lunedì 8 luglio 2013

Classico e moderno


Martedì 9 luglio 2013
ore 19.00 Gian Luca Morozzi e Giovanni Ghiselli: attualità e Classicità a confronto
ore 21.00. Concerto del cantautore Federico Aicardi
Comitato Piazza Verdi
3395470775

Testo della conferenza di Giovanni Ghiselli

Prefazione.
Perché studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono:" a niente; non sono servi di nessuno; per questo sono belli".

Il latino e il greco (con la matematica) “Erano - e l’insegnante lo faceva notare spesso - del tutto inutili apparentemente ai fini degli studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali, perché sviluppano la facoltà di ragionare e costituiscono la base di ogni pensiero chiaro, sobrio ed efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota (del 1906), p.24.

“Non sevono a niente” dunque non è la nostra risposta. Se è vero che le culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico  potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico.  Il greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di chi non li conosce[1]. Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
Parlare male non  solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo afferma Socrate nel Fedone: "euj ga;r i[sqia[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[2], ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo ha ricordato Ivano Dionigi nel convegno di Torino-Ivrea dell'ottobre 2003. Poi ha aggiunto: “tanto più è necessario ripristinare la potenza della parola oggi, in presenza di questa vera e propria entropia linguistica”. 

Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[3].
Viene in mente un accostamento, seppure un poco paradossale, con Isocrate, lo strapagato principe della retorica nell'Atene del IV secolo e l'educatore dei prìncipi: egli afferma che nelle altre facoltà che abbiamo non ci differenziamo per niente dagli animali, anzi ci troviamo ad essere inferiori a molti per la velocità, e la forza e per altre risorse. Quindi arriva alla celebrazione quasi religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe umanità né civiltà: "ejggenomevnou dj hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~ kai; dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou' qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen, kai;  scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin oJ sugkataskeuavsa"" (Nicocle[4], 6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e inventato arti, e quasi tutto quanto è stato costruito da noi è stata la parola a organizzarlo.
La parola dunque è creatrice e civilizzatrice.
Riprendiamo in mano Isocrate per sottolineare il valore anche etico del lovgo"  inteso come parola e come pensiero: "to; ga;r levgein wJ" dei' tou' fronei'n  eu\ mevgiston shmei'on poiouvmeqa, kai; lovgo" ajlhqh;" kai; novmimo" kai; divkaio" yuch'" ajgaqh'" kai; pisth'" ei[dwlovn ejstin" (Nicocle, 7) il parlare come si deve lo consideriamo segno massimo del saper pensare, e un discorso veritiero, legittimo e giusto è l'immagine di un'anima buona e leale.
Queste parole celebrative del logos, tornano, come espressioni liturgiche, nell’Antidosis (255). Entrambe le orazioni giungono a una conclusione che indica nella potenza della parola l’unico mezzo per trasformare il pensiero in prassi: “eij de; dei' sullhvbdhn peri; th'~ dunavmew~ tauvth~ eijpei'n, oujde;n tw'n fronivmw~ prattomevnwn eurhvsomen ajlovgw~ gignovmenon, alla; kai; tw'n e[rgwn kai; tw'n dianohmavtwn aJpavntwn hJgemovna lovgon o[nta, kai; mavlista crwmevnou~ aujtw'/ tou;~ plei'ston nou'n e[conta~”, se si deve tirare le somme su questa potenza, troveremo che nulla di quanto è fatto con intelligenza viene fatto senza la parola, ma che anzi la parola è guida delle azioni e dei pensieri tutti, e che si avvalgono soprattutto di essa quelli che hanno la più grande capacità di pensiero[5]

"Sicché il Logos, nel suo doppio significato di parola e di pensiero, diventa per Isocrate il "symbolon", il contrassegno della paideusis"[6]. Non solo dell’educazione ma anche della duvnami~ dell’uomo.
Ebbene, la conoscenza del greco e del latino potenzia la parola.
Il prologo del Vangelo di Giovanni  estende questa considerazione a  termini cosmici "  jEn ajrch'/  h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou' ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn. In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era la Parola e la Parola era con  Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu fatto.

Il sicuro possesso  della parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico a  quello erotico: "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes / et tamen aequoreas torsit amore deas"[7]. Bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore.
La citazione  è preceduta da queste parole:
“Una bellezza maschile, un aspetto lusinghevole eccetera, sono ottimi mezzi. Con essi si può anche giungere a varie conquiste, ma non mai a una vittoria completa. Perché? Perché con essi si porta guerra a una fanciulla nel suo stesso campo, e nel proprio campo ella è sempre più forte. Con tali mezzi si può spingere una fanciulla ad arrossire, ad abbassare gli occhi, ma mai si arriva a ingenerarle quell’ansia soffocante e indescrivibile che rende interessante la bellezza”[8].
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia: "Iam molire animum qui duret, et adstrue formae: / solus ad extremos permanet ille rogos./Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes / cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars amatoria , II, vv. 119-122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue. Il latino e il greco ovviamente.
Senza con questo disprezzare altre lingue.
Nei versi seguenti il poeta di Sulmona racconta che Calipso chiese a Ulisse in procinto di partire di farle conoscere il destino crudele di Reso, re di Tracia.
Egli allora disegnò sulla sabbia  parte della vicenda crudele narrata nel X libro dell’Iliade. Non aveva finito di  segnare la rena con una verga, “subitus cum Pergama fluctus-abstulit et Rhesi cum duce castra suo” (vv. 139-140), quand’ecco che un’ondata improvvisa cancellò Pergamo e l’accampamento di Reso con il suo comandante.
Quindi Calipso fece notare all’amante che non era il caso di fidarsi delle onde, tanto rapide a cancellare ogni cosa.
Infine il commento di Ovidio: “Ergo age, fallaci timide confide figurae, / quisquis es, atque aliquid corporis pluris habe” (vv. 143-144), su dunque, fidati con precauzione dell’aspetto esteriore, chiunque tu sia, e considera qualche cosa più di valore della figura corporea. Questo aliquid corporis pluris è la parola.
“Si capisce che il portatore dei valori ovidiani è Ulisse, l’eroe che alla bruta forza, al coraggio cieco contrappone le doti e le arti sottili della mente, la prudenza, la seducente eloquenza; un pezzo dell’Ars amatoria (II 107-44), una scena di singolare grazia in cui Ulisse, un momento prima di imbarcarsi, conversa con Calipso, ci dà la prova sicura della predilezione di Ovidio e ci fa capire il senso di questa predilezione”[9].
Odisseo sa parlare con semplicità e bellezza. Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice a Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte, come quello di un aedo (vv. 367-368). 
“Egli è indubitato: la nuda cognizione di molte lingue accresce anche per se sola il numero delle idee, e ne feconda poi la mente”[10].

