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Quanta Stella c’è nel cielo di Edith Bruck (Garzanti, Milano, 2000)
Quanta Stella c’è nel cielo di Edith Bruck (Garzanti, Milano, 2000)
Voglio scrivere qualche riga sul libro di Edith Bruck dal
quale il film è tratto. Il titolo del romanzo, Quanta stella c’è nel cielo, è un verso di Petöfi Sándor, il lirico
ungherese che morì per la libertà della terra dei Magiari, combattendo contro i
Russi nel 1849.
Il libro della Bruck è un inno alla Vita, la Vita incarnata nella
protagonista del romanzo una quindicenne scampata al campo di sterminio di
Auschwitz. Negli interventi dei giorni scorsi avevo assimilato questa
ragazzina, Anita, all’ Antigone di Sofocle, ma leggendo Quanta stella c’è nel cielo, oltre le analogie, ho trovato una
fondamentale differenza: la figlia di Edipo vuole morire, pur essendo la
principessa di Tebe, e avendo la prospettiva sicura di divenirne regina; Anita
invece vuole vivere, nonostante il passato tragico, il presente insicuro e il
futuro oscuro.
Nasce in una famiglia di ebrei ungheresi poveri, da un padre
fallito nel lavoro, umiliato, e da una madre che deve tenere in piedi la
baracca sgobbando dalla mattina alla notte.
Eppure Anita è una bambina vivace, fantasiosa, capace di
giocare e gioire con poco, e nello stesso tempo è riflessiva, desiderosa di
apprendere, capace di ricordare.
Conserva memoria di tanti particolari che l’hanno colpita:
visioni di cose brutte o belle, più belle che brutte, gesti veduti, frasi
sentite, magari senza volere.
Per esempio:”Una ragazza povera, che Iddio la protegga. Se
si sporca prima del matrimonio non troverà mai un marito” diceva la madre alle
sorelle maggiori (p. 8).
Scampata al campo di sterminio dove ha perduto tutti i suoi,
viene presa in casa da Monika, una giovane zia, sorella di suo padre, e da suo
marito Aron. I due hanno avuto da poco tempo un bambino, Roby. Da loro vive
Eli, fratello di Aron, un giovane venticinquenne , che parla a stento la lingua
di Anita, eppure la provoca sessualmente e la seduce, dato il bell’aspetto di
lui e l’enorme bisogno d’affetto di lei . La ragazza dunque si è sottratta
presto all’intimidazione sessuale impartita dalla madre. Ma il giovane, di una
decina d’anni più attempato, si comporta da donnaiolo anaffettivo e la
giovinetta ne soffre. Anche la zia è un personaggio poco profondo, sicché Anita
parla con se stessa e con il bambino che è troppo piccolo per capirla, se non
emotivamente, e può risponderle soltanto con i sorrisi e con il linguaggio del
corpo.
Ma vediamo qualche particolare .
Citerò alcune frasi chiave che aprono la porta alla
comprensione del libro più di qualunque commento.
Nelle prime pagine si racconta il viaggio in treno di Anita
e di Eli che è andato a prenderla all’orfanotrofio e la porta in Slovacchia
nella casa dove la ragazza dovrà vivere con lui, con suo fratello Aron, con la
zia Monika e con il cugino neonato.
Anita è attirata dall’accompagnatore che le si strofina
contro e le mette presto le mani addosso, senza sapere né voler parlare: “Non
parliamo” dice. “Tu non raccontare io non racconto. Adesso vita, vivere
capito?” (p. 12).
L’afasia prima o poi
si associa alla violenza, come il parlare troppo è segno di incapacità.
Entrambi vogliono vivere, e vogliono amare. Il fatto è che
della vita e dell’amore hanno una visione differente. Il ragazzo vuole
escludere la parola e separare il sentimento dal sesso che intende solo come
piacere e come ginnastica: “Uomo tira giù e tira su i pantaloni, finito. La
donna vuole sentimento” (p. 23)
Anita si consola
osservando il mondo bello e variopinto, quando si sente troppo triste e le si
riaprono antiche ferite nel notare l’insensibilità del prossimo suo. Le fa
molto male quella di Eli che le rievoca ricordi orribili: “ Vai” Via via!
Aspetta…” . Mi respinse da sé Eli con un gesto che avvertii violento, e dalle
mie cellule, dai miei organi, come fossero accumulatori di memoria,
riecheggiarono le ultime parole pronunciate dalla mamma: “Vai! Via via via”!
frammiste con : “”Gehen. Los los los”
di un soldato tedesco che mi strattonava per staccarmi dalle vesti, dalla carne
di mia madre, durante la selezione, all’arrivo (….) A volte le rimproveravo
quel “”Vai! Via via via!” altre volte alla vista del sole che sorge, della neve
che cade, dell’albero che fiorisce, sono felice di essermi salvata e la vita
sembra un dono grandioso in confronto alla miserabile morte che vedevo attorno,
che mi giaceva a fianco, che mi si rovesciava addosso con tutto il suo freddo
profondo” (p. 16).
Viene in mente una pagina di Guerra e pace: “Dalla dura corteccia secolare erano spuntate,
sprovviste di rami, fresche, giovani foglie, tanto che non riusciva a credere
che le avesse generate quel vegliardo.
“Sì, è proprio quella stessa quercia” pensò il principe
Andrej, e di colpo senza alcun motivo lo assalì un senso primaverile i gioia e
di rinnovamento…No, la vita non finisce a trentun anni”, pensò a un tratto il
principe Andrej con decisione ferma e immutabile” (III, 3).
I due giovani, messi a dormire nella stessa stanza dunque
diventano amanti per l’attrazione reciproca, ma le discrepanze rimangono, né si
attenuamo.
Anita, che crede nella vita e crede nell’amore, cerca di
convertire l’arido compagno di letto : “Il male è grande e il bene è piccolo ma
c’è, devi farlo crescere tu, devi dare luce anche a te, dentro” .
Ma lui le risponde: “Anita tu molto bella per pensare,
sapere, parlare, mi fai nervoso, mi piace donna zitta, gioca, siediti, fammi
calmo” (p. 36).
La ragazza dunque conosce non solo la persecuzione razziale
del tanghero sanguinario e dei suoi ottusi, criminali seguaci, ma anche quella
di genere dell’insensibile amante maschilista.
Anita non ottiene comprensione nemmeno dalla sorella del
padre.
Una sera, nel mandarla a dormire, la zia le dice: “Buona
notte. Dormi bene. E chiudi il cervellino a ogni pensiero”
“Io vorrei studiare”, replica la nipote
E Monika, troppo realisticamente: “Studiare? Non è tempo di
studiare, Caso mai potrai seguire un corso di cucito gratuito, organizzàti
ovunque, anche qui dentro, da ebrei” (p. 50)
Ma il desiderio più grande, il bisogno di Anita è quello di
parlare.
Aron prova a dire alla moglie: “Auschwitz rischia di annientare
la verità dell’accaduto stesso se l’orrore non è raccontabile o non è
ascoltabile, capisci?” E Monika gli risponde: “Anita non farebbe altro che
parlarne, avvelenare il mio latte per Roby” (p. 61).
Anita dunque non può parlare con Eli e non deve parlare con
la zia.
Allora parla con Roby, un infante che non è in grado di
risponderle a parole ma sa contraccambiare sorrisi, espressioni, gesti
d’affetto.
Anita gli dice tante parole e gli canta: “una cosa popolare
vecchia, ungherese, versi lamenti scritti da qualche emigrante come me, senti
che belli
“Elmegyek, elmegyek,
hosszú útra megyek,
hosszú út porából
köpenyeget veszek” (p.
65).
