Presentazione del
libro di Diego Fusaro: Minima Mercatalia,
Filosofia e capitalismo (Bompiani, Milano, 2013)
Ho ascoltato Diego Fusaro al festival della Popsophia di
Pesaro giovedì 3 luglio 2014.
E’ un giovane eccezionalmente preparato, tenendo conto di quello
che sa, di come sa dirlo, e pure del suo essere ancora praticamente un ragazzo:
il suo è un caso in cui l’età verde è un pregio in quanto si rivela dotata di
capacità che più frequentemente si accompagnano all’età provetta di una vita
passata a studiare, imparare, capire, operare.
Non posso dire altrettanto dei giovani messi a governare
l’Italia da Berlusconi in qua.
Ma veniamo al libro che ho letto stimolato da quanto ho
sentito dire dall’autore e da come lo ha detto.
Il primo capitolo si intitola Fenomenologia dello spirito del capitalismo (p. 29-75). Le pagine
sono impreziosite da una collana di citazioni belle che danno luce ai pensieri.
L’epigrafe è data da
alcune parole di Karl Marx che denuncia il tempo in cui “virtù, amore,
opinione, scienza, coscienza, ecc.-tutto divenne commercio. E’ il tempo della
corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di
economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta
valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto
valore” (Miseria della filosofia).
Non si può non applicare tale critica a questo tempo, al
nostro.
Nella pomeridiana “sezione diatribe” della Popsophia il cui
tema generale era “Nostalgia del presente”, Fusaro ha discusso animatamente con
Simone Regazzoni il quale sosteneva, senza ricorrere a eufemismi o litoti, che
“bisogna farla finita con la critica poiché non c’è più la verità”.
Tale affermazione che ha la pretesa tirannica di inibire
l’uomo kritikovς, ossia capace di
giudicare (krivnein), corrisponde a
quello che Fusaro nella sua replica ha chiamato “l’assolutismo monoteistico del
mercato”.
Il capitolo in questione, nel primo paragrafo di Minima Mercatalia (1.1) ricorda casi di
opposizioni al potere che si possono emblematicamente riassumere con queste
parole di Lucano: “victrix causa deis
placuit, sed victa Catoni”[1].
Fusaro dunque fa propria e attualizza la critica al
capitalismo “elaborata da Marx e da alcuni suoi allievi novecenteschi (da
Antonio Gramsci a Ernst Bloch, da György Lukács a Theodor Wiesengrund Adorno,
da Herbert Marcuse a Costanzo Preve)” e nello stesso tempo rifiuta il
“comunismo storico novecentesco in tutte le sue varianti “(p. 30). L’autore riconosce
che tale sdoppiamento “può sembrare paradossale”.
Il giovane professore dell’Università San Raffaele di Milano
non crede “con Lukács che il peggior socialismo reale sia comunque sempre da
preferire al miglior capitalismo”. Il movente di questo docente trentenne, dei
suoi studi, dei suoi libri è “la passione durevole della critica”, una passione
“antiadattiva sotto il segno dell’obstinate
contra”.
Contro che cosa? Sia
contro il capitalismo dunque, sia contro il comunismo storico che “era
formalmente costruito nel nome dell’uguaglianza e, per ironia della storia, ha
generato, dalla Russia all’Albania, una delle più subdole attuazioni della
disuguaglianza che l’umanità abbia mai sperimentato”[2] (p.
31).
Mi permetto una critica al critico troppo giovane per avere
avuto esperienza diretta, autoptica, dei regimi comunisti dell’Europa dell’est:
io[3] ho
frequentato con borse di studio estive l’Ungheria di Kádár (e di Lukács) e non
ci ho trovato la profonda miseria, né le colossali disparità, né le abominevoli
ingiustizie dell’Italia di questi ultimi anni. Lo stesso Fusaro, del resto, nella
diatriba pesarese ha fatto notare che nella storia del mondo non ci sono mai
state disuguaglianze enormi, mostruose, come quelle di oggi, di questa epoca
che ha fichtianamente definito “della completa peccaminosità”[4].
