Seconda parte della conferenza che terrò lunedì 2
Settembre alle ore 18 nella Libreria
Trame, via Goito 3, Bologna.
“L’orrido cominciamento è come a’camminanti una montagna
aspra ed erta, appresso la quale è riposto un bellissimo piano e dilettevole.
Erano 1348 gli anni passati dalla
fruttifera incarnazione del Figliol di Dio, quando nell’egregia città di
Firenze, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera
pestilenza. Nata in Oriente, inverso l’Occidente miserabilmente s’era
ampliata”.
Il morbo in primavera orribilmente cominciò i suoi dolorosi
effetti, ed in miracolosa maniera a dimostrare. Dagli infermi la peste si
avventava ai sani agli uomini e agli animali. Due porci presero e scossero con
il grifo gli stracci di un poveraccio morto di peste e morirono pure loro.
“La peste coinvolge in un solo destino bestie che muoiono
come uomini ed uomini che si riducono a bestie, isolandosi nel loro egoismo
spietato o… Lussuriando senza freno”[1].
Tutti schifavano e
fuggivano i malati. Molti si isolavano, alcuni stavano a dieta, altri si
lasciavano andare a mangiare, bere e godere. In tanta afflizione era la
reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e
dissoluta tutta.
“La prima cosa notevole è che ‘le più delle case erano
divenute comuni’. In questa capitale della moderna civiltà borghese, la
decadenza e l’abbandono della proprietà privata è l’antecedente necessario”[2]
per questa caduta delle leggi
I ministri ed
esecutori delle leggi erano morti o infermi per la qual cosa era a ciascun
licito quanto a grado gli era, di adoperare.
La peste in altri
autori
Per Tucidide che si
rifaceva ad un’idea razionale dell’uomo e della storia, fu la guerra a causare
la peste, e questo morbo, infuriando con violenza (uJperbiazomevnou ga;r tou' kakou', II 52, 3) determinò
l'incuria del sacro e divino.
La peste poi fece saltare tutte le leggi. Né la paura degli
dèi li tratteneva né legge umana. Pendeva sulle loro teste una pena molto più
grande: quella della peste (II, 53, 4)[3].
Per Sofocle conflitti e peste sono conseguenza dell'ateismo.
All'inizio dell'Edipo
re una peste odiosissima, loimo;" e[cqisto", devasta la povli", la quale si consuma (fqivnousa, vv.25 e 26) nella malattia e
nella sterilità, svuotandosi di vita. Il morbo è anche infecondità della terra
e delle femmine, correlativa all'impotenza dei maschi
In questa tragedia la peste, la fame (limovvv" ) e la sterilità, sono
causate dal mivvasma , la
contaminazione provocata dai delitti del tuvvranno"
. Il maximum scelus di Edipo secondo Sofocle non è il maternus amor che gli attribuisce
Seneca.
Le
ultime parole della Pizia riferite da Creonte :"turpis maternos revolutus in ortus [4]"
( Oedipus, v, 238) vengono chiarite
più avanti dall'ombra di Laio:"maximum
Thebis scelus- maternus amor est "(vv.629-630), il delitto più
grande a Tebe è l'amore per la madre.
Le commento con queste di C.
Pavese: "Se nascerai un'altra volta dovrai andare adagio anche
nell'attaccarti a tua madre. Non hai che da perderci".[5]
Secondo Sofocle il delitto di
Edipo sta nella miscredenza nei confronti degli oracoli e nella presunzione di
potere risolvere ogni difficoltà con la propria intelligenza: "arrivato
io,/ Edipo, che non sapevo niente, la feci cessare[6],/
azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/
kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla dagli uccelli" (vv.
396- 398).
Diamo la traduzione dei vv. 25-30 dell’ Edipo re di Sofocle: "E si consuma[7]
nei calici infruttuosi della terra,/si consuma nelle mandrie dei buoi al
pascolo, e nei parti/senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di
fuoco,/scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,/dalla quale è
vuotata la casa di Cadmo, e il nero/Ades si arricchisce di gemiti e
lamenti".
Torniamo a Boccaccio
Oltre ai dissoluti e ai prudentissimi c’erano quelli che
seguivano una via di mezzo, non stringendosi nelle vivande né allargandosi nel
bere e nelle dissoluzioni. Alcuni fuggivano da Firenze pensando che in campagna
non giungesse l’ira di Dio a punire l’iniquità degli uomini. La tribolazione
era talmente entrata nei petti che perfino i genitori abbandonavano i figli.