Ebbene, non si può essere veramente bravi a usare la parola, utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della classe. Noi vorremmo che le conoscessero tutti attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità. 
Le invenzioni, le rivoluzioni puramente verbali, lasciano il tempo che trovano. Si pensi al movimento letterario della neoavanguardia dei primi anni Sessanta. Presentava e propugnava “lo sperimentalismo assoluto, letterario fino all’illeggibilità e all’inservibilità”[11].

La funzione degli auctores greci e latini sta nell'avere la forza polemica nei confronti dell'ora, e tale duvnami" devono trasmettere alla scuola affinché questa non sia una fabbrica impiegatizia[12] e i giovani che la frequentano non siano dei vasi riempito dalle mode del momento, ma sappiano reagire criticamente a queste.
Infatti se lo studio è soltanto una rincorsa del nunc, allora davvero il classico è il supervacuum, ha ricordato Massimo Cacciari in un’intervista. Chi non conosce i classici, rischia di diventare un servo delle mode, un luogo comune vivente, o peggio, un vaso da notte della  pubblicità. L'interpretazione del classico d’altra parte è problematica e doppia: "Nel nostro tempo è possibile scegliere tra due opposti usi del "classico": quello che lo iconizza come un immobile sistema di valori, e quello che vi cerca la varietà e la complessità dell'esperienza storica. Il primo dei due usi del "classico" (il più frequente) può accettare agevolmente, anzi incoraggiare, il continuo regresso degli studi classici nei percorsi formativi, perché si accontenta di poco (le icone si riveriscono, non si esplorano); il secondo richiede invece di interrogarsi a fondo sul possibile significato e futuro del "classico" nella scuola, nell'università, nella cultura condivisa dai cittadini"[13].
Sentiamo anche un intervento giornalistico dello studioso:
“L’antica Roma ha riguadagnato una sua attualità attraverso lo specchio della storia contemporanea (film come Gladiator e L’ultima legione si spiegano così). Se possibile ancora più attuale è (o sembra) la cultura greca. Parliamo ogni giorno di democrazia, magari citando l’Atene di Pericle. Parliamo di politica, anche se di solito dimenticando che per tale dovrebbe intendersi il governo della polis, e non il piccolo cabotaggio dei partiti. Greche sono parole come “storia” e “filosofia”, greci il lessico della medicina e il giuramento di Ippocrate, greci molti concetti della critica d’arte e della letteratura. Le Olimpiadi si portano fino a Pechino nome e ritualità di matrice greca, greco di nome è il “complesso di Edipo”; e non si contano le arti, scienze e discipline, dalla matematica alla geografia, dall’astronomia alla musica, che in tutte le lingue europee portano un nome greco. Perciò Hegel poté dire che “al nome Grecia l’uomo colto europeo subito si sente in patria”; perciò per Stuart Mill[14] “la battaglia di Maratona, anche come evento della storia inglese è più importante della battaglia di Hastings[15]. Se in quel remoto giorno i Greci non avessero vinto, Britanni e Sassoni forse vagherebbero ancora per le selve”. Eppure questo senso di familiarità, di attualità dell’antico rischia di essere doppiamente ingannevole. Da un lato, esso si accompagna a un arretramento costante della cultura e dell’educazione classica nelle scuole…Dall’altro, il richiamo alla cultura greco-romana come radice dell’Occidente troppo spesso sfuma in un più o meno nascosto senso di superiorità della nostra cultura rispetto alle altre… Pezzi staccati di un riconoscibile DNA greco e romano ci stanno nel sangue, negli occhi, nelle parole, nei concetti e nelle visioni del mondo. Eppure non ci bastano, e se non allarghiamo lo sguardo ci frenano e ci infastidiscono… Forse è per questo che in impressionante escalation persino intellettuali e saggisti rinunciano sempre più spesso a leggere le letterature classiche, non entrano nei musei archeologici, confondono Cesare con Alessandro. Intanto, si continua nonostante tutto a cercare in quei testi e in quelle storie una vaga e desultoria ispirazione, che prende spesso la forma del più arbitrario florilegio, delle citazioni fatte a caso, e tuttavia con valore legittimante: come un capitello, un fregio o una colonna si incastrano inconsapevoli, inerti nelle architetture post-moderne. Eppure, una vera e vibrante curiosità verso i Greci e i Romani può generare un’altra tensione, imporre altri orizzonti. Insoddisfatti dell’opposizione fra Greci e “barbari” (ma consapevoli che il greco barbaros non implica giudizi di valore[16], non equivale a “selvaggio”; indica chi parla una lingua diversa dal greco), che in passato ispirò imperialismi e colonialismi d’Europa, possiamo ormai ricordarci che i Greci non pensarono mai di fondare l’Occidente, ma al contrario esplorarono con viva ansia di scoperta l’Oriente e l’Egitto, cercandovi miti, e merci, e saggezza. Li troviamo sulle coste del Mar Nero o della Spagna, in Sicilia o in India, a costruire un’infinita varietà di culture locali, sempre curiosi di vedere e di conoscere, con quello spirito che un sacerdote egizio, parlando con Solone, riconobbe come una loro caratteristica: “Un Greco vecchio non esiste, voi Greci siete sempre fanciulli”. Lo racconta Platone nel Timeo[17].
Platone nel Timeo racconta che quando Solone era in Egitto, un sacerdote molto vecchio gli disse: “Solone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un Greco vecchio non esiste; voi siete giovani d’anima perché in essa non avete riposto nessuna vecchia opinione (’W SÒlwn, SÒlwn, “Ellhnej ¢eˆ pa‹dšj ™ste, gšrwn d “Ellhn oÙk œstin, Timeo 22b4).
Essi non hanno ricordo delle vicende più antiche a causa dei diluvi che periodicamente ne sconvolgono la civiltà. Il diluvio celeste lascia sopravvivere solo gli ignari di lettere e di Muse, sicché si perde il ricordo dei tempi antichi.
Gli Ateniesi novemila anni prima avevano le stesse leggi degli Egiziani e si opposero all’imperialismo di Atlantide ma poi ci fu una catastrofe per la quale i guerrieri di Atene sprofondarono dentro la terra e Atlantide fu assorbita dal mare (Timeo, 25d).
Nel Crizia sono descritte Atlantide e Atene come città rette da dèi: la prima da Posidone, Atene da Atena ed Efesto. In Atlantide però si estinse l’elemento divino ed essa diventò gonfia di ingiustizia e di prepotenza (121b). Allora Giove, compresa la degenerazione della stirpe, decise di punirla.
Certamente il classico non è la grammatichina del ginnasio né l’analisi logica grossolana e goffa che lamentava il Pasquali. Questa si stende ancora, non diversamente dai tempi di Pascoli “come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia”[18].
Non voglio abolire la grammatica: si tratta soltanto di posticiparne lo studio e porlo  come riflessione sulla lingua, e non come astratta e rigida normativa.
Non è il caso di infettarsi con quella coniunctivitis professoria che, diceva il Pasquali, infierisce tra i docenti italiani “più che il tracoma nei più sudici borghi arabi.”
Insomma va evitato l’umbraticus doctor. Petronio contrappone l'umbraticus doctor  deleterio ai grandi tragici: "Cum Sophocles aut Euripides invenerunt[19] verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat"[20] quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni. 