Mi permetto una nota personale, e chiedo scusa, ma voglio
manifestare la mia gratitudine alla nazione magiara che mi ha dato molto quando
ero giovane. Ora è un vecchio che scrive, un vecchio che non ha dimenticato
perché ha fatto tesoro delle esperienze belle e ha saputo utilizzare anche le
meno belle.
Sono stato borsista a Debrecen, nella Università estiva di
quella cittadina dell’Ungheria orientale per qualche mese tra la fine degli
anni Sessanta e i primi anni Settanta. Un periodo di maggiore cordialità tra
gli umani. Vi ho passato alcuni tra i giorni più belli della mia vita. Ho
conosciuto studenti che venivano da tutto il mondo. Ho apprezzato la gente e la
cultura ungherese.
Anche per questo il libro di Edith Bruck e il film di
Roberto Faenza mi sono cari, mi stanno a cuore.
Traduco le parole della strofe trascritta sopra con parole
mie
Vado via, vado via
Vado per una lunga strada
dalla polvere della lunga strada
ricavo un mantello
Il carattere buono di Anita, quel daivmwn o trovpo~
che è anche il destino di ciascuno di noi, si manifesta nei suoi ricordi
rivolti non solo alle sofferenze subite e capite ma anche, ma ancora di più
alle gioie godute, sentite a fondo, anche se causate da piccoli eventi: “Per
noi bambini bastava niente per gioire, e le gocce d’acqua che filtravano dal
tetto e facevano disperare la mamma per noi erano manna, ciliegie da
acchiappare con la bocca spalancata” (p, 75),
Oppure, finita in prigione cecoslovacca come clandestina, “la
guardiana che apparve dicendomo “Dobrý
den” (“Buongiorno”) sembrava un oceano di bontà che, invece della sua acqua
salata, mi diede tè caldo e pane nero…Al prigioniero basta uno sguardo umano
per credere nell’umanità intera, come a un bambino una foglia per giocare”.
Per questo riconoscimento del bene è necessario, però, avere
il bene dentro di sé. Quelli che non ce l’hanno, coloro nei quali prevale il
male, vedono e riconoscono solo il male nel mondo.
Carattere in greco si dice anche trovpo~, un sostantivo che significa pure la direzione, il
verso al quale uno volge (trevpei)
la propria attenzione. C’è chi è indirizzato al bene e chi al male.
Il male fa male non solo alle persone che lo subiscono ma
anche, e soprattutto, a quelli che lo sentono e lo infliggono: “Tutto questo
odio fa male a te non a loro” (p. 84), dice Anita a Eli. Il ragazzo parla poco
e male, dicendo parole quasi sempre cattive, anche alla propria amante quindicenne
che gli domanda: “Cosa posso fare per renderti meno rabbioso, più contento?
E lui risponde: Letto, sfottere (…) Tu non entrare mia
storia mia vita”.
Anita ricorda spesso quanto le diceva la mamma, una donna
religiosa, affaticata, delusa: “la mia mamma, gli uomini così, li chiamava cani
di legno” (p.100). Anita è incline al bene ma impara a distinguere il male.
Ha imparato dai nazisti e impara dal suo primo amante.
Ma tutto il male e il dolore subito non l’hanno impregnata,
non l’hanno resa malvagia: “Se gli assassini devono trasformare in assassini
anche noi, vincono di nuovo loro, ci fanno perdere l’innocenza, l’anima” (p.
117) dice a un personaggio che suggerisce di “affrontare i nemici a testa alta
e mano armata”.
Dopo qualche tempo Anita viene mandata a fare un lavoro di
cucitrice in un luogo seminterrato, oscuro e freddo e che la intristisce. Ma il
datore di lavoro le fa coraggio: “Un giorno, spero non lontano, sarai in un
luogo caldo e galleggerai sul Mar Morto” (p. 120).
Rispetto alle utopie classiche, prive di luogo, talora anche
di tempo (utopie e ucronie) questa terra promessa degli Ebrei è invece reale
nello spazio e nella storia.
Nel luogo di lavoro Anita trova anche un’amicizia con una
ragazza ebrea di estrazione borghese, Emma dalla cui presenza trae conforto
attraverso una comunicazione affettiva.
Nella casa dove vive con i parenti l’unico calore umano lo
trae non dall’amante né dalla zia ma dal bambino: “L’amore di cui scoppiavo lo
riversavo sul bambino che un giorno, al mio ritorno dal lavoro, pronunciò la
prima parola chiamandomi “mamma mamma” (p. 133).
Anita ne viene “stordita dalla felicità” in quanto si sente
“ricambiata da quel piccolo tesserino tutta vita” (133). L’amore per la vita,
la commozione davanti a ogni forma di vita è la forza e la bellezza di questa
ragazza e di tutto il libro.
Finalmente arriva la primavera che “aveva risvegliato alla
vita anche i mattoni delle case con i loro colori rossastri, illuminati da un
sole dal calore tenero che scioglieva le membra, i sensi, i musi e le labbra
finora chiuse al saluto” (p. 141). Tutto viene osservato con sguardo benevolo,
attento alla vita: cose, piante, animali e persone.
Alcune delle persone, pur congiunte ad Anita, pure sue
consanguinèe sono del tutto estranèe alla sua sensibilità. Eli, dolorosamente e
anche la zia che allontanava “da sé tutti gli argomenti seri, per incapacità di
capirli o per paura che potessero turbare la sua voglia di leggerezza” (p.
144).
E tratta la nipote come una serva: “E tu, pensatrice”,
guardà me, “pensa ai panni da lavare”.
A tre quarti del racconto si giunge alla resa dei conti.
Anita scopre di essere incinta e lo dice all’uomo che l’ha ingravidata.
Lui reagisce da bruto, da stupratore: “Tu pazza bugiarda,
non incinta di me” (p. 149). Anita ribatte che nessun altro uomo l’ha toccata,
ma Eli replica rincarando la dose: “Tu piccola idiota grande puttana se davvero
incinta perché nascosto? Perché non lavata dopo? Io non voglio te non voglio
bastardo. Scandalo se dici Monika o Aron, ti ammazzo io! Abortire!”
Mi viene in mente un film di Fassbinder, Lilì Marlen, che scopre il male non solo
imperante con tracotanza fra i nazisti, ma annidato anche nella borghesia
ebraica ricca e colta. Il male non distingue le razze che infatti non esistono.
Anita dunque dopo la violenza che le è stata inflitta dagli
hitleriani, subisce questa di un congiunto mascalzone, un uomo cui aveva donato
tutta se stessa. Ma nemmeno questa volta diventa cattiva, né perde fiducia
nella vita. Ha un ottimismo di fondo, un ottimismo del resto ragionato e
razionale che le fa superare tutte le prove.
Ricorda che la madre le aveva detto che gli uomini nascono
per tenere le briglie sul collo delle donne e che nascere è una disgrazia.
E lei aveva risposto: “Ma se io non fossi nata non vedrei il
sole, gli alberi, la neve e non mangerei il tuo pane, mamma” (p. 152).
La reazione brutale dell’amante alla notizia del concepimento
la mette comunque in crisi: “La gravidanza, invece di rendermi più forte, mi
rendeva estremamente fragile, inerme, anche nei confronti dell’uomo che aveva
deciso per l’immediato aborto. Da padrone di me e di nostro figlio aveva
pronunciato la parola “aborto” subito, alla maniera del selezionatore, che con
la parola “sinistra” aveva mandato ai forni mia madre. “E’ un nazista”, avrei
voluto urlare, e uccidere in me ogni briciolo di sentimento per l’uomo che mi
aveva sedotta con il primo abbraccio protettivo e il primo membro maschile che
mi aveva penetrato” (p. 153)
Lui vuole farla abortire, nonostante l’opposizione di lei e
il fatto la gravidanza sia già piuttosto avanzata.