Rimaneva la carità degli amici o l’avarizia dei serventi attratti da grossi
salari. Le donne, anche se belle e leggiadre, non si peritavano di avere al
loro servizio un uomo, e a lui senza vergogna ogni parte del corpo aprire.
Quelle che guarirono divennero meno oneste.
Tra i vivi nacquero
cose contrarie ai primi costumi. Cessarono i compianti funebri, anzi in alcuni
casi si usavano risa e motti e festeggiar compagnevole, cosa che le donne
avevano appreso bene, posposta la donnesca pietà. Mettevano nelle bare più di
un morto. Fra marzo e luglio morirono più di centomila creature umane dentro
Firenze.
La terra sacra non bastava alle sepolture, e i morti
venivano posti nelle chiese e in quelle “stivati come si mettono le mercatantie
sulle navi” e “con poca terra si ricoprìeno”.
Morivano dalla mattina alla sera dei giovani che Galieno[8],
Ippocrate o Esculapio avrebbero giudicato sanissimi.
Un martedì mattina si trovarono nella venerabile chiesa di
Santa Maria Novella sette giovani donne tra i 28 e i 18 anni “savia ciascuna e
di sangue nobile e bella di forma ed ornata di costumi e di leggiadra onestà”.
Userà pseudonimi per non danneggiarle. Adotterà nomi alle
qualità di ciascuna convenienti. Pampìnea, la più attempata, poi Fiammetta,
Filomena, Emilia, Lauretta, Neìfile, Elissa.
Dunque le sette sedettero in cerchio e Pampìnea cominciò a
parlare. Propone di lasciare la città con l’atra feccia dei becchini “fuggendo
con la morte i disonesti esempi degli altri, e di recarsi onestamente a’ nostri
luoghi in contado de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, e lì prendere
piacere, senza trapassar in alcun atto il segno della ragione…non si disdice di
più a noi l’onestamente andare che faccia a gran parte dell’altre lo star
disonestamente”.
Le 7 ragazze, poi i 3 ragazzi, “piacevoli e costumati” sono
rappresentanti della “Firenze bene”. Hanno i modi dell’aristocrazia.
Donne che parlano male delle donne (cfr. l’Andromaca e
l’Ermione di Euripide citate sopra).
Filomena fa una
obiezione: dice che le donne sono poco ragionevoli e hanno bisogno della
provvidenza d’alcun uomo: “Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime
e paurose”. C’è bisogno della guida di un uomo. Elissa dice: “Veramente gli
uomini sono delle femmine capo, e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna
nostra opera a laudevole fine”
Ma come facciamo? Non sarebbe convenevole pregare degli
estranei.
Allora entrarono in chiesa tre giovani: Panfilo, Filostrato
e Dionèo, assai piacevole e costumato ciascuno. Tutti e tre fidanzati con tre della lieta brigata femminile. Neifile,
una delle fidanzate, teme per la loro reputazione. Ma Filomena ribatte che se
la coscienza non la rimprovera “Iddio e la verità l’arme per me prenderanno”.
“E’ la saviezza borghese che in forma di buon senso
manifesta, senza alcuna pretesa sistematica, i primi elementi di
quell’empirismo e razionalismo e naturalismo che più tardi elaboreranno i
filosofi d’Inghilerra e di Francia”[9].
Pampinea che oltretutto era congiunta per consanguineità a
uno di quei giovani, andò a pregarli di tener loro compagnia “con puro e
fratellevole animo”. I giovani pensarono
di essere beffati, ma poi dovettero ricredersi e accettarono.
Il mercoledì dunque tutti si misero in via con quattro delle
fanti delle giovani e tre famigliari dei giovani. E giunsero in un tipico locus amoenus: “su una piccola
montagnetta un palagio con bello e gran
cortile nel mezzo, con logge, sale e camere, tutte di liete dipinture ornate,
con pratelli dattorno e con giardini meravigliosi e con pozzi d’acque freschissime…ogni
cosa di fiori piena e di giunchi giuncata”.
Dionèo oltre ogni altro era piacevole e pieno di motti.
Avverte che è venuto per lasciare in città le tristezze: le ragazze devono
disporsi a sollazzare, cantare e ridere con lui, “tanto, dico, quanto alla
vostra dignità s’appartiene”.
