Presentazione del libro di Remo Bodei
Generazioni
Età della vita, età
delle cose. Editori Laterza,
Roma-Bari 2014.
Prima parte: Le tre età della vita.
Quinto capitolo (pp.
22-25).
L’autore procede scrivendo sull’allungamento della vita
umana e sul risvolto negativo di questo fatto che viene menzionato in vari
contesti, non senza l’aggiunta dell’avverbio “fortunatamente”.
Il lato oscuro di tale aumento degli anni da vivere è
viverli male, viverli da malati, una probabilità tutt’altro che minima.
“Si calcola che il
30% dei vecchi di 85 anni siano affetti dal morbo di Alzheimer (in Italia ne
sono attualmente colpite circa mezzo milione di persone e, a livello mondiale,
si prevede che nel 2050 ne soffrirà un individuo su 85)” (p. 23).
Bodei procede ricordando le caratteristiche di questa
malattia.
Declinano inesorabilmente le facoltà superiori sviluppate
durante la vita precedente l’attacco del morbo: “la memoria, l’intelligenza e
la volontà (in sostanza tutto cospira per provocare il progressivo spegnersi
della coscienza vigile” (p. 23).
Una consolazione di
questo fatto spaventoso può essere il pensare che tale spegnimento sia stato
più o meno coscientemente voluto o per lo meno non ostacolato con tutte le forze
dello spirito le quali, se vengono coltivate con cura, sembrano crescere di
giorno in giorno.
Edipo si è tolto gli
occhi da solo per non vedere quello che ha fatto.
Mi vengono in mente alcuni versi della più nota tragedia di
Sofocle, quando il protagonista rivendica la dignità di essersi punito da solo: "Apollo, era Apollo o
amici/colui che portò a compimento queste cattive, cattive mie queste mie
sofferenze./Però di sua mano nessuno li[1]
colpì/tranne me infelice" (Edipo re,
vv. 1329-1333).
Nell'Eracle di Euripide, Teseo
dice che chiunque sia nobile tra gli uomini sopporta i colpi degli dèi e non li
evita: "o{sti" eujgenh;" brotw'n - fevrei ta: g j
ejk qew̃n ptwvmat j oujd j ajnaivnetai" (vv. 1227-1228).
Edipo ha addirittura anticipato
quei i colpi.
"Perché
infatti bisognava che vedessi io/ al quale, mentre avevo la vista, nulla era
piacevole vedere?" (Edipo re, vv.
134-1335).
Il figlio di Laio vuole dire che nella
punizione inflitta a se stesso non c'è nulla di illogico: egli ha interrotto
una visione che era fonte di amarezza e dolore.
Analoga è,
nel Re Lear di Shakespeare, la
riflessione di Gloster che pure non si è acciecato da solo: “I have no way, and therefore want no eyes; I
stumbled when I saw”[2].
Nella
novella di Pirandello Va bene, il protagonista è un uomo cui "i
diuturni dolori avevano quasi vestito la mente d'una scorza di stupidità".
Costui, dopo avere buttato dalla finestra la moglie infedele, fa una richiesta
al figlio malato:"figlio mio, questi occhiali…strappameli dal naso, bello
mio…Così…Bravo! Ora non ti vedo più!".
Ma torniamo
all’Alzheimer che provoca il tramonto delle varie funzioni della memoria.
“In
sostanza, nello stadio più grave, chi è colpito dall’Alzheimer non sa più chi
è, non connette, è disorientato. La sua identità personale (termine coniato dal
filosofo John Locke nella seconda edizione del Saggio sull’intelletto umano del 1694) è, infatti, possibile solo
se non viene reciso il filo della memoria delle cose passate e non si spegne il
concern, la preoccupazione per le
cose future[3].
Il depotenziamento della memoria, azzardavo,
o perfino la sua abolizione del resto può essere un fatto non involontario o
addirittura volontario. Penso anche all’ultimo film di Faenza, Anita B. che mostra la Bildung
di una ragazzina quindicenne, la sua travagliata formazione di donna e di
persona.
Sentiamo qualche a parola del regista: “Anita
è una ragazza tenera e sensibile. E’ appena adolescente quando esce da
Auschwitz e ha conservato la voglia di lottare, nonostante l’esperienza dei
campi…E non vuole limitarsi a sopravvivere. Nella lotta per affermare la
propria identità c’è la ricerca dell’amore, in cui darà tutta se stessa,
affrontandone costi e rischi…Per molti però vivere significa oblio: senza
rendersi conto di seppellire se stessi insieme alla memoria".
Del
resto, ricorda Bodei, la guerra contro l’Alzheimer non ha fatto grandi
progressi: “da quasi quarant’anni si usano principalmente i soliti, pochi
farmaci. E non si tratta, come nel caso delle malattie rare, di mancanza di
investimenti da parte delle grandi case farmaceutiche, le quali-come mostra per
gli anziani l’esempio del Viagra-avrebbero semmai tutto l’interesse a sviluppare
la ricerca” (p. 25).