Il classico aiuta a comprendere l'altro tanto per via delle analogie quanto delle diversità rispetto al nostro mondo di oggi. "Evocare l'altro-da-sé che è dentro di noi (il "classico") può allora essere un passo essenziale per intendere le alterità che sono fuori di noi (le altre culture), se sapremo ripetere con piena consapevolezza le parole di Rimbaud "Je est un autre"… Quanto più sapremo guardare al "classico" non come una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito, ma come qualcosa di profondamente sorprendente ed estraneo, da riconquistare ogni giorno come un potente stimolo a intendere il "diverso", tanto più da dirci esso avrà nel futuro"[21].
La conoscenza rispettosa dell’altro, della sua diversità, è necessaria per comprendere se stesso, secondo il principium individuationis: "Nel voler superare la distanza degli opposti consiste la u{bri" di Serse, quando pretende di aggiogare le due cavalle o le due rive dell'Ellesponto, e cioè terra e mare. Ma perché la differenza sia 'salva', dovrà essere compreso che il differire è to; Xunovn- che proprio l'assolutamente distinto abbisogna sempre, per esser 'salvo' in quanto tale, dell'altro e della distanza dall'altro"[22].
T. S. Eliot nel saggio Che cos'è un classico?[23] attribuisce a Virgilio la posizione centrale "del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare"[24]. Ebbene, proprio per il fatto che questo grande classicista angloamericano può  essere un maestro per noi che ci occupiamo di lettere antiche, i suoi giudizi  non devono essere presentati come dogmatici e intoccabili, anzi, dato il loro peso vanno messi a confronto con critiche di altro colore.
Possiamo  commentare un elogio eliotiano di Virgilio con una critica nostra  nei confronti di un mal costume tipicamente italico, il favoritismo, il clientelismo, la raccomandazione clientelare[25], raccontato senza alcun biasimo dal  poeta stesso che ne ha fruito e riempie di sperticati elogi il proprio padrino, Ottaviano Augusto.
T. S. Eliot indica alcuni requisiti  necessari all’alto grado della classicità: maturità della mente assenza di provincialismo[26] , raffinatezza di costumi[27],  comprensività. Tutte qualità presenti in Virgilio. Vediamo dunque che cosa è secondo Eliot la comprensività: “Entro i propri limiti formali, il classico deve esprimere il massimo possibile dell’intera gamma di sentimenti che costituiscono il carattere nazionale dei parlanti la sua lingua. Egli rappresenterà tali sentimenti come meglio non si potrebbe…[28]”. Ebbene la prima Bucolica rappresenta al meglio il sentimento legato alla raccomandazione, una pratica tanto presente in Italia da essere emblematica del costume degli Italiani, un proprium et peculiare vitium[29] della nostra gente. Anche Cicerone nell'Orator[30] afferma che per la maturità è necessaria la conoscenza della storia: "Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi eă memoriā rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?"(120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la memoria storica?

Sentiamo che cosa è un classico secondo Nietzsche (Aesthetica): Per essere un CLASSICO, si deve:
Avere tutte le doti e i desideri forti, apparentemente contraddittori; ma in modo che si intreccino sotto un solo giogo;
venire al tempo giusto, per portare all’ultima perfezione un genus di letteratura o arte politica (non dopo che ciò è già avvenuto);
rispecchiare nelle più intime profondità della propria anima uno stato complessivo (si tratti di un popolo o di una cultura), in un tempo in cui esso sussista ancora e non sia mai oscurato dall’imitazione di ciò che è straniero… Essere uno spirito non reattivo, ma che concluda e guidi in avanti, uno spirito che dica in tutti i casi, anche col suo odio”[31]

Il classico come volontà di semplificazione.
“Il gusto classico: è la volontà di semplificazione, rafforzamento, di rendere visibile la felicità; la volontà di terribilità, il coraggio della nudità psicologica. La semplificazione è conseguenza della volontà di rafforzare; il rendere visibile la felicità, e parimenti la nudità, è conseguenza della volontà di terribilità”[32].
“Non c’è che un modo di salvare il “classico”: usandolo per la nostra salvezza senza alcun riguardo, cioè prescindendo dal suo classicismo, avvicinandolo a noi, “contemporaneizzandolo”, facendolo nuovamente palpitare, iniettandogli il sangue delle nostre vene, i cui ingredienti sono le nostre passioni… e i nostri problemi. Invece di diventare centenari nel centenario, cerchiamo la resurrezione del “classico” ri-sommergendolo nell’esistenza”[33].
Il gusto classico consiste nell’amore del bello con semplicità e della cultura senza mollezza. 