Fusaro distingue Marx dal marxismo: quanto è marxiano, di
Marx, da quanto è stato attribuito a Marx, e assume come “punto di riferimento...
il pensiero critico di un Marx non marxista”. E’ un poco come distinguere
Cristo dal cristianesimo dogmatico e dalla degenerazione terroristica delle
Chiese che prendono il nome da lui, spesso usurpandolo.
Usurpazione subita troppe volte anche da Marx, dai suoi
detrattori e pure dai suoi seguaci.
Comunque Fusaro non nega gli “aspetti positivi” del
comunismo storico: “come la liberazione dell’Europa dal nazismo, l’influenza
sulle lotte di liberazione nazionale contro il colonialismo dei popoli oppresso
dell’Africa, dell’Asia, e dell’America latina, e la stessa formazione del welfare state nei paesi capitalistici
occidentali come ‘reazione obbligata’ alle logiche sociali del ‘comunismo
reale’” (p. 32).
L’altro versante, non meno antiumanistico e antiumano del
comunismo degenerato, è quello del capitalismo reale.
Questo offre una libertà apparente, mentre di fatto impone ai
più “la ‘schiavitù salariata’ di individui che, in una condizione di privazione
totale e di oscena riduzione dell’umano a merce, sono costretti ad alienare la
propria ‘forza lavoro’ e a vendersi quotidianamente…Contro la retorica oggi
dilagante, con la caduta del Muro e con il seppellimento sotto le sue macerie
del marxiano ‘sogno di una cosa’[5] non
hanno trionfato le democrazie, ma l’economia di mercato fondata
sull’alienazione universale, sulla globalizzazione degli egoismi,
sull’estorsione schiavistica del pluslavoro dei lavoratori precari e sullo
sfruttamento della manodopera degli immigrati di tutto il mondo” (Minima Mercatalia, p. 32).
Bene ha fatto Fusaro durante la diatriba della Popsophia a
rifiutare la scelta che Regazzoni voleva imporgli tra il nazismo e la
democrazia attuale[6]: l’autore di questo libro
ha messo in rilievo, non senza ricordare Pasolini[7], che
la violenza criminale di Hitler,
evidente e conclamata, lasciava più moventi e stimoli all’opposizione di quanto ne rimangano dopo il
lavaggio del cervello di chi vuole imporci l’idea che quello del mercato
onnipotente sia il migliore dei mondi possibili, anzi l’unico mondo possibile,
quello globalizzato.
Un globo di continenti peccaminosi, per dirla con
Shakespeare[8].
Un inganno programmato, insistente, continuo, il cui fine è
dare da intendere che questa epoca che Diego Fusaro chiama “del capitalismo
assoluto” sia il punto più alto e la meta finale della Storia.
Esso sarebbe oramai destinato a rimanere eijς a[panta
to;n aijw̃na, per tutta l’eternità.
Fa parte dell’inganno, la parte più ripugnante per lo
studioso di una civiltà logocentrica, cambiare, capovolgere, stravolgere i
significati delle parole, quindi delle idèe, imbarbarendo le menti degli uomini.
A me che sono un classicista, e vedremo più avanti che in
questo libro i classici greci sono presenti e fondanti, viene in mente la transvalutazione
lessicale compiuta dal “carnevale sinistro”[9] della
stavsiς, la guerra civile, nel
racconto di Tucidide.
Sentiamo lo storiografo ateniese, l’inventore della storia
politica
Nei conflitti interni molti valori si capovolgono: a
proposito della stavsi" di
Corcira[10],
Tucidide afferma che ci fu una transvalutazione generale e le stesse parole
cambiarono il loro significato originario:"Kai;
th;n eijwqui'an ajxivwsin tw`n
ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei. Tovlmame;n ga;r
ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82,
4), e cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai
fatti. Infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni
di partito.
