporto infantile col cibo. Eh Lucia? Si vede da come mangia, tutto
assieme” (p. 106).
Bernardo parla del suo impegno di
critico anomalo: “un critico militante non può essere un critico
giornaliero, pena la costrizione di dare l’onore delle armi a un
sacco di paccottiglia” (p. 107).
Pasolini non ha mai sentito
quest’obbligo. Vero è che l’ha pagata cara.
Poi arriva la torta di miele. “La
Rina il miele lo prende su dagli Elfi”. C’è il gusto del cibo
buono che in effetti è un piacere. Del resto perdere la sana
snellezza è un grosso dispiacere ed è un male per la salute.
Viene deriso un critico ligio ai
luoghi comuni del “politicamente corretto”. Uno di quelli che
appena sentono un giudizio fuori dagli schemi della sinistra ti danno
del fascista. Insomma un imbecille. “Leggono troppo e non
capiscono. E se non capisci, dov’è il gusto?” (p. 108),
Poi Bernardo offre delle stanze ma
i due escono. Lucia si mette a parlare di Ernesto.
Capitolo XIII (pp. 110-115).
Racconta del pomeriggio in cui
salirono entrambi nella casa di via Castiglione. Lui raccontava
l’impermeabilità di Davide, Lucia quella di Marco. Poi si sono
scambiati un bacio. Poi “è successo” (p. 111). L’aposiopesi
pudica fa comunque intendere che fu fatto “il massimo”. “Ed è
stato tutto molto breve, molto asettico” (p. 111).
Invero la sepsi, la sh`yi~,
la putrefazione, c’è stata.
Dopo, Ernesto era agitatissimo.
Uscì per andare da Davide.
Lucia dice che Marco sottraendosi
a entrambi aveva rotto l’equilibrio a tre: aveva lasciato un vuoto
d’aria che aveva fatto cadere gli altri due uno sull’altro (p.
112).
Chi si fa un amante o un’amante
trova sempre il modo di colpevolizzare il compagno. Marco pensa che
forse è stato Davide a fare sbandare la smart del fratello
piazzandosi davanti alla macchina. Lucia fa altre rivelazioni. La
scatola nera si apre e Marco prova “quel senso di liberazione che è
sempre legato a un improvviso, irrefutabile senso di realtà” (p.
114). Tucidide e Machiavelli.
I due sono presi dal rimorso: lei
per quello che ha fatto, e lui per quanto non ha fatto. Non ha
portato a Biagi il romanzo di Ernesto, non in tempo.
Marco si è punito non finendo il
proprio romanzo, e Lucia molto peggio perché non aveva l’osso del
romanzo da gettare ai denti micidiali del cane del rimorso.
XIV capitolo pp. 116-119
Marco si allontana in silenzio da
Lucia. Si avvicina a Bernardo e gli tornano in mente queste sue
parole: “C’è qualcosa di opaco. E forse riguarda te, non lei”
(p. 116). Biagi gli consiglia di starle vicino e di non fare più
niente di falso, di non chiudere gli occhi.
Gli dice anche che lo legge e che
leggendolo sente “il ronzio della paura…accumuli il lavoro, ti
seppellisci e intanto seppellisci” (p. 117). Quindi: “non
sprecare questa occasione, non difenderti Marco. E’ l’unico
modo”. E’ l’occasione per fare chiarezza completa.
Bernardo li saluta con un
sentimento lontano, di quella lontananza che non è anaffettività ma
“fedeltà al poco che si può davvero fare per gli altri senza
essere velleitari, senza barare con se stessi” (p. 119)
XV capitolo pp. 120-122
Capitolo in corsivo. Racconta un
sogno, con una festa di ragazzi, una partita di pallone e
l’inettitudine di Marco a questo gioco, la sua distrazione, Ernesto
impermeabile alle volgarità, poi il primo bacio ricevuto da Lucia
che gli dice: “tu vedi tutto. Da lontano però eh? Devi avere la
classica presbiopia del maschio orgoglioso, tu” (p. 122). Poi il
risveglio “zuppo di sudore, col fiato grosso e i denti stretti”.
Marco ha sognato per la prima volta l’esatta verità.
XVI pp. 123-125
Marco scrive finalmente il suo
romanzo, questo romanzo.
Il dolore gli ha dato chiarezza:
“Era un dolore lucido, forte e vasto come non l’avevo mai
sentito; ma al tempo stesso era la cosa più stranamente simile alla
serenità che avessi provato da molto tempo”. E’ il dolore che
spazza via le nebbie.
Poi Lucia lo chiama, gli chiede di
portarle qualche cosa di suo da leggere. Gli apre il padre. Lucia è
moribonda. Marco non riesce a non piangere, ma cerca di minimizzare,
di camuffare l’atto con le parole: “piango della mia
prevedibilità” (p. 124).
Lucia gli dice che l’importante
è questo romanzo, poi gli chiede di andare all’Hospice di
Bentivoglio dove la porteranno. “Vorrei poter fare un viaggio con
te”. Quindi lo congeda “Ora vai, devo un po’ dormire”.
Marco esce e si ritrova “in
mezzo alla folla carica di pacchi pasquali”.
Fa pensare alla resurrezione di Cristo. S’incammina a occhi chiusi tra due comitive e si lascia trascinare “da quel fiume lento e ronzante verso le luci della Porta” (p. 125). Sono le ultime parole del romanzo
Fa pensare alla resurrezione di Cristo. S’incammina a occhi chiusi tra due comitive e si lascia trascinare “da quel fiume lento e ronzante verso le luci della Porta” (p. 125). Sono le ultime parole del romanzo
Giovanni Ghiselli
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1
Ovidio negli Amores
scrive: "Militat
omnis amans, et habet sua castra Cupido; / Attice, crede mihi, militat
omnis amans" (I, 9, 1-2), è un soldato
ogni amante; anche Cupido ha il suo campo di guerra; Attico,
credimi, ogni amante è un soldato.
2
Da calamistrum,
“ferro per arricciare i capelli” (ndr).
3
Da fucus, “tintura
rossa” (ndr).
4
Da ascisco, “annetto” (ndr).
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