Tucidide, Storie, II, 40, 1: "Difatti amiamo il bello con semplicità e amiamo la sapienza senza mollezza; ci serviamo della ricchezza più quale occasione per agire che come vanteria di parole, e l’essere povero non è vergognoso ammetterlo per alcuno di noi, ma  è vergognoso piuttosto non evitarla con l’operosità. filokalou`men: è la fortissima componente estetica della cultura greca, soprattutto ateniese. Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione (tw/' pavqei mavqo"[34]), ma anche la bellezza, una sorta di

tw/' pavqei kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore… Quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[35]
Anche la nostra Costituzione valorizza la cultura: Art. 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. 

Tucidide indica la semplicità come il nutrimento di quell'anima nobile che venne negata dalle guerre civili: a causa di queste ("dia; ta;" stavsei""), fu sancito ogni genere di malizia nel mondo greco e sparì, derisa, la semplicità cui di solito la nobiltà partecipa: "kai; to; eu[hqe", ou| to; gennai'on plei'ston metevcei, katagelasqe;n hjfanivsqh" (III, 83, 1).
In questo contesto la semplicità è “bontà di carattere, bontà d’animo” (eu\ h\qo~). 
Pirra è simplex, ma "simplex munditiis"[36], semplice nell'eleganza. 
Simplex munditiis è un ossimoro, perché i due termini hanno associazioni di significato opposte, la semplicità e la ricercatezza (munditia)... Come ha detto bene Romano, "il concetto classico di semplicità nell'eleganza è scolpito in questo ossimoro che potrebbe essere assunto come motto del programma stilistico di Orazio"[37].
Anche Cicerone consiglia una semplicità elegante al suo gentiluomo quando pone le basi del galateo nel De Officiis [38]: "Quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae autem dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis. Adhibenda praeterea munditia est non odiosa nec exquisita nimis, tantum quae fugiat agrestem et inhumanam neglegentiam" (De Officiis, I, 130), viene lodata la naturalezza e la semplicità. Ora la dignità dell'aspetto deve essere conservata mediante il bel colore dell'incarnato, il colore con gli esercizi fisici. Inoltre deve essere impiegata un'eleganza non fastidiosa né troppo ricercata, basta che eviti la trascuratezza contadinesca e incivile.
La semplicità insomma non è rozza, sprovveduta e inopportuna ma voluta e conquistata. Marziale la chiama prudens simplicitas (X, 47, v. 7) semplicità accorta e la considera uno dei mezzi che abbelliscono la vita ("vitam quae faciant beatiorem", v. 1).

Non esiste solo il neoclassicismo dei primi anni dell’Ottocento: “Ernst Howald (Die Kultur der Antike, 1948) ha potuto indicare la rinascita del "classico" come "la forma ritmica" della storia culturale europea"[39].
Francesco De Sanctis mette il rilievo, non senza criticarlo, il classicismo di Vittorio Alfieri: “ Alfieri è l’uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo, la libertà, la dignità, l’inflessibilità, la morale, la coscienza del diritto, il sentimento del dovere, tutto questo mondo interiore, oscurato nella vita e nell’arte italiana, gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno, ma dallo studio dell’antico, congiunto col suo ferreo carattere personale…Risvegliare negl’italiani la “virtù prisca”, rendere i suoi carmi “sproni acuti” alle nuove generazioni, sì che ritornino degni di Roma, è il suo motivo lirico, che ha comune con Dante e Petrarca[40]. 
A proposito del classicismo che si ripropone periodicamente nella nostra Civiltà, possiamo aggiungere che la bellezza si coniuga non solo con la semplicità ma anche con l'antichità. Lo suggerisce Plutarco nella Vita di Pericle quando afferma che ognuna delle "opere di Pericle", ossia degli edifici fatti costruire sull'Acropoli, era,  kavllei, per la bellezza  già allora antica, ajrcai'on;  mentre per la loro rifioritura (ajkmh'/ ) appare ancora oggi recente e appena ultimata (13, 5). 

Il neoclassicismo di David si accompagna alla rivoluzione francese: “A quel tempo, il termine rivoluzione era perfettamente compatibile con l’idea del ritorno. (Qui occorre notare che in quegli anni l’Inghilterra conosce la sua “rivoluzione industriale”, e che questa provoca nella storia un cambiamento radicale, che esclude ogni ritorno. Si può forse affermare, senza rischio di sbagliare, che ii ritorno all’antico o a Michelangelo è una velleità regressiva, che tende a nascondere o a neutralizzare la novità angosciosa delle trasformazioni tecniche e economiche.)… La memoria del passato veniva allora a imporre la sua maestà, i suoi abiti, i suoi simboli, al cerimoniale dell’instaurazione politica. Mescolava così a tale instaurazione la pia solennità di una reazione estetica e morale. La Atene di Pericle, la Roma dei tempi virtuosi rinascevano nella Repubblica. Drappeggiata alla maniera antica, la celebrazione dell’ordine nuovo aveva anche un altro significato, di commemorazione, di fedeltà ai massimi modelli… Magicamente, il costume antico operava una identificazione eroica con i personaggi di Plutarco”[41]