Un briciolo di comprensione le giunge da Aron, lo zio
acquisito che le dice: “Sei una ragazza molto speciale, peccato che non vi
capite con la zia: Tra voi due, la bambina è lei, credimi. A me puoi dirlo,
cosa ti ha turbato a tavola. Dovresti essere felice, finalmente vai a Praga. So
che vi presteranno anche un appartamento” (p. 159).
Ma in questa fase Anita è troppo turbata per parlare del suo
sconvolgimento, mentale e fisico. Eli ha preso un appuntamento con un medico di
Praga per farla abortire. Anita lo rifiuta e lo detesta: “Preferirei un cane
piuttosto che te, mi dà nausea anche il tuo respiro” gli dice quando lui cerca
di toccarla. Confronta l’oscurità mentale di lui con la radiosità del cielo di
fine maggio: “Come per verificare i miei sentimenti, guardai il mio seduttore
alla luce di un maggio ridente che si avvicinava a giugno, e mi parve una
figura buia (…) perché era oscurato dalla propria stupidità ottusa” (p. 162).
I due vanno dal medico che dovrebbe farla abortire. Anita
viene salutata in ungherese e la ragazza da questa delicatezza capisce che
questo dottor Heller è una persona buona.
“Oh grazie al cielo, grazie!” balbettai guardandolo come
fosse un’apparizione, una luce nel buio come il cuoco vicino al campo di
Dachau, che mi aveva chiesto come mi chiamavo e mi aveva regalato un pettinino
per i capelli appena spuntati dopo la rasatura ad Auschwitz” (p. 168).
Faenza mette una figura di cuoco buono nel campo di
concentramento dove si trova Jona del suo film.
Basta poco a
rallegrare un infelice, un atto di cortesia, un momento di attenzione, un gesto
anche solo simbolico di generosità.
Il dottore è una persona per bene e non se la sente di fare
abortire una ragazzina gravida di cinque mesi e non consenziente.
Le chiede come abbia fatto a innamorarsi di un tipaccio del
genere.
E’ questa sicuramente una domanda venuta in mente a parecchi
lettori
Sentiamo cosa risponde Anita: “Forse perché non mi amo,
forse per amare qualcuno, forse per punirmi perché vivo, forse per sentire che
vivo” (p. 173). E’ un momento di grande confusione nell’animo della fanciulla,
è una fase di crisi della sua identità.
Il medico suggerisce che possono simulare l’abortimento
facendo credere a Eli che è stato effettuato. Anita accoglie la proposta come
una salvezza: “Allora non me lo farà?” quasi gridai di gioia” (p. 170)
Il dottore si offre di aiutarla anche in seguito :”Ti scrivo
il mio numero di telefono e il mio indirizzo. Elsa ti porterà un altro bel
bicchiere di latte, poi chiameremo il tuo cattivo ragazzo che è senza anima, se
non vuole una fanciulla così bella come te e un figlio che bussa alla porta del
mondo. Ti scriverò una poesia, io faccio anche lo scrittore, per hobby. Il tuo
indirizzo?”
Quest’uomo dà come un’indicazione un segno del destino alla
ragazza che gli risponde: “Non so se rimarremo lì a lungo. Le scriverò anch’io
una poesia. Io farò la scrittrice, ma chissà in quale lingua e dove”, mormorai”
(p. 173). Un destino che deve ancora precisarsi ma è già indirizzato a una
meta.
Il buon medico per giunta mette di nascosto nella borsetta
di lei il denaro ricevuto da Eli per l’aborto.
Trecento dollari che il seduttore a sua volta ingannato ha
la spudoratezza di rinfacciare alla sua vittima con queste parole: “Tu stupida
costata molto, non vali tanto. Adesso riposo. Io vado cercare mangiare”.
Non solo è vero, come dice Platone, che parlare male fa male
all’anima: è altresì vero che chi parla male ha l’anima malata, o come ha detto
il buon dottore, ha una grave carenza di anima.
Durante l’assenza di Eli, Anita fugge da lui e gira per
Praga osservando ogni cosa con attenzione, ascoltandone le voci: “ Per me Praga
era una città parlante, al contrario di Dresda e Berlino piangenti e Budapest
piena di lamenti (…) Praga mi pareva tutta un museo dove convivevano il vecchio
con il nuovo, il piccolo con il grande, il sontuoso con il semplice, come
fossero l’uno figlio dell’altro e tutti ugualmente pieni del proprio fascino”
(p. 185).
A un certo punto sente chiamare il suo nome e teme di essere
stata rintracciata da Eli. Invece è un uomo conosciuto a casa della zia: “Mi
sorrise Avner, l’agente che chiamavo il nuovo Mosé che organizzava e
propagandava l’immigrazione clandestina per la Palestina ” (p. 186)
Questo è un altro di quegli “eventi fatali” che segnano il
destino delle persone.
Avner le propone appunto il ritorno nella terra degli avi.
“Tu sei delusa…eh? Ma se io ti trovo un posto su uno dei
camion che partono stanotte alle due, che ne dici?”
Anita capisce che queste parole contengono l’eco di una voce
forse sovrannaturale. E risponde: “Che il dottor Heller con Gesù sul muro, che
ha salvato il mio bambino, ha un pezzetto di Dio dentro, un altro pezzetto ce
l’hai tu, un altro pezzetto devono avere avuto quei tedeschi che mi hanno dato
o buttato qualche avanzo del loro cibo. Dio forse è diviso in pezzettini tra le
persone migliori, ma sono poche” (p. 191).
Approvo il fatto che l’autrice non si sia lasciata prendere
dal razzismo antitedesco, odioso come ogni altro razzismo.
Anita (Edith Bruck?) vede il proprio destino con precisione
sempre maggiore e dice all’uomo che l’aiuta quale sia il suo sogno: “il mio
sarà realizzabile appena imparerò l’ebraico: io voglio scrivere, poesie,
racconti, romanzi, favole, inventare un mondo che non c’è, rovesciare quello
che sento sulla carta” (p. 192).
Alla fine del romanzo, la ragazza in partenza da Praga sa
quello che non vuole e quello che vuole: “Io non voglio essere mantenuta, posso
pulire anche i cessi e scrivere” (p. 191).
“Della politica” dice “non so quasi niente, ma la Storia l’ho ereditata” (p.
192). Tutti noi abbiamo avuto l’eredità della storia, ma pochi vogliono
conoscerla e avvalersene. Avner aiuta Anita a salire sul camion diretto a un
porto dove ci sarà una nave che la porterà con altri in Palestina
“Ti cercherò, ti troverò, non avremo che una manciata di
paese” promise Avner. Il camion partì e poco dopo si levarono le voci “degli
indistinguibili viaggiatori, che cantavano una canzone imparata nei vari centri
di preemigrazione nell’Europa di Auschwitz”.
Anita si unì al coro
“Alla Terra siamo
ascesi alla Terra siamo ascesi
L’abbiamo già arata
L’abbiamo anche
seminata
Ma il raccolto non
l’abbiamo ancora avuto” (p. 196)
Il carattere buono di Anita, quel daivmwn che è anche il destino di ciascuno di noi[1],
si manifesta nei suoi ricordi. Questi sono rivolti non solo alle sofferenze
subite e capite ma anche, ma ancora di più, alle gioie godute, sentite a fondo,
pur se causate da piccoli eventi: “Per noi bambini bastava niente per gioire, e
le gocce d’acqua che filtravano dal tetto e facevano disperare la mamma per noi
erano manna, ciliegie da acchiappare con la bocca spalancata” (p. 75)
O quando, finita in prigione come clandestina, l’adolescente
fa questa riflessione “la guardiana che apparve dicendomi “Dobrý den” (“Buongiorno”) sembrava un oceano di bontà che, invece
della sua acqua salata, mi diede tè caldo e pane nero (…) Al prigioniero basta
uno sguardo umano per credere nell’umanità intera, come a un bambino una foglia
per giocare”.
