The Manuscript Tradition of Ovid's Amores |
Platone nella Repubblica (474 e) scrive per l’amatore
professionista il simovς (camuso) è ejpivcariς (carino), to; grupovn, l’incurvatura del naso è basilikovn, regale, e chiama ajndrikouvς, virili, i bruni mevlanaς, i bianchi figli degli dèi.
L’amante vezzeggiatore (ejrasth;ς ujpokorizovmenoς) tira fuori tutti i
pretesti per non rifiutare nessuno di quelli che sono nel fiore dell’età (w[ste mhdevna ajpobavllein tw̃n ajnqouvntwn ejn w[ra/). Il termine melivclwroς è povihma di un amante vezzeggiatore.
Ancora un paio di versi poi vediamo quali parole ci
appulcrano Orazio e Ovidio.
"At tumida et
mammosa Ceres est ipsa ab Iaccho,/simula Silena ac Saturast, labeosa philema
" (vv. 1168-1169), ma la turgida e pocciona è Cerere stessa sgravata da
Iacco, la camusa una Silena o una Satira, la labbrona un bel bacio.
-tumida: questa,
che è gonfia (tumet) e con tette
enormi viene interpretata come un'incarnazione della magna mater dopo che ha partorito Iacco "divinità associata ai
culti eleusini di Demetra; è probabile che Lucrezio identifichi Iacco con Liber (divinità italica corrispondente
al greco Dioniso), nato da Cerere (Cicerone, De natura deorum II, 24, 62). "Ab Iaccho è espressione molto densa con ab causale ("a causa di Iacco", appena partorito) o
temporale ("subito dopo" aver partorito)"[1].
-simula:
diminutivo di sima ricavato dal greco
simov", camuso.
-Silena: ai
sileni rappresentati con zampogna o flauto viene assimilato Socrate, che
infatti aveva il naso camuso, dal bell'Alcibiade il quale era affascinato dal
maestro nonostante la bruttezza, nel Simposio
platonico (215). Simula Silena costituiscono
" una iunctura non solo
allitterante ma anche omeoptotica, isosillabica e parafonica"[2].
-labeosa: formato
da labea, labbro, + il suffisso
-osus che,
presente pure in mammosa, significa
grandezza.
-philema:
traslitterazione di fivlhma, bacio.
Dicevamo che pure Orazio e Ovidio si sono espressi in questo
tovpo" il quale effettivamente
può trovare risonanze in tutti gli uomini di tutti i tempi.
Il Venosino nella Satira
I 3 afferma che le brutture e i difetti dell'amante ingannano l'innamorato
cieco e addirittura proprio quelle imperfezioni gli piacciono (vv. 38-40). Si
deve porre mente a questo per imparare un poco di indulgenza verso le
manchevolezze del prossimo. Il locus è utilizzato come exemplum di tolleranza. La conclusione
della satira è che se compatiremo, verremo compatiti. Si vede come un argomento
può essere impiegato per dare insegnamenti opposti.
Lo stesso poeta può usare il medesimo tovpo" in libri diversi per sostenere
una tesi e quella contraria.
Vediamo i particolari
Orazio Satira I, 3
I turpia vitia amicae decipiunt il caecum amatorem (vv. 37-38), aut
etiam ipsa haec delectant
(39-40). Questa cecità del resto può essere una onesta indulgenza nell’amicizia
o nei confronti di un figlio.
Strabonem appellat paetum pater (45-46), il padre chiama il figlio
strabico, sbircino (cfr. Ovidio: si paeta
est, Veneris similis (ars, 2,
659), se è leggermente strabica è molto simile a Venere.
Si male parvus, ut abortivus fuit olim Sisyphus (45-46) lo chiama pullum (45), pulcino; se è varus distortis cruribus, se ha le gambe
storte ed è male fultus pravis talis, mal piantato su talloni informi, gli balbetta
anatroccolo scaurum.
Parcius hic vivit: frugi dicatur (49)
L’ineptus et iactatior, l’importuno e troppo invadente venga chiamato
concinnus amicis, ben disposto verso
gli amici.
Quello truculentior, brutale e plus
aequo liber, simplex fortisque habeatur (51-52) e sfrenato, lo si consideri
semplice e coraggioso
Caldior est: acris inter numeretur (53), se è scatenato lo si conti
tra I vigorosi.
Haec res et iungit iunctos et servat amicos (54), stringe le
amicizie e le conserva.
Noi facciamo il contrario ma è una
legge che stabiliamo contro noi stessi.