Passo
al capitolo I, 6 (pp. 25-31) e concludo la presentazione della prima parte di Generazioni. Nel farlo esercito, tra
l’altro, la memoria e prevengo l’Alzheimer. Già Cicerone, come abbiamo già
ricordato, suggeriva questo tipo di ascesi.
Bodei
ci fa ricordare che Aristotele considerava caratteristica dei giovani la
speranza, una affermazione che “sembra oggi, specie in molti paesi o
continenti, una sorta di tragica ironia (basti pensare agli elevati tassi di
disoccupazione che colpiscono oggi le nazioni che si affacciano sul
Mediterraneo)”.
D’altra
parte “affermare che i vecchi, in società gerontocratiche come le nostre, siano
stati oggi tutti “umiliati dalla vita” (sempre secondo Aristotele[4])
sembra, per molti di loro, fuori luogo” (Generazioni,
p. 25).
In effetti
non tutti gli anziani stati stati umiliati dalla vita, divenendo per questo
meschini, come afferma lo Stagirita (kai;
mikrovyucoi dia; to; tetapeinw̃sqai
uJpo; toũ biou); anzi alcuni
hanno raccolto successi che li rendono orgogliosi e contenti di sé; altri sono
soddisfatti poiché si sono comunque realizzati diventando quello che erano o
che pensavano di essere.
Tuttavia
non si può negare che tutti noi mortali dal destino pur troppo breve e veloce a
un certo momento cominciamo ad avvertire “un’emorragia della vita” (p. 25).
Quindi facciamo come Prospero che alla fine della Tempesta dice che vuole ritirarsi nella sua Milano, e lì “every third thought shall be my grave”
(5, 1), un pensiero su tre sarà la mia tomba.
Il
pensiero della morte può trovare un conforto nella speranza di morire
circondato da persone che ci vogliono bene, mentre “la prospettiva di
sperimentare la “solitudine del morente” - lo spegnersi in una clinica o in un
ospizio, non più circondati dai familiari, dagli amici o dalla comunità di
vicinato - rende ora la vecchiaia tendenzialmente ancora più drammatica[5]. Per
questo, la sua serena o rassegnata accettazione è diventata più rara che nel
passato e a pochi è dato di accogliere serenamente l’inevitabile e, come diceva
di se stesso Marco Aurelio, di prepararsi a morire cadendo a terra come un’“oliva
matura” che benedice riconoscente “l’albero che l’ha prodotta”[6] (Generazioni, p. 26).
Si tratta di prendere coscienza di quanto sia
effimera e di poco conto la vita umana e di morire, come di vivere, kata; fuvsin, in armonia con la natura.
Viene
in mente la breve poesia Imitazione
che Leopardi ha tradotto da La feuille di Antoine-Vincent Arnault
(1766-1834)
“Lungi
dal proprio ramo,
povera
foglia frale.
Dove
vai tu?” – “Dal faggio
Là
dov’io nacqui, mi divise il vento.
Esso,
tornando, a volo
Dal
bosco alla campagna,
dalla
valle mi porta alla montagna.
Seco
perpetuamente
Vo
pellegrina, e tutto l’altro ignoro.
Vo
dove ogni altra cosa,
dove
naturalmente
va la
foglia di rosa,
e la
foglia d’alloro”.
Già
Omero[7], poi
Mimnermo[8], poi
anche altri ci hanno fatto ricordare che noi uomini siamo come le foglie, e
saperlo ci fa prevedere la nostra caduta scontandola già mentre viviamo.
“Mentre
gli ultimi granelli di vita scorrono nella clessidra degli anni, la sensazione
prevalente di essere morituri forse senza alcun risarcimento in un’altra vita,
attanaglia gli animi, anche se oggi, più che la morte, il timore prevalente è
quello di abbandonare il mondo fra i tormenti di mali incurabili o nelle nebbie
del marasma mentale. Nell’immaginazione di molti la morte tende quindi a
perdere la sua sinistra solennità e, con essa, la speranza che rappresenti
soltanto una soglia verso una specie di cambio di domicilio, e non invece un
irreversibile salto verso il nulla.
La
fede aiuta oggi molto meno di prima a dare una convinta risposta
all’alternativa se la morte rappresenti, in termini senechiani, finis an transitus?” (p. 27).
Seneca
nella chiusa dell’Epistola 65 non
risolve il dilemma, e afferma di non temere la morte qualunque cosa essa sia: “Mors quid est? Aut finis aut
transitus. Nec desinere timeo (idem est enim quod non coepisse), nec transire,
quia nusquam tam anguste ero. Vale”, la morte che cosa è? O la fine o un
passaggio. Io non temo di smettere di vivere (poiché è la stessa cosa che non
avere cominciato), né di passare altrove, poiché in nessun altro luogo starò
tanto stretto.
Bodei
nota che nell’età provetta cresce “la consapevolezza di essere “dilettanti
della vita”, perché ci si rende conto che le cose più importanti non si
imparano, che non vi è alcun metodo sicuro per apprenderle, e che non si
possono, a loro volta, insegnare ad altri” (p. 27).
