Presentazione del libro di
Remo Bodei
Generazioni
Età della vita, età delle cose. Editori Laterza, Roma-Bari 2014.
La Seconda parte di questo
libro (pp. 35-76) ha lo stesso titolo dell’intero volume. Parla infatti
dell’eterno avvicendarsi delle generazioni che si succedono e passano qui sulla
terra come le foglie[1].
All’inizio del primo
paragrafo (pp.35-46) Bodei nota che il recente allungamento della giovinezza e
della vecchiaia “restringe l’area di influenza della maturità” (p. 35). Quindi
l’autore si chiede in che cosa consista la maturità. Bodei ricorda il Salmo 89 della Bibbia che determina gli
anni della nostra vita a “settanta, ottanta per i più robusti” e l’inizio della
Commedia di Dante che indica l’età
dell’io narrante in procinto di intraprendere il viaggio “per luogo etterno”[2] come
il “mezzo del cammin di nostra vita”. Si tratta del trentacinquesimo anno, come
si evince dal passo del Convivio (XXXIII,
8-9) citato .
Questa opera minore di Dante vuole
rendere partecipi del sapere o almeno delle briciole del sapere coloro che sono
stati impediti dal dedicarsi allo studio per il quale è necessario “ozio di
speculazione” (I, 1)
Le prime parole del Convivio
menzionano Aristotele chiamato, per antonomasia il Filosofo: “Sì come dice lo
Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente
desiderano di sapere”.
Ebbene Bodei, cita Aristotele
a proposito della maturità: “il corpo raggiunge la sua maturità dai trenta ai
trentacinque anni, l’anima intorno ai quarantanove”[3].
Il “maestro di color che
sanno” [4]
identifica il culmine della maturità, l’essere ajkmavzonteς
delle persone, in una forma di medietà e giusto equilibrio tra gli eccessi
riscontrabili invece nei caratteri dei vecchi e dei giovani, Gli uomini maturi,
per esempio, sono swvfroneς met’ ajndreivaς kai; ajndreĩoi meta; swfrosuvnhς [5],
assennati con coraggio e coraggiosi con assennatezza, mentre nei giovani e nei
vecchi queste qualità sono separate.
Bodei procede ricordando che
“l’età della vecchiaia era piuttosto incerta e variabile e concideva spesso con
quella segnata ‘dall’impossibilità per l’individuo di mantenersi con le proprie
forze e di assolvere i propri compiti e servigi’ ”[6] (Generazioni, p. 37), Tale variabilità,
che da sempre risente delle condizioni socio economiche e pure dalla tempra
dell’individuo, è aumentata ai giorni nostri con l’allungarsi della vita umana.
Mimnermo chiede di morire
ancora sano a sessant’anni, ponendo a questa età il termine di una vita
plausibile, ossia allietata dall’aurea Afrodite
“Vorrei che senza malattie e
preoccupazioni tremende
il destino di morte mi
cogliesse a sessant’anni” (fr. 11 Gentili-Prato).
Molto diversa è l’opinione di
Fëdor Karamazov che spera di prolungare l’età dell’amore carnale con il denaro:
““Intanto sono ancora un uomo, non ho che 55 anni, ma voglio esserlo per una
ventina di anni ancora, e sarà proprio allora, quando sarò vecchio e
ripugnante, ed esse non vorranno più saperne di me, che mi occorreranno i
quattrini! Ora sto accumulando denaro quanto più posso, sempre di più,
unicamente per me caro figlio mio, Aljekjei Fëodorovič, perché voglio vivere
fino al termine dei miei giorni nella sozzura, sappiatelo. La sozzura è dolce:
tutti la oltraggiano e tutti ci vivono; solo, tutti lo fanno di nascosto; io,
invece, lo faccio apertamente. E proprio per questa mia franchezza, tutti gli
altri si sono accaniti contro di me” [7].
Sulla senilità dunque influisce molto anche la disposizione
caratteriale dell’individuo, come ci insegna l'Oblomov di Gončarov.
Ecco che cosa dice il
protagonista eponimo all’amico Stolz: “ Sai, Andrej, nella mia vita nessun
fuoco né divoratore né purificatore ha mai divampato. Essa non è stata, come
quella degli altri, simile al mattino che a poco a poco si colora e s’accende,
poi si muta nel giorno che ferve, arde e palpita nel meriggio luminoso e poi,
sempre più pallido e quieto, naturalmente e gradatamente, si spegne nella sera.