Vanno segnalate, possibilmente citate a memoria, le frasi belle che sono la luce del pensiero. Queste  colpiscono la sfera emotiva e si prestano a essere ricordate. Citare non è saccheggiare: “Agli occhi dell’artista un pensiero in quanto tale non avrà mai un gran valore di proprietà. A lui importa che possa funzionare nell’ingranaggio spirituale dell’opera”[42].
“Esiste comunque un metodo sicuro, e soprattutto molto rapido, per rendere sfizioso qualsiasi classico: quello della citazione. La citazione infatti antologizza il classico fino alla carne viva, gli attribuisce una tale misura minimale che a questo punto la sfiziosità è comunque garantita. Questo spiega perché, negli ultimi tempi, le raccolte di citazioni si sono moltiplicate (mettendo inaspettatamente in buona compagnia la gloriosa Ape Latina di Fumagalli) : tanto che in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, le grandi librerie dispongono addirittura di un apposito settore in cui sono allineati i libri di citazioni di ogni possibile letteratura. Il fatto è che, nella citazione, il classico diventa talmente piccolo da poter entrare persino in una “battuta”.[43] 
Naturalmente le citazioni non devono costituire un coacervo, ma formare un amalgama.
Solo per traslato uno scrittore del II secolo d. C., Aulo Gellio, definisce "classicus scriptor, non proletarius" uno scrittore di prim'ordine, non della massa (Noctes Atticae 19. 8. 15; cfr. 6. 13. 1 e 16. 10. 2-15), o (forse meglio) "buono da essere letto dai classici (i contribuenti più ricchi), e non dal popolo"; classicus è ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo, "contribuente solido e frequente") e antiquior; l'anteriorità al presente è dunque requisito della "classicità"[44].
“La “classicità”, insomma, sarebbe propriamente un fatto di rango, o meglio di censo. Lo scrittore appartenente alla cohors degli antichi dispone di un “patrimonio” tale che rientra automaticamente nella classe più alta dei cittadini. E’ come se fosse un nobile di antica data, fornito di ampie possibilità patrimoniali. A questo punto, se qualcuno pensa che lo scrittore “classico” di Gellio è uno che vive sì di rendita, e che si comporta come un notabile della letteratura, però deve risultare almeno “assiduo” nella sua propria attività, si sbaglia. Anche assiduus è infatti un termine connesso al censo. Sempre Gellio ci spiega che “nelle Dodici Tavole “assiduo” si usa col significato di persona benestante e agiata”[45].  Siamo sempre lì, il classico è una sorta di uomo ricco e senza pensieri, che ha la “vita facile” (facile faciens): come del resto è naturale trattandosi di una persona che appartiene alla prima delle classi serviane”[46].
Harry Mount, autore di un libro di successo sul ritorno del latino[47], nota che sul retro del biglietto da un dollaro si trova scritto annuit coeptis che traduce “he has favoured our undertakings”, ha favorito le nostre imprese, quindi commenta “As is often the case, Latin is used to give a touch of class[48], come spesso succede il latino è usato per assegnare un tocco di classe.

Nel film di Chaplin The great dictator (1940) il ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels pronuncia una prefazione al discorso di Hynkel-Hitler che ha invaso l’Austria con queste parole latine: “Corona veniet delectis”, che poi traduce con “victory shall come to the worthy” ai meritevoli.
“Non si può infatti negare che lungo l’arco della nostra cultura i classici abbiano regolarmente svolto una funzione di tipo autoritativo. L’ha scritto Platone - si dice comunemente - l’ho letto in Omero - dunque si tratta di una testimonianza importante, viene da un uomo di primo rango”[49].
Alexis de Tocqueville mette in luce l’essere aristocratico il gusto e l’uso delle lettere classiche: “E’ evidente che nelle società democratiche l’interesse degli individui, così come la sicurezza dello stato, esigono che l’educazione della maggioranza sia scientifica, commerciale e industriale, piuttosto che letteraria. Il greco e il latino non devono essere insegnati in tutte le scuole, ma è necessario che coloro che, per naturale tendenza o per fortuna, sono portati a coltivare le lettere o predisposti a gustarle, trovino scuole in cui ci si possa rendere perfettamente padroni della letteratura antica ed essere penetrati interamente dal suo spirito. Poche università eccellenti varrebbero meglio, per raggiungere lo scopo, di una moltitudine di cattivi collegi o di studi superflui che si compiono malamente, impedendo di fare bene gli studi necessari. Tutti coloro che hanno l’ambizione di eccellere nelle lettere, nelle nazioni democratiche, devono spesso nutrirsi delle opere dell’antichità. E’ una regola salutare. Non credo che le produzioni letterarie degli antichi siano irreprensibili; penso solamente che esse hanno qualità speciali che possono meravigliosamente servire a controbilanciare i nostri difetti particolari. Esse ci sostengono dalla parte verso cui pendiamo”[50]. 
Del resto il latino è anche la lingua del pudore: ci permette di nominare il sesso orale come fellatio o cunnilingus.
Io auspico una  scuola classica di qualità altissima, e  accessibile a tutti quelli che ne sentono l'esigenza spirituale. 

Classico è anche umanesimo che è amore per l’umanità. 
“E che cos’era l’umanesimo? Era amore per l’umanità, nient’altro, e perciò era anche politica… Prometeo! Era stato lui il primo umanista, identico a quel Satana cui Carducci aveva dedicato il suo inno”[51]. Il “vecchio anticlericale bolognese”[52] celebra Satana per il suo essersi ribellato a un despota oscurantista: “Salute, O Satana / O ribellione, / O forza vindice / Della ragione!”[53]
Nell’Ecuba di Euripide la vecchia regina di Troia distrutta supplica Odisseo di non ammazzare la figlia Polissena con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita: "mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li"" (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti.
Anche l’assassina Clitennestra, alla fine dell’Agamennone ha orrore del sangue: a Egisto che vorrebbe uccidere ancora, o essere ucciso, dice: “mhdamw'~, w\ fivltat j ajndrw'n, / a[lla dravswmen kakav.- ajlla; kai; tavd j ejxamh'sai / polla; duvsthnon qevro~:-phmonh'~ d  j  a{li~ g j: u{parce-mhdevn: hJ/matwvmeqa” (vv. 1653-1658), no, per niente, carissimo tra gli uomini, non facciamo altri mali. Già questi sono molti da mietere, misera messe. Basta sciagure. Non cominciare nulla: siamo coperti di sangue. 