Questa
sensazione di essere dilettanti la proviamo anche nei campi della nostra specializzazione:
dopo decenni di studio di una disciplina o di lavoro in un mestiere, ci
rendiamo conto che le nostre competenze sono limitate, che abbiamo ancora quasi
tutto da imparare, che siamo solo ai rudimenti e agli inizi, sebbene la fine
non sia lontana.
“Con
la crescita dell’età media, il numero degli anziani, specie nelle nostre
società occidentali, è notoriamente in continuo aumento (…) Del resto, un
considerevole allungamento della durata della vita non è attualmente
impossibile (…) Attraverso il progetto SENS, Strategies for Engineered Negligible Senescence, il genetista e
bioingegnerie britannico Aubrey de Grey ritiene di poter prolungare
enormemente, in tempi relativamente brevi, la durata media della vita umana.
Nell’arco di decennio o entro questo secolo potremmo, secondo lui,
progressivamente giungere a vivere
duecento e più anni e, in una prospettiva di lunga durata, addirittura mille. A
partire dallo slogan “L’età è curabile”, nel dipartimento di genetica
dell’università di Cambridge, de Grey ha ideato, ipotizzato o elaborato una
panoplia di procedure per sconfiggere la vecchiaia, grazie alla riparazione del
degrado delle cellule” (p. 30).
Il
termine panoplia, “armatura completa”, fa pensare alla guerra che tanti di noi
combattono contro la vecchiaia e la morte, una lotta nella quale impieghiamo
tante delle nostre forze pur sapendo di essere destinati a perderla, dal
momento che siamo mortsali wjkuvmoroi[9].
Sull’allungamento
della vita Bodei propone più di un dubbio: “Se eventualmente questi programmi
di ricerca si realizzassero (sono stati, peraltro, spesso criticati dalla
comunità scientifica), non saremmo allora probabilmente presi dal taedium immortalitatis? (...) Vi sono
peraltro cellule immortali che non si vorrebbero avere: quelle del cancro, le
quali si riproducono all’infinito proprio perché prive di telomeri (anche se
pare che la telomerasi possa essere attivata, in un futuro non lontano, nel
caso di alcuni tumori). Tramonta la ‘natura umana’ così come l’abbiamo finora
conosciuta e, grazie alle biotecnologie, si altererà forse, in un imprevedibile
futuro, anche l’attuale scansione delle età della vita” (p. 31).
Interessante
e vitalizzante è comunque invecchiare imparando sempre tante cose. Io lo faccio
leggendo i classici: da Omero a Remo Bodei.
Giovanni
Ghiselli
[1] Gli occhi, ovviamente. Edipo ricorda il proprio acciecarsi da solo:
"l'acciecamento con cui Edipo si
punisce dopo aver scoperto il proprio crimine è, a quel che testimoniano
i sogni, un sostituto simbolico
dell'evirazione." Freud, Compendio
di psicoanalisi, in Freud Opere,
volume 11, p. 617, n. 1
[2] IV, 1. Io non ho strada e quindi non ho bisogno di
occhi; ho inciampato quando ci vedevo.
[3] Per un chiarimento di questo tema lockiano, cfr. R.
Bodei, Destini personali. L’età della
colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 37-42.
[4] Aristotele, Retorica, 1390 a)
[5]Cfr N. Elias, Über die Einsamkeit der Sterbenden in
unseren Tagen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1982, trad. It. La solitudine del morente, il Mulino,
Bologna 1985.
[6] Marco Aurelio, A
se stesso (Ricordi), IV, 48.
[7] Nell'Iliade
(VI, vv. 145-149) Glauco chiede a Diomede:
"Tidide magnanimo,
perché mi domandi la stirpe?
quale è la stirpe delle
foglie, tale è anche quella degli uomini.
(oi{h per fuvllwn genehv, toivh de; kai; ajndrw'n, v. 146)
Le foglie alcune ne sparge il
vento a terra, altre la selva
fiorente genera quando arriva
il tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini:
una nasce, un'altra finisce".
[8] "Noi, Come le foglie[8] (hjmei'~ dj oi|av te fuvlla) che genera la fiorita stagione di primavera, quando crescono
in fretta ai raggi del sole simili a quelle, per il tempo di un cubito, godiamo
dei fiori di giovinezza, senza
conoscere dagli dèi né il male né il bene. Destini neri ci
stanno accanto uno che ha il termine della
vecchiaia tremenda, l'altro di morte: un attimo
dura il frutto di giovinezza, per quanto
sulla terra si diffonde un raggio di sole. (fr. 2 D.)
[9] Dal destino veloce, di breve vita. E’ previsto per proci da Menelao in Odissea IV, 346.
Ho assistito alla conferenza di Bodei giovedì a Misano e sono entusiasta, durante le vacanze forse riuscirò a leggere anche questo libro che ,lei , professore , caldeggia.Giovanna
RispondiElimina