No, la mia vita è cominciata con il tramonto. E’ strano, ma è così! Dal primo
momento che ho avuto coscienza di me, ho sentito che mi spegnevo.
Ho cominciato a spegnermi
scrivendo gli incartamenti dell’ufficio; ho continuato, poi, conoscendo nei
libri quelle verità di cui non avrei saputo che fare nella vita; mi sono spento
con gli amici, ascoltando i loro discorsi, i loro pettegolezzi, le loro
malignità, il loro malvagio e freddo chiacchierare, la loro vuotaggine;
contemplando quel loro tipo d’amicizia alimentato da incontri senza scopo,
senza cordialità; mi sono spento e ho consumato le mie forze con Mina, per cui
spendevo più di metà delle mie rendite, illudendomi di amarla; mi sono spento
nel tetro e fiacco passeggiare lungo il viale Nevski, tra le pellicce d’orso e
i baveri di castoro, nelle serate, nei giorni di ricevimento, in cui venivo
lietamente accolto come fidanzato discreto; mi sono spento consumando in
sciocchezze la vita e l’intelligenza…”[8].
Lo sguardo di Olga, “ che lo bruciava come un
sole, gli scaldava il sangue, lo eccitava”[9], fa
ardere Oblomov per qualche tempo. A Olga per un certo tempo non dispiacque “l’idea
di illuminare col suo raggio di luce quel lago stagnante, e di specchiarsi in
esso” [10].
Ma Oblomov non ha le energie né
la volontà per questo amore: “Tu sei mite, onesto, Ilià…tenero come una
colomba; nascondi il capo sotto l’ala e non chiedi altro, sei disposto a tubare
sotto il tetto per tutta la vita: io non sono fatta così. Questo, per me, è
troppo poco, ho bisogno anche d’altro…Chi ti ha maledetto Ilià? Cosa hai fatto?
Sei buono, intelligente, tenero, nobile…e perisci, affondi. Cosa ti ha perduto?
Non c’è un nome per questo male…” “C’è” disse Oblomov in un sussurro appena
udibile. Ella lo guardò, inettrogativamente, con gli occhi pieni di lacrime.
“Oblomovismo!” fece egli sottovoce”[11].
Sono vecchi ante diem anche l’Emilio Brentani[12] di
Svevo
e sua sorella Amalia della
quale : “il Balli diceva che era nata grigia”[13].
Persone semmai dotate di ali,
queste sono capaci magari di voli poetici, ma non hanno le qualità e la forza
necessarie per afferrare pesci o altre prede, come fa notare Macario ad Alfonso
Nitti in Una vita [14].
Se l’età in cui invecchiando
si perde l’autonomia varia da persona a persona, il bisogno di assistenza
riguarda tutti quelli che raggiungono gli anni della decrepitezza, fatto oggi
non più tanto raro.
“In assenza di un consolidato
ed efficiente apparato di assicurazioni statali o private diffuse (che tuttavia
esisteva e in parte funzionava), è all’interno delle famiglie che in prima
istanza si regola generalmente il mantenimento delle generazioni e il loro
avvicendarsi e in cui la cura dei genitori anziani era- e continua a essere-un
modo per ricambiare l’assistenza e l’educazione ricevute” (Generazioni, p. 38)
Esiodo, il banditore della
considerazione malevola delle donne, riconosce tuttavia che l'uomo ha bisogno
di questa creatura complementare e che, se non sbaglia la scelta della
compagna, può evitare i dolori infiniti. Nella Teogonia dopo avere definito la femmina umana "bel
malanno" (kalo;n
kakovn, v. 585) e "inganno
scosceso" (dovlon
aijpuvn, v. 589) deve comunque ammettere
che quanti evitano le nozze e le opere tremende delle donne ("mevrmera e[rga gunaikw'n, v. 603) arrivano alla funesta vecchiaia con la
mancanza di qualcuno che si prenda cura di loro, e, quando uno di questi uomini
privi di eredi muore solo, la sua ricchezza se la dividono i lontani parenti.
Alla fine dei conti chi sceglie una buona moglie, saggia e premurosa, compensa
il male con il bene (v. 609), chi invece si imbatte in una femmina di stirpe
funesta, vive con un'angoscia costante nel petto, nell'animo e nel cuore e il
suo male è senza rimedio (vv. 610-612).
Nel secondo Stasimo (vv.