At nos virtutes ipsas invertimus, rovesciamo le virtù
Se con noi vive probus quis multum demissus homo, uno
onesto, molto modesto, lo qualifichiamo come ottuso, grossolano “tardo cognomen, pingui, damus (56-58)
Chiamiamo fictum astutumque (62), finto e astuto, quello che fugit omnis insidias, nullique malo latus
obdit apertum (58-59) non espone
Se uno è simplicior, schietto (63) come vorrei essere io con te, Mecenate,
noi diciamo “communi sensu plane caret”
(66) non ha perniente il buon senso. Ma noi decretiamo avventatamente leggi
inique contro noi stessi: “quam temere in
nosmet legem sancimus iniquam!” (67)
Nam vitiis nemo sine nascitur: optimus ille est qui minimis urgetur
(68-69)
L’amico dolce deve contrappesare i
miei difetti con i miei pregi amicus
dulcis ut aequum est-cum mea compenset vitiis bona (69-70) e se prevalgono
i beni la bilancia si inclinerà verso questi. Aequum est peccatis veniam poscentem reddere rursus (74-75) è
giusto che chi chiede venia la renda a sua volta.
Ovidio
Così fa Ovidio che nei Remedia
amoris apre gli occhi sui difetti delle donne suggerendo perfino di
accentuarli con il pensiero, mentre nell'Ars
amatoria consiglia di guardarsi bene dal rinfacciare alle ragazze le loro
imperfezioni (parcite praecipue vitia
exprobrare puellis, II, 640): a molti fu utile avere fatto finta di non
vedere. Questo vale per non disgustare le donne le quali anzi vanno adulate.
Del resto chiunque chieda qualche cosa deve essere un adulatore, come dice il
cuoco Sicone nel Duvskolo" di Menandro,
preparandosi a chiedere un lebete al vecchio scorbutico " dei' ga;r ei\nai kolakiko;n-to;n deovmenon tou"
(vv. 492-493), deve infatti essere un adulatore chi ha bisogno di qualche cosa.
Con l'adulazione si
può sedurre persino una vestale.
L'adulazione funziona sempre quando si vuole compiacere una
donna. Sentiamo Svidrigàilov il "vecchio libertino incancrenito" di Delitto e castigo che ha "una
specie di scintilla sempre accesa nel sangue": "...finalmente feci
ricorso al mezzo supremo e infallibile per soggiogare il cuore femminile, il
mezzo che non fallisce mai e che agisce decisamente su tutte le donne, senza
eccezione. Niente al mondo è più difficile della sincerità e più facile
dell'adulazione... per quanto infantilmente grossolana possa essere l'adulazione,
almeno per metà essa sembra senz'altro vera. E questo vale per gente di ogni
livello e di ogni ceto sociale. Con l'adulazione si può sedurre perfino una
vestale"[3].
Non è difficile essere creduti quando si adula, suggerisce Ovidio
nel primo libro dell'Ars amatoria: "Nec credi labor est: sibi quaeque videtur
amanda/pessima sit, nulli non sua forma placet" (vv.
611-612) e non è difficile essere creduto: a ognuna sembra di essere degna di
amore, sia pure pessima, a nessuna dispiace il suo aspetto.
Sentiamo il seduttore di Madame Bovary: "Finalmente lo
hai davanti, il tesoro tanto cercato: risplende, scintilla. Eppure dubiti
ancora, non osi crederci: ne resti abbagliato come all'uscita dalle tenebre
alla luce" (p. 118).
Restiamo ancora un poco sull'argomento trattato da Ovidio
prima di tornare a Lucrezio.
Il poeta nel II libro dell'Ars amatoria afferma che chiudere un occhio sui difetti
dell'amante è utile non solo alla conquista ma anche al mantenimento del
rapporto il quale riceve lunga vita dalla transigenza fondata a sua volta
sull'abitudine:"Quod male fers,
adsuesce: feres bene: multa vetustas/leniet; incipiens omnia sentit amor "
(vv.647-648), a quello che sopporti male, abituati: sopporterai bene: la lunga
durata allevierà molte cose difficili; l'amore all'inizio fa caso a tutto.
Lo stesso passare del
tempo toglie tutte le pecche del corpo, e quello che era un difetto smette di
esserlo con la dilazione. Sapere aspettare serve, ma anche l'uso intelligente
delle parole è funzionale a questo scopo.
Ovidio dunque nell' Ars amatoria presenta
come astuzia da usare quello che Lucrezio considera un errore da evitare: "Nominibus mollire licet
mala:"Fusca" vocetur,/nigrior Illyrica cui pice sanguis erit;/si
paeta est, "Veneri similis"; si rava, "Minervae";/sit
"gracilis", macie quae male viva sua est;/dic "habilem",
quaecumque brevis, quae turgida, "plenam";/et lateat vitium
proximitate boni " (II, vv. 657-662), i difetti si possono attenuare
con le parole: "scura" si chiami quella che avrà vene più nere della
pece illirica; se è un pò strabica, "simile a Venere"; se è glauca,
"a Minerva"; sia "gracile" quella che, del tutto esaurita,
è viva per poco, chiama "maneggevole" chiunque sia corta; quella
gonfia, "piena", e si nasconda il difetto con il pregio più vicino.
CONTINUA
Giovanna Tocco
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