Nelle Troiane di Seneca 
Agamennone prende una posizione analoga contro lo spietato Pirro che esige il sacrificio di Polissena: "Quidquid eversae potest / superesse Troiae, maneat: exactum satis / poenarum et ultra est. Regia ut virgo occĭdat / tumuloque donum detur et cineres riget / et facinus atrox caedis ut thalamos vocent, / non patiar. In me culpa cunctorum redit: / qui non vetat peccare, cum possit, iubet" (vv.285-291), tutto ciò che può sopravvivere di Troia sconvolta, rimanga: è stato fatto pagare abbastanza in fatto di pene e anche troppo. Non sopporterò che la ragazza figlia della regina muoia, e la sua vita sia donata a una tomba, e  spruzzi di sangue  le ceneri, e  chiamino cerimonia nuziale il crimine atroce di un assassinio: la colpa di tutti i misfatti ricade su me: chi non impedisce un delitto, quando può, è come se lo avesse ordinato.
Se deve essere fatto un sacrificio in onore di Achille, continua il dux, "caedantur greges / fluatque nulli flebilis matri cruor" (vv. 296-297), si ammazzino animali del gregge e scorra il sangue che non faccia piangere nessuna madre umana.
L' Antigone di Sofocle che afferma il suo amore per l'umanità: "ou[toi sunevcqein ajlla; sumfilei'n e[fun", (v. 523), certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore. "Esiste un umanesimo greco, al quale dobbiamo opere come l'Antigone  di Sofocle, una delle più alte tragedie ispirate a quest'atteggiamento; in essa, Antigone rappresenta l'umanesimo e Creonte le leggi disumane che sono opera dell'uomo"[54].

Il didattichese parla di quattro saperi fumosi. A questi contrappongo altro sapere. Quello che  il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo  nell'Edipo a Colono : "e[xoid  j ajnh;r w[n[55]"(v.567), so di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile.
Il sapere di essere uomo che cosa comporta?
Significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo cieco, esule e mendico, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande, chiedendo di che cosa abbia bisogno: “kaiv s  j oijktivsa" / qevlw  jperevsqai[56], duvsmor j Oijdivpou, tivna / povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t  j e[cwn, / aujtov" te chj sh; duvsmoro" parastavti"", (vv. 556-559), e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui, tu e l’infelice che ti aiuta. Quindi significa ascoltare, mettersi nei panni del supplice e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte.
"Fammi sapere-continua l’umano re di Atene- infatti dovresti raccontarmi misfatti atroci perché mi sottraessi; poiché so che anche io sono stato allevato da straniero, come te, e in terra straniera ho affrontato più di ogni altro uomo lotte rischiose per la mia vita, sicché non rifuggirei dal salvare nessuno straniero, come ora sei tu, in quanto so di essere uomo (e[xoid  j ajnh;r w[n, v. 567) e so che del domani nessun attimo appartiene più a me che a te" (vv.560-568). Queste parole potrebbero essere utili alla rieducazione dei razzisti nostrani. 
E' una dichiarazione di quella filanqrwpiva che si diffonderà in età ellenistica e partorirà l'humanitas latina.
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e di Terenzio: "Homo sum: humani nil a me alienum puto"[57]; disponibilità ad ascoltarlo, leggiamo nel  più famoso verso.
Comprendere comporta un processo di identificazione, lo abbiamo detto anche riferendo l’umorismo di Pirandello e la terapia del rovesciamento di Bettini[58]. Ascoltare è parte essenziale di questo umanesimo, ascoltare e farsi ascoltare: "Se avrai davanti a te gente cattiva che non vorrà ascoltarti, prosternati davanti ad essa e chiedile perdono, poiché, in verità, anche tu sei colpevole se non vogliono ascoltarti. E se non puoi farti ascoltare dagli uomini ostili, taci e servili con umiltà, senza mai perdere la speranza"[59].
Anche Oblomov di Gonĉarov nega valore all'intelligenza che non comprende l'umanità: "Voi credete che il pensiero possa fare a meno del cuore. No, il pensiero è reso fecondo dall'amore. Tendete la mano all'uomo caduto per sollevarlo, o piangete lacrime amare su di lui, se egli è finito, ma non lo schernite. Amatelo, riconoscete voi stesso in lui e trattatelo nel modo in cui trattereste voi stessi"[60]. 

"Mi aspetto da un medico, nemmeno io so bene perché, un resto di quell’umanesimo per cui si richiede la conoscenza del latino e del greco oltre a una certa preparazione filosofica, e che nella maggior parte delle professioni, oggigiorno, non è più necessario. Io, che in genere amo così fervidamente tutto ciò che è nuovo e rivoluzionario, in questo sono senz'altro retrivo, e dai ceti colti pretendo un certo idealismo, una certa disposizione a discutere e a capire del tutto indipendentemente da ogni vantaggio materiale, insomma un resto di umanesimo, anche se so che quest'umanesimo, in realtà, ha cessato di esistere e che tra poco anche la sua apparenza esterna non si troverà più se non nei musei delle figure di cera"[61].
Bisogna comunque lottare perché la sostanza dell'umanesimo rimanga nella scuola italiana. E non solo nella scuola: "Si sa o si intuisce che quando il pensiero non è puro e vigile, quando la venerazione dello spirito non è più valida, anche le navi e le automobili incominciano presto a non funzionare, anche il regolo calcolatore dell'ingegnere e la matematica delle banche e della borsa vacillano per mancanza di valore e di autorità, e si cade nel caos (…) Erano tempi feroci e violenti, tempi caotici e babilonici nei quali popoli e partiti, vecchi e giovani,[62] rossi e bianchi non s'intendevano più. Andò a finire che, dopo sufficienti salassi e un grande immiserimento, sempre più forte si fece sentire il desiderio di rinsavire, di ritrovare un linguaggio comune, un desiderio di ordine, di costumatezza, di misure valide, di un alfabeto e di un abbaco che non fossero dettati dagli interessi dei grandi, né venissero modificati a ogni piè sospinto. Sorse un bisogno immenso di verità e giustizia, di ragionevolezza, di superamento del caos"[63]. 