Per questo riconoscimento del bene è necessario però avere
il bene dentro di sé. Quelli che non ce l’hanno, coloro nei quali prevale il
male, i malvagi vedono e riconoscono solo malvagità nel mondo. Carattere in
greco si dice trovpo~, un sostantivo
che significa pure la direzione verso la quale uno volge (trevpetai) la propria anima. C’è chi la
indirizza al bene, chi al male.
Il male fa male non solo alle persone che lo subiscono ma
anche a quelli che lo provano per gli altri e lo infliggono al prossimo: “Tutto
questo odio fa male a te non a loro” (p. 84), dice Anita a Eli che parla poco e
male, dicendo parole quasi sempre cattive. Alla propria amante quindicenne che
gli domanda: “Cosa posso fare per renderti meno rabbioso, più contento?”, lui risponde:
“Letto, fottere (…) Tu non entrare mia storia mia vita”.
Anita ricorda spesso quanto le diceva la mamma, una donna
religiosa, affaticata, delusa: “la mia mamma, gli uomini così, li chiamava cani
di legno” (p.100). Anita è incline al bene ma impara a riconoscere il male.
Ha imparato molto dai nazisti e apprende dell’altro dal suo
primo amante.
Tutto il male e il dolore subito, però, non l’hanno
impregnata, non l’hanno resa malvagia: “Se gli assassini devono trasformare in
assassini anche noi, vincono di nuovo loro, ci fanno perdere l’innocenza,
l’anima” (p. 117) dice a un personaggio che suggerisce di “affrontare i nemici
a testa alta e mano armata”.
Dopo qualche tempo Anita viene mandata a fare un lavoro di
cucitrice in un luogo seminterrato, oscuro e freddo e che la intristisce. Ma il
datore di lavoro le fa coraggio: “Un giorno, spero non lontano, sarai in un
luogo caldo e galleggerai sul Mar Morto” (p. 120).
Rispetto alle utopie classiche, prive di luogo, talora anche
di tempo (le ucronie) questa terra promessa degli Ebrei è invece reale nello
spazio e nella storia.
Nel luogo di lavoro Anita prova affetto per una ragazza
ebrea anche lei ma di estrazione borghese, Emma, dalla cui presenza trae
conforto attraverso una corrispondenza di sentimenti umani .
Nella casa dove vive con i parenti, l’unico calore affettivi
lo trae non dall’amante né dalla zia ma dal bambino cui fa da maestra e da
mamma: “L’amore di cui scoppiavo lo riversavo sul bambino che un giorno, al mio
ritorno dal lavoro, pronunciò la prima parola chiamandomi “mamma mamma” (p.
133).
Anita ne viene “stordita dalla felicità” in quanto si sente
“ricambiata da quel piccolo esserino tutta vita” (133). L’amore per la vita, la
comprensione e la commozione davanti a ogni forma di vita è la forza e la
bellezza di questa ragazza e di tutto il libro. E’ un amore, una comprensione e
una commozione che ho riconosciuto in tutti i film di Faenza.
Finalmente arriva la primavera che “aveva risvegliato alla
vita anche i mattoni delle case con i loro colori rossastri, illuminati da un
sole dal calore tenero che scioglieva le membra, i sensi, i musi e le labbra
finora chiuse al saluto” (p. 141). Tutto viene osservato con sguardo benevolo,
attento alla vita intera: cose, piante, animali e persone.
Alcune delle persone, pur congiunte ad Anita, pure sue
consanguinèe sono invece estranèe alla sua sensibilità. Lo è Eli,
dolorosamente, e anche la zia che allontanava “da sé tutti gli argomenti seri,
per incapacità di capirli o per paura che potessero turbare la sua voglia di
leggerezza” (p. 144).
Monika tratta la nipote come una serva: “E tu, pensatrice”,
guarda me, “pensa ai panni da lavare”.
A tre quarti del racconto la storia di Anita giunge alla
resa dei conti. La ragazzina scopre di essere incinta e lo dice all’uomo che
l’ha ingravidata.
Lui reagisce da bruto, da stupratore dell’anima: “Tu pazza
bugiarda, non incinta di me” (p. 149). Anita ribatte che nessun altro uomo l’ha
toccata, ma Eli replica rincarando la dose: “Tu piccola idiota grande puttana
se davvero incinta perché nascosto? Perché non lavata dopo? Io non voglio te
non voglio bastardo. Scandalo se dici Monika o Aron, ti ammazzo io! Abortire!”
Mi viene in mente un film di Fassbinder, Lilì Marlen, che scopre il male non solo
imperante con tracotante prepotenza fra i nazisti, ma anche annidato nella
borghesia ricca e colta. Il male come il bene non è mai l’esclusiva di un
popolo, di una classe sociale, o di una persona, nonostante popoli, classi e
persone siano stati impiegati come capri espiatori.
Anita dunque dopo la
violenza che le è stata inflitta dagli hitleriani, subisce questa di un
congiunto mascalzone, un uomo cui aveva donato tutta se stessa. Ma nemmeno
questa volta diventa cattiva, né perde fiducia nella vita. Ha un ottimismo di
fondo, un ottimismo del resto ragionato e razionale che le fa superare tutte le
prove.
Ricorda che la madre le aveva detto che gli uomini nascono
per tenere le briglie sul collo delle donne e che nascere è una disgrazia.
E lei aveva risposto: “Ma se io non fossi nata non vedrei il
sole, gli alberi, la neve e non mangerei il tuo pane, mamma” (p. 152).
La reazione brutale dell’amante alla notizia del concepimento
la mette comunque in crisi: “La gravidanza, invece di rendermi più forte, mi
rendeva estremamente fragile, inerme, anche nei confronti dell’uomo che aveva
deciso per l’immediato aborto. Da padrone di me e di nostro figlio aveva
pronunciato la parola “aborto” subito, alla maniera del selezionatore, che con
la parola “sinistra” aveva mandato ai forni mia madre. “E’ un nazista”, avrei
voluto urlare, e uccidere in me ogni briciolo di sentimento per l’uomo che mi
aveva sedotta con il primo abbraccio protettivo e il primo membro maschile che
mi aveva penetrato” (p. 153)
Lui vuole farla abortire, nonostante l’opposizione di lei, e
il fatto che la gravidanza sia già avanzata oltre la metà del percorso. Un
briciolo di comprensione le giunge da Aron, lo zio acquisito che le dice: “Sei
una ragazza molto speciale, peccato che non vi capite con la zia: Tra voi due,
la bambina è lei, credimi. A me puoi dirlo cosa ti ha turbato a tavola.
Dovresti essere felice, finalmente vai a Praga. So che vi presteranno anche un
appartamento” (p. 159).
Ma in questa fase Anita è troppo scossa per parlare del suo
sconvolgimento, mentale e fisico. Eli ha preso un appuntamento con un medico di
Praga per farla abortire. Anita rifiuta e detesta l’uomo che l’ha messa incinta
: “Preferirei un cane piuttosto che te, mi dà nausea anche il tuo respiro” gli
dice quando lui cerca di toccarla. Confronta l’oscurità mentale di lui con la
radiosità del cielo di fine maggio: “Come per verificare i miei sentimenti,
guardai il mio seduttore alla luce di un maggio ridente che si avvicinava a
giugno, e mi parve una figura buia (…) perché era oscurato dalla propria stupidità
ottusa” (p. 162). La luce è la più rallegrante delle cose e il buio
dell’ottusità è una delle più avvilenti, soprattutto quando lo si constata in
un amante.
I due vanno a Praga, dal medico che dovrebbe procurare
l’aborto. Anita viene salutata in ungherese e da tale delicatezza capisce che
questo dottor Heller è una persona buona.