Questi giovani nobili e ricchi conoscono tutte le buone
maniere e costituiscono un polo di forte attrazione per Boccaccio, più forte di
quella pur esercitata dai plebei intelligenti.
Franz Xaver Winterhalter, Decameron |
Tutto viene ordinato e gerarchizzato.
“A questo vivere “festevolmente” in campagna è necessario
trovare un ordine, senza di che la “bella compagnia” non ritroverebbe le
ragioni morali ed estetiche della sua “onestà”[10].
In effetti la fortuna ha meno forza dove trova la virtù
ordinata a resisterle.
Da fuori non devono recare notizie se non liete. Poi la
brigata incline alla letizia andò per un giardino facendo ghirlande di fronde e
cantando. Intanto Parmeno, il siniscalco, fece preparare la tavola con tovaglie
bianchissime e bicchieri che d’ariento parevano, e tutto coperto di fior di
ginestra. Poi vennero vivande delicatamente fatte e finissimi vini fur presti e
i tre famigliari chetamene servirono le tavole.
I “famigliari” si muovono e parlano, se devono parlano, con
il debito rispetto.
Le cose erano belle e ordinate, ed essi con piacevoli motti
e con festa mangiarono.
Tanto apparato è tipico della borghesia che vuole imitare
l’aristocrazia.
Nel grande romanzo di
Musil si trova invece un elogio della
"magnifica negligenza" dell’aristocrazia : “ Una casta
dominante rimane sempre un poco barbarica...Erano invitati insieme in residenze
campestri, e Ulrich notò che vi si
vedeva sovente mangiare la frutta con le mani, senza sbucciarla, mentre nelle
case dell'alta borghesia il cerimoniale con coltello e forchetta era
rigidamente osservato; la stessa osservazione si poteva fare a proposito della
conversazione che quasi soltanto nelle case borghesi era signorile e distinta,
mentre negli ambienti aristocratici prevalevano i discorsi disinvolti, senza
pretese, alla maniera dei cocchieri. Le dimore borghesi erano più igieniche e
razionali. Nei castelli patrizi d'inverno si gelava; le scale logore e strette
non erano una rarità, e accanto a sontuose sale di ricevimento si trovavano
camere da letto basse e ammuffite. Non esistevano montavivande né bagni per la
servitù. Ma, a guardar bene, c'era
proprio in questo un senso più eroico, il senso della tradizione e di una
magnifica negligenza!"[11].
Il conte Leinsdorf,
promotore della grande Azione Patriottica, l'Azione Parallela, "del popolo
pensava fermamente che fosse buono…era fermamente convinto che persino il vero
socialismo concordava con le sue opinioni…E' chiaro come il sole che soccorrere
i poveri è un dovere cavalleresco, e che per la vera nobiltà non c'è poi una
così gran differenza tra un fabbricante e un suo operaio"[12].
Decameron: “Terminato il
desinare, fecero levare le tavole in modo che potessero suonare e carolare.
Dionèo prese un leuto e Fiammetta una viola. Poi mandati i famigliari a mangiare,
a carolar cominciarono, e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono
a cantare”.
I “famigliari” hanno orari
diversi dai signori.
Già Platone nel Protagora scrive che le persone bene
educate non fanno e non ascoltano musica mentre si mangia.
In questo dialogo Socrate indica delle regole per i simposi della gente educata che non può
rumoreggiare a tavola, e, anzi, non sopporta qualsiasi elemento ostacoli la
conversazione.
Le persone mediocri
e volgari, per incapacità di parlare tra loro durante i simposi, a causa della
mancanza di educazione, si intrattengono a vicenda attraverso la voce dei
flauti; invece tra i convitati colti e per bene, non vedi né suonatrici
di flauto, né danzatrici, né citariste,
ma trovi che essi sono capaci di
conversare tra loro senza queste sciocchezze e questi giochi (" ajlla; aujtou;"
auJtoi'" iJkanou;" o[nta" sunei'nai a[neu tw'n lhvrwn te kai;
paidiw'n touvtwn",
347d) e parlano e si ascoltano a turno
ordinatamente, anche se bevono molto vino.
Boccaccio: “Continuarono
i canti e le danze finché tempo parve alla reina d’andare a dormire, e vi
andarono tutti, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate.
Oh gran virtù delle ragazze antiche, di buona famiglia!