Classico è l’interesse per la politica 
Tucidide identifica addirittura la vita utile, attiva e produttiva, con la vita politica. 
Tanto che  fa dire a Pericle: "movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.

Classico è ostilità per la tirannide 
l'Odisseo dell'Aiace di Sofocle suggerisce ad Agamennone di non lasciare il suicida spietatamente insepolto (v. 1333), poiché così facendo distruggerebbe le leggi degli dèi[64] (vv. 1343-1344). Infatti, se fu nobile odiare ("misei'n kalovn" v.1347) Aiace nel pieno della sua forza, e lui, Odisseo, allora lo ha fatto ("e[gwg j ejmivsoun", v. 1347) sarebbe un successo indegno (v. 1349) oltraggiare il cadavere di un uomo che  è stato un nemico ("ejcqrov"") sì, però valoroso ("gennai'o"", v. 1355). 
Ma non è facile che un tiranno abbia pietà, replica Agamennone: “Tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rav/dion” (v. 1350). Nel caso specifico si tratta  di quella pietà che impedisce di manifestare gioia per la morte di un nemico.
Il tiranno dunque è incapace di pietas poiché la tirannide è figlia della prepotenza
Sentiamo la Prima antistrofe del Secondo Stasimo dell’Edipo re vv.873-882:

"La prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza, se
si è riempita invano di molti orpelli
che non sono opportuni e non convengono
salita su fastigi altissimi
precipita nella necessità scoscesa
dove non si avvale di valido piede.
La gara benefica per la città,
prego dio di non
interromperla mai;
dio non cesserò mai di averlo patrono".

Tiranno per il greco Erodoto è anche il mouvnarco" raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), come colui che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l' u{bri", mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno". Siccome ha questi due vizi, e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4).
Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[65].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo principio.
La mancanza di controllo ne fa l'antitesi del capo democratico. Tale   è Edipo finché non comprende, tale il Creonte di Sofocle, tale Serse nei  Persiani  di Eschilo, il grande re il quale, pur se sconfitto, non è "uJpeuvquno" povlei" (v. 213), tenuto a rendere conto alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo.
Creonte rivendica il diritto di tenere in pugno tutto il potere: “ejgw; kravth dh; pavnta kai; qrovnou~ e[cw” (Antigone, v. 173); ebbene nell’Edipo re  non solo gli dèi sono molteplici (cfr. la Parodo dove sono invocati Zeus, Apollo, Atena, Artemide, Dioniso, mentre viene deprecato Ares), ma una sola dèa, Atena, ha due denominazioni  (Cadmea e Onca[66],) e viene pregata in due templi diversi: nel prologo del dramma il popolo sta seduto nelle piazze, davanti ai duplici templi di Pallade (vv. 20-21).
Eschilo contrappone al potere assoluto, il sistema democratico di Atene  quando, nei Persiani, la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari   chi sia il pastore e il padrone dell'esercito. Allora il corifeo risponde con questo tetrametro trocaico: "ou[tino" dou'loi kevklhntai fwto;" oujd j uJphvkooi" (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
Pericle fu corego di questa tragedia del 472, ossia sostenne le spese del coro. La sua famiglia infatti era tradizionalmente ostile alla tirannide. Eppure il commediografo Cratino, critica Pericle in più di una commedia. “In una commedia di Cratino, dal titolo Chironi, un personaggio è definito “il grande tiranno”, nato dall’accoppiamento di Crono e di Stasis (fr. 240) In base ad un gioco di parole egregio, ma intraducibile, risulta assolutamente evidente che si tratta di Pericle; poiché questi, di cui era nota la singolare forma della testa, viene designato, anziché con l’appellativo omerico di nefelhgerevta~, con ingegnoso mutamento come kefalhgerevta~:  l’”adunatore di nuvole” diventa un “adunatore di teste”.
Pericle era lo Zeus con la testa a punta: così è definito da Cratino nelle Tracie (fr. 71)… Nei Chironi Zeus è, come abbiamo visto, figlio di Cronos e della Stasis; non di Rhea: figlio della discordia e della guerra civile; così come la sua “concubina” Era-Aspasia è figlia della dissolutezza… La “Stasis” che partorì Pericle fu o la caduta di Cimone o dell’Areopago nell’anno 462, o, più probabilmente, perché cronologicamente più vicina… La sua lotta politica contro Tucidide, figlio di Melesia, messo al bando nel 443… Allorché Pericle uscì dai pericoli dell’anno 446/5 come definitivo e vittorioso capo supremo dello Stato e dell’impero, l’oligarco Tucidide gli si oppose, affinché lo Stato “non divenisse in tutto e per tutto una monarchia” (Plutarco, 11, 1)[67]. Plutarco racconta che dopo la morte di Cimone a Cipro, gli aristocratici vedendo l’eccessivo potenziamento di Pericle, gli opposero Tucidide, del demo di Alopece, uomo saggio e parente di Cimone “w{ste mh; komidh`/ monarcivan ei\nai” (11, 1).
Pericle però ebbe un merito enorme: superò in potere molti re e tiranni, ma non accrebbe di una sola dracna il suo patrimonio e rese Atene grandissima da grande che era (Plutarco,  15, 3).
Per quanto riguarda il suo stile, Pericle aveva um eloquenza elevata, immune da buffonate plebee e truffaldine, ma in lui c’era anche una costituzione del volto che non cedeva al riso, e finezza di portamento e moderazione di abbigliamento (5, 1).
In questo e in altro gli era stato maestro Anassagora. 
Il poeta Ione di Chio invece afferma che il modo di trattare di Pericle era arrogante e superbo, pieno di presunzione di sé e disprezzo per gli altri, diversamente da Cimone che era mite e gentile.
Inoltre si faceva vedere poco in pubblico. La sua politica edilizia suscitava opposizione ma la sua giustificazione era che voleva rendere Atene bella e degna della capitale di un impero. Oltre l’acropoli, fece costruire l’Odeon, un edificio per spettacoli che ad alcuni ricordava la forma della sua testa: “oJ Periklevh~ twj/dei`on ejpi; tou` kranivou e[cwn" Cratino fr. 71K. 