“Oh grazie al cielo, grazie!” balbettai guardandolo come
fosse un’apparizione, una luce nel buio come il cuoco[2]
vicino al campo di Dachau, che mi aveva chiesto come mi chiamavo e mi aveva
regalato un pettinino per i capelli appena spuntati dopo la rasatura ad
Auschwitz” (p. 168). Basta poco a rallegrare un infelice, un atto di cortesia,
un momento di attenzione, un gesto, anche solo simbolico, di generosità. Eppure
spesso siamo avari perfino di queste piccolezze.
Il dottore è una persona per bene e non se la sente di fare
abortire una ragazzina gravida di cinque mesi e non consenziente.
Le chiede come abbia fatto a innamorarsi di un farabutto
siffatto.
E’ questa sicuramente una domanda venuta in mente a parecchi
lettori
Sentiamo cosa risponde Anita: “Forse perché non mi amo,
forse per amare qualcuno, forse per punirmi perché vivo, forse per sentire che
vivo” (p. 173). E’ un momento di grande confusione nell’animo della fanciulla, è
una fase di crisi della sua identità.
Il medico suggerisce che possono simulare l’abortimento e dire
a Eli che è stato effettuato. Anita accoglie la proposta come una salvezza:
“Allora non me lo farà?” quasi gridai di gioia” (p. 170)
Il dottore si offre di aiutarla anche in seguito :”Ti scrivo
il mio numero di telefono e il mio indirizzo. Elsa ti porterà un altro bel
bicchiere di latte, poi chiameremo il tuo cattivo ragazzo che è senza anima, se
non vuole una fanciulla così bella come te e un figlio che bussa alla porta del
mondo. Ti scriverò una poesia, io faccio anche lo scrittore, per hobby. Il tuo
indirizzo?”
Quest’uomo dà come un’indicazione, un segno del destino alla
ragazza che gli risponde: “Non so se rimarremo lì a lungo. Le scriverò anch’io
una poesia. Io farò la scrittrice, ma chissà in quale lingua e dove”, mormorai”
(p. 173). Un destino che deve ancora precisarsi ma è già indirizzato a una
meta.
Il buon medico per giunta mette di nascosto nella borsetta
di Anita il denaro ricevuto da Eli per l’aborto.
Trecento dollari che il seduttore, a sua volta ingannato, ha
la spudoratezza di rinfacciare alla sua vittima con queste parole immonde: “Tu
stupida costata molto, non vali tanto. Adesso riposo. Io vado cercare
mangiare”.
Non solo è vero, come dice Platone, che parlare male fa male
all’anima[3]:
è altresì vero che chi parla male ha l’anima malata, o come ha detto il buon
dottore, ha una grave carenza di anima.
Durante l’assenza di Eli, Anita fugge da lui e gira per
Praga osservando ogni cosa con attenzione, ascoltandone le voci: “ Per me Praga
era una città parlante, al contrario di Dresda e Berlino piangenti e Budapest
piena di lamenti (…) Praga mi pareva tutta un museo dove convivevano il vecchio
con il nuovo, il piccolo con il grande, il sontuoso con il semplice, come
fossero l’uno figlio dell’altro e tutti ugualmente pieni del proprio fascino”
(p. 185).
A un certo punto la ragazza sente chiamare il suo nome e
teme di essere stata rintracciata da Eli. Invece è un uomo conosciuto a casa
della zia: “Mi sorrise Avner, l’agente che chiamavo il nuovo Mosé che
organizzava e propagandava l’immigrazione clandestina per la Palestina ” (p. 186)
Questo è un altro di quegli “eventi fatali” che segnano il
destino delle persone.
Avner le propone appunto il ritorno nella terra degli avi.
“Tu sei delusa…eh? Ma se io ti trovo un posto su uno dei
camion che partono stanotte alle due, che ne dici?”
Anita capisce che queste parole contengono l’eco di una voce
fatale, forse sovrannaturale, e gli risponde: “Che il dottor Heller con Gesù
sul muro, che ha savato il mio bambino, ha un pezzetto di Dio dentro, un altro
pezzetto ce l’hai tu, un altro pezzetto devono avere avuto quei tedeschi che mi
hanno dato o buttato qualche avanzo del loro cibo. Dio forse è diviso in
pezzettini tra le persone migliori, ma sono poche” (p. 191).
Approvo il fatto che l’autrice non si sia lasciata prendere
dal razzismo antitedesco, odioso come ogni altro razzismo.
Anita (Edith Bruck?) vede il proprio destino con precisione
sempre maggiore e dice all’uomo che la sta aiutando quale sia il suo sogno: “il
mio sarà realizzabile appena imparerò l’ebraico: io voglio scrivere, poesie,
racconti, romanzi, favole, inventare un mondo che non c’è, rovesciare quello
che sento sulla carta” (p. 192).
Edith vuole inventare,
trovare, un mondo luminoso e pieni di colori[4].
Alla fine del romanzo, la ragazza in partenza da Praga sa
quello che non vuole e sa quello che vuole: “Io non voglio essere mantenuta,
posso pulire anche i cessi e scrivere” (p. 191).
“Della politica” dice “non so quasi niente, ma la Storia l’ho ereditata” (p.
192). Tutti noi abbiamo dentro l’eredità della storia, ma pochi vogliono
conoscerla e avvalersene, per pigrizia o per viltà. Avner aiuta Anita a salire
sul camion diretto a un porto dove ci sarà una nave che la porterà con altri in
Palestina.
“Ti cercherò, ti troverò, non avremo che una manciata di
paese” promise Avner. Il camion partì e poco dopo si levarono le voci “degli
indistinguibili viaggiatori, che cantavano una canzone imparata nei vari centri
di preemigrazione nell’Europa di Auschwitz”.
Anita si unì al coro
“Alla Terra siamo
ascesi alla Terra siamo ascesi
L’abbiamo già arata
L’abbiamo anche
seminata
Ma il raccolto non
l’abbiamo ancora avuto” (p. 196).
Il raccolto prima o poi arriva. Può tardare, ma arriva.
Sostiene Pereira. Il libro di Tabucchi e il film di
Faenza.
Tabucchi nel
suo libro più noto, Sostiene Pereira
(Feltrinelli, 1994)
ci insegna
che l’intellettuale, lo scrittore, l’artista non possono sottrarsi all’impegno
politico che è anche impegno morale.
Roberto
Faenza ne ha tratto un film con lo stesso titolo del romanzo, un film molto
bello, che Rai Tre ha riproposto mesi fa, subito dopo la morte dello scrittore.
Il romanzo e
la sua trasposizione cinematografica dovrebbero rammentare a tutti noi, quanti
studiamo, insegniamo, scriviamo, che la cultura non può essere neutrale e che
l’uomo portatore di cultura e di paideia,
che è educazione degli uomini, deve schierarsi, e non da una parte qualunque,
ma da quella dei deboli oppressi dal potere.
Leggo in una
lettera di Tabucchi a Paolo di Paolo: “Essere scrittore non vuol dire solo
maneggiare le parole. Significa soprattutto stare attenti alla realtà
circostante, alle persone, agli altri”.
Necessità
dell’impegno politico dunque. Impegno in favore della libertà e della vita,
impegno contro la schiavitù, la violenza e la morte.
Tanti scarabocchiatori
libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie, discettano intorno
al proprio ombelico, come se fosse il centro del mondo. Se esprimono un
dissenso, questo è solo retorico, mai veramente scomodo verso chi riempie di
cibo le loro gabbie, greppie e pance. Schopenhauer definiva “boschēmata” simili intellettuali e
professori. Una parola greca, non tedesca, e significa bestiame, bestiame che
si pasce.
Facciamo un breve excursus su altri autori che hanno
trattato il problema.