Le ragazze sono grandi proprietarie terriere; i ragazzi
hanno un famiglio a testa. Le camere
erano con i letti ben fatti e di fiori piene come la sala.
Intorno alla nona (le 15 n.d.r) la reina fece levare tutti
affermando esser nocivo il troppo dormire il giorno, e cos’ andarono in un
pratello nel quale l’erba era verde e grande ed era ombreggiato e rinfrescato
da un soave venticello.
La regina allora propose di arrivare al vespro, al tramonto,
novellando piuttosto che giocando. Le donne parimenti e gli uomini tutti
lodarono il novellare.”
Il pieno sole che illumina il paesaggio fa pensare
all’antico teatro all’aperto
La regina lasciò liberi gli argomenti della giornata e
Panfilo cominciò con la novella di Ser Cepparello.
La cornice vuole rappresentare una vita aristocratica. I modi dei giovani sono signorili, e anche il
loro aspetto non è ordinario.
La facies aristocratica
Boccaccio e Proust
Fiammetta, una delle sette, ha gli occhi simili a quelli di
un “falcon pellegrino” e labbra di rubino.
Proust nei Guermantes
scrive:"il naso a becco di falco e gli occhi penetranti" sono
"caratteristici...di quella razza rimasta così speciale in mezzo a un
mondo in cui non si è confusa e resta isolata, nella sua gloria divinamente
ornitologica: perché essa sembra nata, in un'età favolosa, dall'unione d'una
dea con un uccello"(p. 82). Quindi l'autore descrive gli atti di questi
nobili per mostrare quanto essi fossero
naturali, eppure "graziosi come il
volo d'una rondine o l'inclinazione della rosa sul suo stelo" (p. 475).
Il gusto dell’amabile conversare è segno di curialitas, di misura cortese.
La gamma è molto vasta. C’è una multiforme varietà di vita
I racconti spaziano dalla virtù sublime alla criminosa
beffa, dalla misura aristocratica al lezzo dei bassifondi.
Nell’ultima giornata si esaltano la liberalità, la
magnanimità, la virtù.
E’ presente il filone
orientale delle Mille e una notte
diffuso in Itala attraverso la mediazione francese.
A noi interessa particolarmente la presenza di Apuleio,
l’autore prediletto da Boccaccio in gioventù.
Giovanni Ghiselli
[1] Carlo Muscetta, Giovanni Boccaccia e i novelliri, in Storia della Letteratura italiana, Il
Trecento, Garzanti, Milano, 1987-2 (1, 1965), p. 380.
[2] C. Muscetta, op. cit.p. 380
[3]
Lucrezio racconta la peste di Atene del 430
nell’ultimo libro del suo poema
(VI del De rerum natura). Poi c’è la peste di Milano nel romanzo di
Manzoni, c’è quella di Camus, e ce ne sono altre, ma non mi sembra il caso di
riferirle tutte.
[4] Riprese da Stazio nella Tebaide dove Giove
sdegnato condanna tutta la stirpe dei Labdacidi e in particolare Edipo: "Scandere quin etiam thalamos hic impius
heres / patris et inmeritae gremium incestare parentis / appetiit,
proprios (monstrum!) revolutus in ortus" (vv. 233-235), questo empio discendente ha bramato salire
sul letto del padre e insozzare il grembo della madre incolpevole, rotolato
indietro (orrore) nel grembo materno. L'esecrazione viene ribadita più avanti
dall'ombra di Laio: il re assassinato si scaglia contro il figlio: "Qui laeto fodit ense patrem, qui semet in ortus
/ vertit et indignae regerit sua pignora
matri" (Tebaide, IV, 631-632), il quale con spada superba
trapassò il padre, e tornò indietro alla sua nascita e rimanda il suo seme
sulla madre riempiendola di obbrobrio.
[5] Il mestiere di vivere, 22 gennaio 1938.
[6] La Sfinge.
[7] La tragedia, cui attribuisco una dtazione bassa, è
ambientata a Tebe, la città nemica di Atene, l’anticittà.
[8] Galeno di Pergamo. 120-200 d. C. Medico di Marco
Aurelio e di Comodo.
[9] Muscetta, Op. cit., p. 383.
[10] Muscetta, Op. cit., p. 383.
[11] R. Musil (1880-1942), L'uomo senza qualità , p. 269.
[12] R. Musil, L'uomo senza qualità , pp. 83- 84.
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