Queste parole sono commentate da Montaigne nel capitolo
XXIII[11] dei Saggi:
"Si leggono nelle nostre stesse leggi, fatte per rimediare a quel primo
male[12],
l'insegnamento e la giustificazione di ogni sorta di cattive imprese; e ci
accade quel che Tucidide narra delle guerre civili del suo tempo che per
favorire i pubblici vizi li battezzavano con nuovi nomi più dolci, per
scusarli, temperando e ingentilendo la loro vera qualità"[13].
Voglio fare altri esempi di degenerazione del linguaggio e
di deriva nichilistica dei valori.
Nel Bellum
Catilinae di Sallustio, Catone, parlando in senato dopo e contro Cesare, il
quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i loro
beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo
cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera
vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur,
eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente
abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni
altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica
è ridotta allo stremo.
Nel cambiamento dei
valori il giudice supremo è il successo, capace di rendere onorevoli certi
delitti: “honesta quaedam scelera
successus facit” (Seneca, Fedra, 598)
Nella Pharsalia di Lucano è il potere delle armi
rabbiose che porta a questa trasfigurazione delle parole: "Imminet armorum rabies, ferrique
potestas/confundet ius omne manu, scelerique nefando/nomen erit virtus,
multosque exībit in annos/hic furor" (I, 666-669), incombe la
rabbia delle armi, e il potere del ferro sfigurerà ogni diritto con la
violenza, e virtù sarà il nome di delitti nefandi, e questo furore durerà molti
anni.
E ancora: nel Macbeth
di Shakespeare la moglie di Macduff, invitata da un messaggero a fuggire prima
che arrivino i sicari del tiranno, risponde: “Whither should I fly?/I have done no harm. But I remember now./I am in this earthly world where
to do harm/is often laudable; to do good, sometime-accounted dangerous folly” (IV, 2), dove
dovrei scappare? Io non ho fatto del
male. Ma ora ricordo. Io sono in questo basso mondo dove fare il male è spesso
lodevole; fare il bene, talora è considerata pericolosa follia.
Il potere attuale, rispetto al quale apprezzo molto l’essere
“inattuale” di Fusaro, cambia il significato di parole chiave come
“democrazia”, “costituzione”, “libertà”, “uguaglianza”.
In sintesi: potere
del demos viene annichilito dallo strapotere del mercato.
La nostra Costituzione,
che riprende un tratto della democrazia periclea[14], dovrebbe
“rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla
organizzazione politica, economica e sociale del paese”[15].
Un’ottima intenzione mai attuata del tutto. Oggi meno che
mai[16].
Per quanto riguarda la negazione della libertà e
dell’uguaglianza lascio la parola a Fusaro: “Per un altro verso, il capitalismo
tende a produrre fughe individuali e collettive dalla libertà in direzione di
adattamenti, conformismi e adesioni a mode temporali, superficiali e seriali,
che sembrano configurarsi come il capovolgimento della libertà in coazione al
livellamento e all’omologazione. Nel fosco regime dell’apartheid planetario, ogni anelito di riconoscimento e uguaglianza
si perverte puntualmente in mortificante omologazione di massa (l’“uguaglianza
dell’irrilevanza”, secondo la formula del giovane Hegel). Nella nostra società
completamente egualizzata dalla disuguaglianza capitalistica, la condizione
dell’individuo diventa, per dirla con Lukács, la sintesi tragica di onnipotenza astratta e di impotenza concreta: da un lato, la
società odierna si presenta come il coronamento del trionfo dell’individuo,
emancipato contemporaneamente da Dio e dalla tradizionale vita comunitaria; da
un altro lato, però, l’individuo è dominato da forze economiche e tecnologiche
che non può in alcun modo controllare e che assumono sempre più i tratti di
quell’imposizione sistematico-planetaria che Heidegger aveva designato nei
termini di un anonimo Gestell[17]. (…)
Nella “gabbia d’acciaio” del mercato globale, l’individuo è tale solo nel
contesto alienato di un individualismo atomistico che ha preventivamente reciso
i legami comunitari. Promotore di istanze livellanti non meno dei comunismi
novecenteschi, il capitalismo non premia i talenti né i meriti, ma riconosce
solo ciò che è “monetizzabile”, generando a propria immagine e somiglianza un
mondo la cui mercificazione onnipervasiva e il potere alienato del denaro fanno
sì che i soggetti non siano riconosciuti se non come “valore di scambio”
vivente perché –come sapeva Marx- “le caratteristiche del denaro sono le mie
stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche
e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi
affatto determinato dalla mia individualità”[18] (Minima Mercatalia, pp. 33- 34)
Nei Manoscritti
economico-filosofici del 1844 che ascrivo all’umanesimo, ossia all’amore
per l’umanità[19], Marx commenta
Shakespeare[20] scrivendo che nel denaro
il grande drammaturgo inglese rileva:"la divinità visibile, la
trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario,
la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose"[21].