Il grande storiografo Tucidide, colui che ha identificato la
storia con la politica e ha indicato per primo, coraggiosamente, “la verità
effettuale” di uomini e cose, aprendo la strada a Polibio, Tacito e
Machiavelli, ha ricordato un discorso pubblico di Pericle, il famoso lógos epitáfios, nel quale il grande statista
disse che gli Ateniesi consideravano non pacifico, ma inutile il cittadino che
non si occupa di politica, ossia della vita della polis.
:"movnoi ga;r tovn
te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen"
(Storie, II 40, 2), siamo i soli a
considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.
Thomas Mann sostiene che l’artista vive una
vita simbolica, emblematica, di rappresentanza, come il principe regnante. Lo
scrittore, come il re, deve negare a se stesso la banalità del comune borghese
per esprimersi solo in maniera simbolica. Chi scrive, ha il dovere, come
insegnano il romanzo di Tabucchi e il film di Faenza, di rischiare, di dare un
esempio, di mettere in gioco, in un gioco pulito (spielrein) perfino la propria vita. Del resto Pereira mettendo a
repentaglio la vita fiacca e dimidiata che viveva, vince la posta e ritrova
intera la propria forza vitale: quella di scrittore, di uomo, di intellettuale.
Pasolini ha previsto la propria morte violenta
quando ha scritto che" il potere e il mondo che, pur non essendo
del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali
liberi-proprio per il modo in cui è fatto-dalla possibilità di avere prove e
indizi"[6].
Infatti nello stesso articolo del “Corriere della sera” del
14 novembre 1974, scriveva anche: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno
indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire
tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare
tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina anche fatti lontani, che
mette insieme[7]
pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il
mistero”. Certamente la sua morte obbedisce a una logica, una logica perversa e
criminale, ma pur sempre una logica.
Pasolini fa parte del gruppo degli scrittori martiri,
eliminati dal potere. Pereira invece riesce a cavarsela, e senza demerito.
Il film di Faenza nelle ultime inquadrature mostra lo
scrittore di Lisbona che rivitalizzato dalla scelta politica e morale compiuta,
si allontana dal suo paese oppresso dalla dittatura di Salazar. Continuerà a
scrivere politicamente altrove.
Di Pier Paolo Pasolini sappiamo tutti come è andato a finire
e perché. Comunque continua a essere letto, e molto più dei pennivendoli che
pascolano foraggiati dal regime.
Il potere tollera il dissenso solo se questo è retorico, o
ambiguo, comunque non scomodo, talora anzi tale fronda è perfino indirettamente
funzionale a chi comanda davvero. Si pensi al finto dissenso dei Fazio e di
altri sorridenti prosseneti del genere, pagati a suon di milioni di euro
oltretutto.
La chiacchiera degli
imbonitori televisivi per lo più è fatta di vuoto: arzigogoli e ghirigori che
non dicono nulla e offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni
e più comprensibili, mentre il discorso della verità è semplice, e quanto è
conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate.
Nelle Fenicie[8]
di Euripide, Polinice afferma la parentela della semplicità con la giustizia e
con la verità:"aJplou'" oJ
mu'qo" th'" ajlhqeiva"[9]
e[fu,-kouj poikivlwn dei' ta[ndic'
eJrmhneuavtwn" (vv. 469-470), il discorso della verità è semplice
per natura, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni
ricamate. Invece l' a[diko"
lovgo" , il discorso ingiusto, siccome è malato dentro, ha bisogno
di artifici scaltri:"nosw'n ejn auJtw'/
farmavkwn dei'tai sofw'n" (v. 472). Notare che mu`qo~ e
ajlhvqeia non sono in contrasto: l’ossimoro è nei termini, non nei dati
di fatto.
Voglio ricordare
alcuni storiografi martiri fatti fuori dal potere imperiale di Roma per il loro
dissenso vero.
"Del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri,
per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli, accusato, s'era
lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un'esaltazione della libertà di
pensiero storico)... … Sotto Nerone,
il padovano Trasea Peto "la virtù in persona[10]",
come lo definì Tacito , si uccise[11]
accusato di lesa maestà: aveva scritto
una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo
sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo
difendevano l'antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso
principato"[12].
Ovidio subì un trattamento forse meno pesante: fu mandato a
morire di crepacuore sulle rive remote e desolate del Mar Nero. Eppure il poeta
Peligno non aveva messo in discussione il potere di Augusto: si era limitato a
una polemica da libertino contro il moralismo ufficiale del regime e dei suoi
cantori, compreso il pur grande Virgilio. Tale dissenso limitato a un aspetto
del costume fu comunque sufficiente per metterlo al bando.
Ma ora, è già tempo, concludo tornando, doverosamente, al
bel libro di Tabucchi. Partiamo dal cognome del protagonista eponimo. In una
nota finale l’autore chiarisce che “In portoghese Pereira significa albero del
pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine
ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città”.
E aggiunge: “Con questo volli rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una
grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie
della Storia”. La lettura del libro in effetti suscita simpatia per tutti i
perseguitati, per ogni uomo che subisce ingiustizia, e insegna il dovere
dell’impegno di ogni persona onesta in loro favore. Ma vediamo alcuni punti
cruciali del romanzo. All’inizio, siamo nell’estate del 1938, Pereira è un
letterato senescente, grasso, stanco, malato di cuore e di spirito. Dirige la
pagina culturale di un piccolo giornale del pomeriggio, traduce romanzi
francesi, e vive di ricordi. Soprattutto di quello della moglie morta di tisi.
Ma poi fa degli incontri, con due ragazzi che “gli curano
l’anima”, come facevano i bambini con il principe Myskin, l’Idiota di Dostoevskij. Più tardi Pereira
conosce un dottore che lo incoraggia a una dieta e, soprattutto, lo aiuta a
prendere coscienza di se stesso, a diventare quello che è: un uomo buono e
intelligente, capace di staccarsi da quel suo vivere un’esistenza rivolta al
passato, oziosa, inutile, impolitica insomma. Il medico esorta a non trascurare
quelle ragioni del cuore che i due giovani dissidenti e oppositori del regime
filofascista di Salazar hanno messo in moto, chiedendogli aiuto. La stessa
letteratura, se è buona, ci dà stimoli verso una vita attiva, impegnata e
impiegata per il prossimo. Più della filosofia, suggerisce Tabucchi: a Pereira,
mentre dialogava con il giovane Monteiro Rossi che “di solito parlava di
filosofia… venne in mente una frase che gli diceva sempre suo zio, che era un
letterato fallito, e la pronunciò. Disse: la filosofia sembra che si occupi
solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si
occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità”. E’ un’espressione di quella
antica ruggine[13]
tra filosofi e poeti ricordata dal Socrate di Platone o avvertita dall’Ulrich
di Musil[14].
La volontà di Pereira si incoraggia e si rafforza negli
incontri con i giovani, Monteiro e Martha. La visione della ragazza, della sua
“bella silhouette che si stagliava nel sole” contribuisce alla salute psicologica
e fisica del letterato senescente.
Pereira fa un altro incontro che lo spinge verso il
disseppellimento della propria identità, inumata sotto ricordi e rimpianti, e
coperta dalla vegetazione di questi vani pascoli degli spiriti disoccupati. Si
tratta di una signora con una gamba di legno, una ebrea-tedesca di origine
portoghese, una cosmopolita dunque, incontrata in treno, che lo mette di fronte
ai suoi doveri: “lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in
Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa”. Pereira
replica che lui non è Thomas Mann, ma la donna lo incalza: “Capisco, ma forse
tutto si può fare, basta averne la volontà”.
Segue l’intesa e l’amicizia con un medico della clinica talassoterapica
dove l’anziano valetudinario va a curarsi.
Il giovane dottor
Cardoso, che si diletta di letteratura francese e di psicologia, gli parla
dell’evento, un avvenimento imprevisto “che si produce nella vita reale e
sconvolge la vita psichica”.