1058-1097) dell’Elettra di Sofocle, il
Coro nota che i saggissimi uccelli dell’aria (a[nwqen fronimwtavtou~ oijwnouv~, 1058) provvedono all’alumentazione dei padri dai
quali ricevettero benefici. Perché noi no?
Negli Uccelli di Aristofane, Pistetero ricorda al parricida, che vuole
strozzare il padre e prendergli tutta la roba, una legge antica degli uccelli:
quando un padre cicogna (oJ
path;r oJ pelargov~, 1355) ha nutrito
tutti i cicognini, finché siano atti al volo, poi devono essere i figli a
nutrire a loro volta il padre dei` tou;~ neottou;~ to;n patera pavlin trevfein (1357),.
Oggi veramente questo
contraccambio delle cure e dell’educazione ricevute da bambini non è molto
praticato, o per lo meno non fino alla convvivenza, da parte di chi può permettersi
una cosiddetta badante.
“Va tuttavia messa in conto
la differenza tra i modelli teorici e le situazioni concrete, così come va
smentita l’idea che nel passato le famiglie fossero caratterizzate dall’affetto
e dalla reciprocità (basti pensare, per la Grecia antica a le Nuvole di Aristofane o alle commedie di
Menandro per i rapporti non certo idillici tra genitori e figli o a quelle di
Plauto per la rivalità tra padri e figli nell’amore per un’etera[15]) e
che i vecchi venissero sempre accolti e curati benevolmente” (Generazioni, p. 38).
Aristofane rappresenta questo
contrasto sia rappresentando figli riottosi e prepotenti nei confronti dei genitori,
come Fidippide nelle Nuvole appunto,
sia, viceversa, un padre maniaco e ribelle alla volontà del figlio di farlo
rinsavire. Il vecchio Filocleone aspetta addirittura di ereditare il patrimonio
di Bdelicleone per poter avere larghi mezzi con i quali pagarsi le dissolutezze.
Il padre dice:“ancora non sono padrone delle mie sostanza perché giovane e
troppo sorvegliato (nevoς gavr eijmi kai; fulavttomai sfovdra) 1354-1355). E aggiunge quella che è la battuta più nota di questa
commedia: “Il mio figlioletto mi fa la guardia to; ga;r uJivdion threĩ me , lui è duvskolon, intrattabile, e avaro… Ma io sono l’unico padre che
ha (1356 e 1360).
Terenzio negli Adelphoe, attraverso il personaggio di Micione,
propugna la comprensione dei giovani da parte della generazione precedente
attraverso una forma di humanitas che
consiste nel mettersi nei panni dei figli ricordando gli sbandamenti della
propria gioventù purtroppo lontana.
Bodei ricorda che in Grecia e
a Roma non mancava l’assistenza della collettività e delle istituzioni agli
anziani indigenti.
“Nell’antica Grecia, ad
esempio, esisteva l’eranos quale volontario
sistema di contributi per assicurarsi la sopravvivenza in caso di impreviste
disgrazie o di mancanza di introiti” (Generazioni,
p. 39)
Nel primo canto dell’Odissea, Atena cerca di suscitare sdegno
in Telemaco per la presenza dei proci i quali certo non sono lì per un e[rano"" (v. 226), una cena collaticia dove ciascuno porta il suo contributo.
Nel lovgoς ejpitavfioς di Tucidide, kavllistoς e[ranoς (II, 43, 1) è il
contributo bellissimo che gli Ateniesi hanno dato alla grandezza della polis.