L’ultima parola però spetta a Fusaro: “La nostra si presenta
come la società in cui, in nome di una liberalizzazione integrale funzionale
alle logiche della valorizzazione del valore, è vietato vietare qualsiasi cosa,
e la sola cosa vietata è la lotta per una società diversa rispetto a quella che
ha assunto la forma merce a orizzonte unico” (Minima Mercatalia, p. 34).
Per oggi mi fermo qui.
Riprenderò presto a presentare quanto scrive questo giovane amatissimo del
sapere[22].
Giovanni Ghiselli
[1] Pharsalia, I, 28, la causa del vincitore piacque agli dèi, ma
quella del vinto a Catone. Lucano tratta bella
plus quam civilia tra Cesare e Pompeo, suocero e genero. Una guerra nella
quale persero tutti, e prima di tutti il popolo, come sempre avviene nei
conflitti. Nei primi versi del poema, Lucano annuncia che comincia a cantare (canimus):
"bella… plus quam civilia… iusque
datum sceleri… populumque potentem/in sua victrici conversum viscera dextra"
(I, vv. 1-3), guerre più che civili e il diritto dato al delitto e il popolo
potente girato con la destra vincitrice dentro le sue viscere. Quasi un anti-Eneide che celebrava la pace e l’impero di Augusto.
[2] Cfr. C. Preve, Storia critica del marxismo: dalla
nascita di Karl Marx alla dissoluzione del comunismo storico novecentesco, La
città del Sole, Napoli, 2007, pp. 10 ss. Cfr. inoltre Id., Il marxismo e la
tradizione culturale europea, Petite Plaisance, Pistoia 2009, pp. 75-100.
[3] Sono nato nel novembre del 1944. “Ora è un vecchio
che parla” (Pavese, Dialoghi con Leucò,
gli Argonauti)
[4]"ovvero della libertà vuota, del feroce conflitto
che disgrega ogni ordine, della lotta egocentrica e spietata di tutti contro
tutti, dell'anarchia dei particolari sradicati da ogni totalità" C.
Magris, L'anello di Clarisse, p. 17.
[5] “Traum von einer Sache”: Karl Marx, lettera a Ruge del
settembre 1843; tr. it. a cura di G. M. Bravo, in Annali franco-tedeschi, Massari, Bolsena 2001, p. 75.
[6] Di quella di Pericle, diremo più avanti
[7] I poteri più forti sono quello dei consumi imposto da
una concezione edonistica della vita, e quello del conformismo: “le cose si
sono aggravate dal ’68 in poi. Perché da una parte il conformismo, diciamo
così, ufficiale, nazionale, quello del “sistema”, è divenuto infinitamente più
conformistico dal momento che il potere è divenuto un potere consumistico, quindi
infinitamente più efficace-nell’imporre la propria volontà- che qualsiasi altro
potere al mondo. La persuasione a seguire una concezione “edonistica” della
vita (e quindi a essere dei bravi consumisti) ridicolizza ogni precedente
sforzo autoritario di persuasione: per esempio quello di seguire una concezione
religiosa o moralistica della vita”.
P. P. Pasolini, Lettere Luterane, p. 21.
[8] Enrico IV, seconda parte, scena IV.