Tali incontri fanno parte di quegli avvenimenti accidentali
di cui parla Lucrezio.
Gli eventa non sono qualità congiunte ai
corpi (coniuncta), come il rosso del
sangue per esempio, ma sono accidenti che comunque influiscono sulla nostra
vita. Lucrezio enumera alcuni di questi eventa:
la schiavitù, la povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia. Gli
eventi di Pereira sono questi dialoghi con persone significative, che lo
colpiscono, cui presta attenzione. Il dottore gli insegna pure che dentro di
noi c’è “una confederazione di anime e che ogni tanto c’è un io egemone che
prende la guida della confederazione”.
Pereira un poco alla volta perde peso e prende coscienza del
suo nuovo io egemone. Intanto il regime di Salazar diventa sempre più spudorato
e feroce. Manda in Spagna, a combattere per Franco, un battaglione, detto
Viriato[15],
usurpando il nome del capo dei Lusitani ribelli ai Romani poco dopo la metà del
II secolo a. C.
Il fatto risolutivo però è l’assassinio del ragazzo Monteiro
Rossi nel quale Pereira vedeva quasi il figlio mancato suo e della moglie
morta, con la foto della quale parlava mentre lei lo guardava “con un sorriso
lontano”. Se avessero avuto un figlio il vecchio letterato, l’umbraticus doctor, si sarebbe sentito
meno solo e meno desolato. Tre tangheri dunque irrompono in casa di Pereira
dove si era rifugiato Monteiro e ammazzano di botte il ragazzo. Quindi intimano
al giornalista di non parlare minacciandolo di morte. E’ una sera di fine
estate, e il vecchio quella sera dimentica la sua prudenza, le paure, la sua
impoliticità, e concede il potere al nuovo io egemone, coraggioso e
battagliero, denunciando l’orribile crimine dei sicari del regime con un
articolo di fuoco che riesce a fare stampare e pubblicare con uno stratagemma e
con l’aiuto dell’amico Cardoso. Le ragioni del cuore e quelle della testa si
erano finalmente riconosciute a vicenda e avevano fatto un’alleanza davvero
santa.
Nella scena finale del film di Faenza, Mastroianni-Pereira
si avvia rivitalizzato verso la libertà, probabilmente in Francia.
Sono grato a Tabucchi e a Faenza poiché con i loro lavori
hanno contribuito ad accrescere la mia vita.
I ganascioni servi del regime invece non li leggo e non li
ascolto.
Vediamo ora qualche battuta impiegata nella sceneggiatura
del film omonimo di Roberto Faenza
Nelle prime immagini si vede Lisbona che sfavilla in una
magnifica giornata d’estate. Pereira era rimasto colpito da un saggio comparso
su una rivista: La morte per comprendere
il senso della vita. Firmato Monteiro Rossi. Il giornalista senescente va a
dire a un frate che il pensiero della morte gli gira spesso in testa poiché gli
pare che tutto il mondo sia morto o per lo meno in procinto di morire.
Mastroianni appare vecchio, stanco e malato, quantum mutatus ab illo che vedemmo
nella Dolce vita di Fellini!
Il senso della morte si è già impossessato di lui, e la
morte stessa gli è vicina. Dice poi al religioso, restio ad ascoltarlo, di non
credere nella resurrezione della carne. Il suo credo in questa prima parte è la
separazione tra letteratura e politica: “noi non vogliamo occuparci di
politica”.
Il ragazzo Monteiro autore dell’articolo però muove e scuote
qualche cosa nell’anima intorpidita dell’anziano giornalista. A quel giovane
interessa la vita, non la morte. Pereira intuisce che da quel ragazzo può
ricevere scosse benefiche e decide di aiutarlo, pur avvisandolo e
premettendogli: “io mi occupo soltanto di letteratura”. Gli offre quindi una
collaborazione con la sua pagina letteraria. Monteiro allora scrive un
coccodrillo su D’Annunzio dandogli del fanfarone, del fascista, del razzista
che ha esaltato le sanguinose campagne coloniali. Pereira si prende paura e si
mostra scandalizzato da tanta audace parzialità. Cerca addirittura di imbastire
un’ improbabile apologia del vate del fascismo italiano, il regime che manda i
volontari a combattere al fianco di Franco e dei volontari portoghesi.
Il giovane allora gli chiede: “e le sembra giusto?”
E Pereira: “Non lo so e non voglio saperlo”,
Tale rinuncia a prendere una posizione è stampata con grossi
caratteri nel corpo e nella faccia dell’uomo grasso, sudato, quasi unto con il
proprio sudore.
Mastroianni è molto bravo ad assumere espressioni prive di
vita vivace.
Infatti aggiunge: “io voglio solo un necrologio!”.
Il ragazzo allora gli dice: “in verità io ho seguito solo le
ragioni del cuore!”
Il vecchio appare colpito da questa frase, e pensa: “le
ragioni del cuore portano seri inconvenienti”, ma non esterna questo pensiero,
e invece dice: “le ragioni del cuore sono le più importanti, ma bisogna trovare
un equilibrio con gli occhi ben aperti”.
Pereira è un uomo solo, sensibile, chiuso in se stesso da
tanto tempo.
Parla con la foto della moglie morta di tisi anni prima e le
descrive il ragazzo come il figliolo che avrebbero potuto avere loro due. Si immagina
pure che il giovane gli assomigli. Nel condominio dove abita c’è una portiera,
una specie di spia che tende a controllarlo e minacciarlo, preoccupandolo e
irritandolo.
Monteiro che ha avuto degli anticipi grazie al buon cuore di
Pereira, gli presenta un altro articolo, questa volta un necrologio elogiativo
di Majkoskij che si è suicidato.
Pereira non può accettare nemmeno questo in quanto
“Majlkoskij è un sovversivo!”
Il giornalista si mette in viaggio e in treno incontra una
donna ebrea che legge Thomas Mann e prova orrore per il dilagare del fascismo
in Europa.
Pereira dice che la situazione non piace nemmeno a lui.
Allora la donna lo incoraggia a fare qualcosa, a fare
sentire che non è d’accordo a scrivere delle denunce.
Pereira le risponde: “io non sono Thomas Mann”.
E la donna: “tutto si può fare, basta avere la volontà”.
Quando Pereira arriva, va a prenderlo un amico che gli dice:
“alla nostra età, se uno ha un po’ di cervello fa meglio a godersi la vita”.
Ma il vecchio giornalista non si trova a suo agio nel luogo
di vacanza dove si è recato e dove incontra il suo direttore dallo stile nello
stesso tempo prepotente e servile. Sicché torna quasi subito a Lisbona.
La vita nella capitale peggiora di giorno in giotrno. Un
negozio di ebrei viene assalito
Ci sono soldati dappertutto. Il Portogallo è una prigione.
Un cugino di Monteiro deve nascondersi e cerca rifugio
Pereira dice “io non parteggio”, ma lo aiuta.
La ragazza di Monteiro lo invita a schierarsi dalla parte
giusta, ma Pereira dice: “io non sono né dei vostri né dei loro”.
L’anziano giornalista parte di nuovo per curarsi e Marta va
a salutarlo alla stazione. Pereira è imbarazzato, teme la repressione fascista:
dice che Marx ed Engels non sono tra le sue letture preferite. La ragazza gli
dice che loro sono per la libertà e per questo lui dovrebbe essere con lei e
con i suoi amici
E lui: “io non sono né dei vostri né dei loro e del resto
non so chi siano i vostri”.
Vuole rimanere chiuso nella sua gabbia di ricordi, di
letture, di scarabocchiature che non cambiano niente.
Dice di essere contento per essere passato dalla cronaca
alla letteratura.
Marta risponde: “noi non facciamo la cronaca ma la storia”.