L’ultimo capitolo di questo
discorso di Pericle ricorda l’assistenza dovuta ai figli dei caduti in guerra:
“E’ stato anche da me esposto con un discorso, secondo la consuetudine, quanto
consideravo utile, e di fatto i sepolti da un lato sono già stati onorati,
dall’altro da questo momento la città manterrà a spese pubbliche i figli di
questi caduti, ponendo una corona di aiuto per tali cimenti in favore di questi
e dei superstiti. Infatti i premi più grandi della virtù sono stabiliti per
quelli che vivono da cittadini ottimi (II, 46, 1)
“Se con i grandiosi lavori
pubblici e con l’invio di numerose cleruchie (spesso decise con fine
esclusivamente sociale) si dava modo alle classi lavoratrici di esplicare in
una maniera o nell’altra la propria attività, con frequenti distribuzioni di
cereali, con pensioni agli operai inabili al lavoro (in genere un obolo al
giorno), col mantenimento a spese dello Stato degli orfani dei morti in guerra,
si provvedeva appunto alla sorte di coloro che non avrebbero potuto altrimenti
ottenere di che sostentarsi”[16]
Il personaggio Ateniese delle
Leggi di Platone parla della
condizione degli orfani dei quali devono prendersi cura pentekaivdeka tw̃n nomofulavkwn oiJ presbuvtatoi
i quindici più anziani custodi delle leggi (924c). Questi magistrati devono
temere gli dèi superi che sono sensibili alla solitudine degli orfani
“oi{ tw̃n ojrfavnwn th̃ς ejrhmivaς aijsqhvseiς e[cousin” (927b), poi le
anime dei morti (ei\ta
ta;ς tw̃n kekmhkovtwn yucavς) che per natura si curano dei figli e sono benevoli
verso chi li rispetta, ostili a quelli che li trascurano, poi anche le anime
dei vivi. Insomma chi si prende cura degli orfani e dei bambini abbandonati,
chi ha premura del nutrimento e dell’educazione degli orfani si comporta come
se portasse un contributo dovuto a se stesso e ai suoi familiari (wJς e[ranon
eijsfevronta eJautw̃/, 927c).
“A Roma le risorse
provenivano da una specie di cassa di mutuo soccorso per artigiani e operai
appartenenti a corporazioni-le sodalitates
o collegia opificum-e, talvolta,
dalla distribuzione da parte dello Stato dei beni di chi moriva senza lasciare
testamento” (Generazioni, p. 39).
Mi sembra interessante notare
che Cicerone mette gli opifices nel
catalogo di quanti traggono guadagno da mestieri illiberali e degradanti. Tali sordidi quaestus sono quelli di
esattori, usurai, salariati, piccoli bottegai (qui mercantur a mercatoribus quod statim vendant) i quali per
vendere devono mentire, e in generale tutti gli operai che esercitano una
professione degradante, infatti il lavoro manuale non può avere carattere di
nobiltà: “opificesque omnes in sordida
arte versantur; nec enim quicquam ingenuum habere potest officina” (De officiis, I, 150). L’Arpinate ricava
questo pregiudizio antipopolare dal proprio snobismo di homo novus disprezzato dalla nobiltà antica che lo considerava inquilinus civis urbis Romae[17],
cittadino occasionale della città di Roma, come poteva essere un meteco per gli
Ateniesi, e forse ha presente quanto dice il personaggio del Diotima Simposio platonico:"kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev,
a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva"
tinav", bavnauso"" (203a),
chi è sapiente in tali rapporti[18] è un
uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o
di certi mestieri, è un facchino[19].
Nella Politica di Aristotele oJ bavnausoς dh̃moς è il popolo che svolge un
lavoro manuale diverso dal coltivare la terra (1289b 33).
Eppure Carducci assimila il
poeta al “pover manuale” che lavora nella fucina: “Il poeta, o vulgo
sciocco,/Un pitocco[20]/Non
è già, che a l’altrui mensa/Via con lazzi turpi e matti/Porta i piatti/Ed il
pan ruba in dispensa (…)Il poeta è un grande artiere,/Che al mestiere/Fece i
muscoli d’acciaio;/Capo ha fier, collo robusto, /Nudo il busto,/Duro il
braccio, e l’occhio gaio./ Non a pena l’augel pia/E giulia/Ride l’alba a la
collina,/Ei co’ l mantice ridesta/Fiamma e festa/E lavor ne la fucina:/E la
fiamma guizza e brilla/E sfavilla/E rosseggia balda e audace,/E poi sibila e
poi rugge/e poi sfugge/ Scoppiettando da la brace/ (…)Picchia. E per la
libertade/Ecco spade,/Ecco scudi di fortezza:/Ecco serti di vittoria/Per la
gloria,/E diademi a la bellezza/ (…)Per sé il pover manuale/Fa uno
strale/D’oro, e il lancia contro ‘l sole;/Guarda come in alto ascenda,/E
risplenda,/Guarda e gode, e più non vuole ” (Rime Nuove, CV, Congedo)
“I “poveri onesti”, gli
invalidi (specie se per causa di guerra) avevano a lungo goduto di aiuti e
benefici da parte delle istituzioni ecclesiastiche o politiche attraverso
parrocchie, ospizi, ospedali, mense e, specie a partire dal Cinquecento, grazie
alle Poor Laws di diversi paesi.