[9] "Un'audacia " ajlovgisto"" prende il nome di coraggio, la prudenza si chiama pigrizia, la
moderazione viltà, il legame di setta viene prima di quello di sangue, e il
giuramento non viene prestato in nome delle leggi divine, bensì per violare le
umane. Sinistro
carnevale, mondo a rovescio, in cui è necessario lottare con ogni mezzo per
superarsi e in cui nessuna neutralità è ammessa. Così appare, a Corcira, per la
prima volta tra gli Elleni, la più feroce di tutte le guerre (Tucidide, III,
82-84)" (M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, pp. 42-43)
[10] 427-425 a . C.
[11] Della consuetudine e del non cambiar facilmente
una legge accolta.
[12] Le prime faziosità (n.d. r.).
[13] Montaigne, Saggi (del 1585), p. 156.
[14] Il paragrafo II, 37, 1
delle Storie di Tucidide ha suscitato
più di un eco nella nostra costituzione
Noi, dice Pericle abbiamo una costituzione esemplare (paravdeigma) e degna di essere imitata. Si
chiama democrazia è c’è una condizione di uguaglianza (to; i[son) per tutti. Si viene eletti alle cariche pubbliche
secondo la stima del valore (kata; de; th;n
ajxiwvsin) né uno viene preferito
alle cariche per il partito di provenienza (oujk
ajpo; mevrouς) più che per il valore (to;
plevon ejς ta; koina; h] ajp j
ajreth̃ς), né del resto secondo il criterio della povertà (oujd j au\ kata; penivan) se uno può fare
qualche cosa di buono per la città, ne è stato impedito per l’oscurità della
sua posizione sociale (ajxiwvmatoς ajfaneiva/ kekwvlutai). Nel Menesseno di Platone, Aspasia dice che
nessuno è stato escluso per povertà (peniva/),
né per oscurità dei padri, né d’altra parte per condizioni opposte è
stato ritenuto degno di onore (238d). Sarebbe stata Aspasia a comporre questo
discorso per Pericle.
Sentiamola: “Il popolo assegna cariche e potere a chi gli
sembra essere il migliore: nessuno è stato escluso (ajphlevlatai oujdeivς) per debolezza, povertà, oscurità dei
padri, né per motivi opposti (oujde; toĩς ejnantivoiς) è stato onorato. C’è un solo
limite (ei|ς o{roς): ha il potere e le carichre (krateĩ kai; a[rcei)
chi ha la reputazione di uomo saggio o buono (oJ
dovxaς sofo;ς h} ajgaqo;ς
ei\nai (Menesseno, 238d)
[15] Articolo 3 comma B.
[16] Il pesarese Ivano Dionigi, attuale magnifico rettore
dell’Università di Bologna, ha detto, signorilmente, che senza il presalario
degli anni Sessanta non avrebbe potuto permettersi gli studi universitari
[17] Das Gestell
è la quintessenza dello stellen, del porre, dell’impiantare, dell’azionare.
[18] K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus
dem Jahre 1844, 1932 (1844); tr.
it. A cura di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844,
Einaudi, Torino 1968, p. 153
[19] “E che cos’era
l’umanesimo? Era amore per l’umanità, nient’altro, e perciò era anche politica” (T. Mann, La montagna magica, p. 231)
[20] Il quale nel Timone
d'Atene chiama l'oro "comune bagascia del genere umano";
l'universale mezzana che "profuma e imbalsama come un dì di Aprile quello
che un ospedale di ulcerosi respingerebbe con nausea" (IV, 3)
[21] Manoscritti
economico-filosofici del 1844, p.
154.
[22] Fusaro stesso nel festival pesarese ha rifiutato
l’etichetta di “intellettuale” cui spesso si addice il guinzaglio e il premio
dell’osso o delle briciole del banchetto della grossa borghesia, come notò bene
anche Pasolini.
Fusaro ha detto di
sentirsi piuttosto un filosofo, un amante del sapere.
Nessun commento:
Posta un commento