Allora Pereira, sempre più evasivo; “la storia è una parola
grossa; io adesso devo partire, non mi segua e non mi cerchi più”
In viaggio parla con la foto della moglie,
Arriva in una spiaggia fosca e triste. Nuota con grande
fatica.
Poi incontra il dottor Cardoso che deve curarlo. Gli dice
che ha un’insufficienza coronaria. E’ il simbolo dell’insufficienza della sua
vita.
Il dottore, molto snello, chiede al paziente quando è
cominciata la pinguedine. “Dalla morte di mia moglie”, L’uomo da allora ha
tratto qualche malsana soddisfazione da dieci limonate al giorno cariche di
zucchero,
“Da oggi acqua minerale non gassata” prescrive il medico.
Il rapporto con il cibo è sempre indicativo dell’ordine o
del disordine mentale.
Il terapeuta si prende a cuore il paziente e gli fa domande
sull’attività sessuale, inesistente, mettendolo in imbarazzo. Pereira non ha la
presenza di spirito di rispondere come fece Sofocle.
Platone rappresenta Sofocle come
un vecchio[16]
pentito del sesso: Cefalo riferisce di essere stato presente quando un tale domandò
al poeta di Colono:"pw'"...e[cei"
pro;" tajfrodivsia; e[ti
oi|ov" te ei\ gunaiki; suggivgnesqai;", come ti va nelle cose
d'amore? sei ancora capace di congiungerti con una donna?
Quindi il tragediografo rispose: "eujfhvmei w\ a[nqrwpe: aJsmenevstata mevntoi
aujto; ajpevfugon, w{sper luttw'ntav tina kai; a[grion despovthn ajpodrav""
(Repubblica , 329c), sta' zitto tu,
infatti con grandissima gioia me ne sono liberato, come se fossi fuggito da un
padrone furente e selvaggio.
Catone il Vecchio nel De senectute di Cicerone :" Bene Sophocles, cum ex eo quidam iam affecto
aetate quaereret utereturne rebus veneriis:"Di meliora! inquit; libenter
vero istinc sicut ab domino agresti ac furioso profugi " (14),
opportunamente Sofocle quando, già vecchio e fiaccato dagli anni, un tale gli
chiedeva se facesse ancora del sesso, disse: dio ne scampi, volentieri invero
sono scappato di lì come da un padrone selvaggio e furioso!
Per quanto riguarda i suoi sogni, Pereira dice che la sua
visione notturna frequente è quella della spiaggia dove ha conosciuto la moglie
e ha passato il tempo più bello della sua vita.
Sta traducendo un racconto di Balzac sul pentimento che lo
coinvolge perché anche lui sente di avere qualche cosa di cui pentirsi.
L’evento nuovo della sua vita è che ha conosciuto “due
poveri ragazzi romantici, senza futuro”. Il ragazzo scrive necrologi da un
punto di vista politico. Questo evento lo ha messo in crisi: “se loro avessero
ragione, la mia vita non avrebbe più senso. Io ho sempre creduto che la
letteratura fosse la cosa più importante”.
Pereira non ha capito che la letteratura nasce dalla vita e
deve potenziare la vita.
Il dottore espone la teoria dell’anima formata da una
confederazione di anime guidata da un io dominante che nel tempo può cambiare.
Pereira ascolta il dottore, come medico e come amico
filosofo, e torna a Lisbona dimagrito di dieci chili,
Poi incontra di nuovo il frate bizzarro. Il religioso è
critico verso il Vaticano che appoggia Franco, mentre lui simpatizza con il
clero basco il quale dopo Guernica si è schierato con i repubblicani.
Bernanos (Diario di un curato di campagna) ha
denunciato i massacri del franchismo.
Dunque la letteratura non è politicamente neutra. Si pensi
alle Troiane di Euripide.
Il dottore gli dice che ha bisogno di rompere con il
passato.
La polizia era dappertutto e cercava i sovversivi
Il direttore, pieno di anelli come Trimalchione, lo sgrida
perché ha tradotto un panegirico della Francia, invece che “della nostra patria
e della nostra razza”.
“Ma non esiste una razza portoghese-obietta Pereira. Siamo
un miscuglio di Celti, Romani, Arabi, Ebrei”
Torna Monteiro a casa di Pereira con l’epitafio di Garcia
Lorca. Dice che i nazionalisti spagnoli gridano “Viva la Muerte !”
Al giovane invece
piace la vita.
Pereira nasconde in casa il giovane oramai adottato, ma
arrivano tre squadristi che lo trovano e lo ammazzano a furia di botte. Questa
è la scossa che fa cambiare vita all’abulico anziano.
Scrive un epitaffio per il ragazzo morto che amava la vita.
Denuncia i tre turpi individui che lo hanno ammazzato. E con un trucco riesce
ad aggirare la censura e a far pubblicare il pezzo in prima pagina.
Se ne va con uno zaino su una spalla e la giacca su
un’altra.
Cammina ringiovanito. Mentre procedeva aveva la sensazione
che la sua età non gli pesasse più, si sentiva agile e svelto come se fosse
tornato un ragazzo. Ripensò a quella spiaggia e alla fragile ragazza che gli
aveva dato gli anni migliori della sua vita. Aveva messo la foto di lei nello
zaino
Per ricordare meglio ebbe voglia di fare un sogno bellissimo
a occhi aperti. L’avrebbe raccontato a chi ha narrato questa storia.
Dunque Pereira ha seguito molti consigli del dottor Cardoso,
ma non quello di cancellare la memoria del passato smettendo di parlare con la
foto della moglie
Giovanni ghiselli
[1] Eraclito con il suo stile ieratico e lapidario
insegna che l’uomo e il suo destino coincidono: “ h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn”.
[3] Il parlare male, fa male all'anima. Lo afferma
Socrate nel Fedone :" euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh;
kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla;
kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è
solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
[4] Don Pino Puglisi, il prete ucciso dalla mafia, dice,
in un altro film di Roberto Faenza, Alla
luce del sole: “I sogni colorano il mondo”. Gli autori bravi hanno uno
stile proprio, una coerenza stilistica e pure tematica.
[5] Platone nel Fedone
114d sostiene che è bello il rischio
kalo;~ ga;r oJ kivnduno~ di credere
nell’immortalità dell’anima.
[6] Scritti corsari
, p. 113.
[8] Composte intorno al 410 a . C.
[9] Seneca cita questo verso traducendolo così: “ut ait ille tragicus ‘veritatis simplex
oratio est’, ideoque illam implicari non oportet” (Ep. 49, 12), come dice quel famoso poeta tragico “il linguaggio
della verità è semplice”, e perciò non deve essere complicata.
[10] "Nero virtutem ipsam excindere concupivit
interfecto Thrasea Paeto", Annales , XVI, 21, Nerone volle
uccidere la virtù in persona con l'ammazzare Trasea Peto.
[11] Nel 66 d. C.
[12]S. Mazzarino, Il
pensiero storico classico , 3, p. 64.
[14] Egli non era un filosofo. I filosofi sono dei
violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo
rinchiudendolo in un sistema”, L’uomo
senza qualità, p.243.
[15] Cui quidem
etiam exercitus nostri imperatoresque cesserunt, davanti al quale si
ritirarono perfino i nostri eserciti e i nostri generali, ricorda Cicerone in De officiis, II, 40. Viriato Morì nel 138 a . C. fatto uccidere a
tradimento dal console Servilio Cepione. Salazar avrebbe dovuto assimilarsi più
realisticamente agli assassini di Viriato.
[16] La
Repubblica di Platone è ambientata al Pireo, in casa
del meteco Cefalo, padre di Lisia e Polemarco, nella primavera del 408 a . C. quando Sofocle
(497-406 a .
C.) aveva quasi novant'anni. L'episodio raccontato risalirà a qualche tempo
prima.
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