Aristotele, tuttavia, nel primo libro della Politica
aveva coerentemente posto il sostentamento e la propagazione della vita fisica
(della zoé) all’interno della
famiglia, in una fase cioè prestatale, caratterizzata dal dominio del marito
sulla moglie, dei genitori sui figli e dei padroni sugli schiavi” (Generazioni, p. 40)
Vediamo qualche parola dello
Stagirita. Sono piene di quel buon senso comune tutt’altro che rivoluzionario
Nella amministrazione
domestica il maschio padrone di casa e capo della famiglia deve comandare
perché lo schiavo non ha affatto la facoltà deliberativa (oJ me;n ga;r doũloς oujk e[cei to; bouleutikovn), la femmina ce l’ha ma non valida (to; de; qh̃lu e[cei mevn, ajll j a[kuron),
il fanciullo ce l’ha, ma imperfetta (oJ de; paĩς e[cei me;n , ajll j ajtelevς, Politica,
1260 a). Quindi Aristotele cita parte di un trimetro
giambico dell’Aiace di Sofocle: “gunaiki; kovsmon hJ sigh; fevrei”[21].
Vediamo altre occorrenze di
questo tovpoς.
Negli Eraclidi di Euripide, Macaria prima di offrire il sacrificio della
propria vita per la salvezza della stirpe di Eracle dice “gunaiki; ga;r sighv te kai; to;
swfronei`n-kavlliston ei[sw q j h{sucon mevnein dovmwn” 476-477, per la donna infatti il silenzio e la pudicizia
è la cosa più bella e rimanere in tranquillità dentro la casa.
la sfortunata Andromaca delle
Troiane rappresenta in se stessa la
moglie ideale con queste parole:" Io che mirai alla buona fama,/dopo
averla ottenuta in larga misura, fallivo il successo./Infatti quelle che sono
le qualità conosciute di una sposa saggia/io le mettevo in pratica nella casa
di Ettore./Là dunque per prima cosa- che vi sia o non vi sia/motivo di biasimo
per le donne- la cosa in sé attira/cattiva fama se una donna non rimane in
casa,/
io, messo via il desiderio di
questo, rimanevo in casa(" e[mimnon ejn dovmoi"", v. 650);/e dentro casa non facevo entrare scaltre
chiacchiere/di donne, ma avendo come maestro il mio senno/ buono per natura,
bastavo a me stessa./E allo sposo offrivo silenzio di lingua e volto/
calmo("glwvssh"
te sigh;n o[mma q& hJvsucon povsei-parei'con", vv. 654-655); e sapevo in che cosa dovevo vincere lo sposo,/e
in che cosa bisognava che lasciassi a lui la vittoria"(vv. 643-656).
L’apostolo Paolo nella prima epistola
Ai Corinzi scrive: “Mulieres in ecclesiis taceant, non enim
permittitur eis loqui, sed subditae sint, sicut et lex dicit. Si quid autem
volunt discere, domi viros suos nterrogent; turpe est enim mulieri loqui in
ecclesia” aijscro;n
ga;r ejstin gunaiki; lalei`n ejn ejkklhsiva/.
(14, 34), le donne nelle assemblee tacciano, perché non è loro permesso parlare,
ma stiano sottomesse, come dice anche la legge[22]. Se
vogliono imparare qualche cosa, interroghino in casa i loro mariti, perché è
indecoroso per una donna parlare in assemblea
Le donne insomma, secondo il
codificatore della Chiesa cristiana, devono essere sottomessa in tutto ai
mariti come la Chiesa a Cristo: “Sed ut
ecclesia subiecta est Cristo, ita mulieres viris in omnibus” (Agli Efesini, 5, 22).
Le donne non solo devono tacere, ma non
devono nemmeno far parlare di loro. Lo dice il pur illuminato Pericle concludendo
il lovgoς ejpitavfioς , quasi il testamento spirituale della grande
Atene già avviata alla rovina: “Se poi devo menzionare qualche cosa della virtù
delle donne, quante ora si troveranno a essere vedove, indicherò tutto con una
breve esortazione: non essere inferiori alla vostra caratteristica natura sarà
per voi un gran vanto e la reputazione di quella la cui rinomanza in lode o
biasimo sia minima tra gli uomini. (Tucidide, Storie, II, 45, 2).
Concludo
questa parte della presentazione di Generazioni
lasciando del tutto la parola all’autore che cita e commenta Aristotele:
“L’amore dei genitori per i figli piccoli (soprattutto da parte delle madri) è
gratuito e intransitivo, non chiede cioè di essere ricambiato. Egli aveva,
infatti, riconosciuto che-a differenza dei componenti della “massa”, che per
ambizione preferiscono essere amati piuttosto che amare-le madri amano i propri
figli senza pretendere di essere riamate: “segno ne è il fatto che (…) provano
piacere nell’amare, infatti alcune danno i loro figli ad allevare e continuano
ad amarli, sapendo di loro, senza cercare di essere amate in contraccambio, se
entrambe le cose non sono possibili; ma sembra che a loro basti sapere che
stanno bene e li amano, anche se quelli, per ignoranza, non ricambiano affatto
con l’amore che si deve a una madre”[23]. Da
parte dei figli, la vera restituzione di questo amore e di questo aiuto a
entrambi i genitori avviene, appuntoi, al culmine della vita, attorno al
trentacinquesimo anno. Per quanto riguarda i reciproci doveri tra le
generazioni, anche a prescindere dalla scadenza del trentacinquesimo anno,
questo modello aristotelico di restituzione è durato in Europa per quasi due
millenni,[24]” (Generazioni, pp. 40-41).
giovanni
ghiselli
Il blog
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[1] A p. 52 Bodei cita il passo dell’Iliade (VI, vv. 146-149) con l’archetipo di questa similitudine.
[2] Inferno, I,
114.
[3] Aristotele, Retorica,
1390b.
[4] Inferno IV,
131.
[5] Aristotele, Retorica,
1390b.
[6] A. Groppi , Il
welfare prima del welfare. Assistenza alla vecchiaia e solidarietà tra le
generazioni a Roma in età moderna. Viella, Roma, 2010, pp. 71, 72, 73.
[7] F. Dostoevskij, I
fratelli Karamazov, IV, 2, il padre, p.235
[8] I. Gončarov, Oblomov, p. 240.
[9]I. Gončarov, Oblomov, p. 252.
[10] I. Gončarov, Oblomov, p. 299.
[11] I. Gončarov, Oblomov, p. 470.
[12] “Egli traversava la vita cauto, lasciando da parte
tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si
ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già
l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e
della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa
per esperienza” (Svevo, Senilità, I,
p. 9 Dall’Oglio, Milano, 19273
[13] Italo Svevo, Senilità,
I, p. 19.
[14] “Ed io ho le ali??-chiese abbozzando un sorriso.-Per
fare dei voli poetici sì!-rispose Macario…( Svevo, Una Vita, cap. 8).
[15] Su quest’ultimo punto si veda M. V. Bramante, ‘Patres’, ‘filii’ e ‘filiae’ nelle Commedie
di Plauto. Note sul diritto nel teatro, in Diritto e teatro in Grecia e a Roma,
a cura di E. Cantarella e L. Gagliardi, Led, Milano 2007, pp. 95-116.
[16] G. Giannelli, Le
grandi correnti della storia antica, p. 96.
[17] Sallustio, Cat.,
31, 7
[18] Quelli tra gli uomini e gli dèi.
[19] Avvicino, forse arbitrariamente, quanto scrive Hegel
nella Fenomenologia dello spirito:
“il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il
servo invece “col suo lavoro non fa che trasformarla” Fenomenologia dello spirito (del 1807) . Capitolo 4 (A)
[20] Eppure il poeta ungherese József Attila definisce se
stesso il “mendicante della bellezza”
[21] Sofocle impiega il tovpo"
dell'opportunità del silenzio femminile quando Aiace, in procinto di
suicidarsi, ingiunge di tacere all'amante Tecmessa :"guvnai, gunaixi; kovsmon hJ
sigh; fevrei" Aiace (del
456), v. 293., donna, alle donne il silenzio porta ornamento. Uno zittimento
perentorio utilizzato qualche regime fa dall' eterno Andreotti alla deputata
radicale Adele Faccio nel parlamento della nostra Repubblica.
[22] In Genesi,
3, 16: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanza, con dolore partorirai
i figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”.
[23] Aristotele, Etica
Nicomachea; VIII, 9, 1159°, trad.di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999.
[24] O. Brunner, Das “ganze Haus” und die alteuropäische
“Oekonomik”, in Id., Neue Wege der
Verfassubgs-und Sozialgeschischte, Vanden-hoec & Ruprecht, Göttingen
1968, trad. it. La ‘casa come complesso’ e l’antica ‘economica’, in Per una
nuova storia costituzionale e sociale, vita e Pensiero, Milano, 1970.
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