Nelle Supplici di Eschilo è  un re che nega di gestire un potere assoluto: Pelasgo, sovrano di Argo, si rifiuta di fare qualsiasi promessa prima di essersi consultato con tutti i cittadini (vv. 368-369).

Un padrone assoluto è Zeus nel Prometeo incatenato: "tracu;" movnarco" oujd juJpeuvquno" kratei'" (v. 324), un sovrano rigido, né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio.  Per giunta è costretto alla durezza dal fatto che il suo regno è nuovo: "Ogni potere che comanda da poco tempo è duro" (v. 35). E' uno dei tanti arcana imperii (evulgato imperii arcano posse principem alibi quam Romae fieri, Historiae, I, 4. dopo la morte di Nerone).
Negli Annales (II, 59) Tacito svela i dominationis arcana di Tiberio: aveva vietato a senatori e ricchi cavalieri di recarsi in Egitto nel timore che chiunque lo avesse occupato anche con poche forze ne fame urgeret Italiam Perciò acerrime increpuit rimproverò aspramente Tiberio che contro le leggi di Augusto si era recato ad Alessandria. L’Egitto infatti era demanio imperiale e i senatori non potevano entrarvi. 
Germanico per giunta girava sine milite, senza scorta e pedibus intectis, a piedi scoperti e vestito alla greca imitando Scipione l’Africano. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa con i Troiani: "Res dura et regni novitas me talia cogunt / moliri" (Eneide, I, 563-564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali precauzioni.
Una condizione svelata "alle genti"[68] pure da Machiavelli: "Et infra tutti e' principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli" (Il Principe, XVII).

Nelle Supplici[69] di Euripide,  Teseo è il Pericle in vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica dialogando con l'araldo mandato da Creonte re, anzi tiranno di Tebe.
Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli" , v. 405).
Anche Plutarco attribuisce a Teseo il dono, ai non potenti, di un governo senza re e della democrazia che si sarebbe servita di lui solo come capo militare in tempo di guerra e come custode delle leggi e avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti (Vita di Teseo, 24, 3) [70]. 
Plutarco aggiunge che ne dà una testimonianza anche Omero il quale nel catalogo delle navi chiama dh'mo" solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).
Teseo è il buon sovrano, l’altro contrario del tiranno. Buon sovrano è Edipo all’inizio della tragedia. Egli si sente il padre dei suoi concittadini (v. 1 e 58: w\ paide~ oijktroiv). 

L'araldo delle Supplici ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti esclude i demagoghi i quali gonfiando la folla con le parole la volgono di qua e di là a proprio profitto. 
Del resto chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche: "oJ ga;r crovno" mavqhsin ajnti; tou' tavcou"  / kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta. Il contadino che si affatica con la terra (gapovno~, v. 420) ed è povero, anche se non è ignorante, a causa del lavoro non può prendere in considerazione gli affari pubblici. (Proprio per questo ad Atene le cariche pubbliche erano retribuite).

Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l'entità più ostile alla polis: "oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei" (v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere: "kai; tou;" ajrivstou" ou{" a]n hJgh'tai fronei'n-kteivnei, dedoikw;" th'" turannivdo" pevri" (vv. 444-445).
Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449). Cfr. Erodoto V 92, Aristotele Politica 1284a, Livio, I, 54.).
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l'autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere. 

L'Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l'usurpatore faceva con le donne: "ta; d j eij" gunai'ka", parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw' " (Elettra, vv. 945-946).
Si vede che sono gli stessi motivi della storiografia. Del resto non sono molto diversi i tiranni bolliti sonoramente, con "alte strida", nel Flegetonte dell'Inferno di Dante: "Io vidi gente sotto infino al ciglio; / e 'l gran Centauro disse:" E' son tiranni / che dier nel sangue e nell'aver di piglio" (XII, 103-105).
Un altro personaggio tragico che afferma l'insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo: "What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?" (V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
Adesso questo potere sta dentro tutte le case: "La televisione è diventato un potere incontrollato e qualsiasi potere non controllato è in contraddizione con i princìpi della democrazia"[71].
La televisione, come il tiranno, esige il livellamento delle teste.
L'uomo che sa pensare si pone il problema di come resistere a questa volontà di omologazione tentando di salvare la propria unicità. 
Il tiranno e il potere. Erodoto, Sofocle, Livio, Tacito, Shakespeare, Pasolini. 
La prima caratteristica del despota, lo abbiamo visto, è l'insofferenza dell'opposizione.
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: sappiamo da Erodoto che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. 
Periandro di Corinto, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era  scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale: "oiJ uJpetivqeto. tou;" uJperovcou" tw'n ajstw'n foneuvein", gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano (Storie , V, 92 h).
Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: si  mostrò all’ araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano. Periandro comprese e allora faceva vedere ogni malvagità (" ejnqau'ta dh; pa'san kakovthta ejxevfaine").

L’invidia 
Abbiamo visto che già Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro aveva usato l'espressione pa'san kakovthta che, secondo il nobile persiano fautore dell'ijsonomivh, è conseguenza dell'u{bri", la prepotenza, a sua volta originata dall'invidia e dai beni a disposizione del monarca  ("uJpo; tw'n parevontwn ajgaqw'n", III, 80, 3).  Dunque plou`to~/fqovno~/u{bri~/kakovth~. 
Dante individua la presenza del vizio dell'invidia  soprattutto nei luoghi del potere: "La meretrice che mai dall'ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio"[72].
Nella commedia pastorale As you like it (1599) di Shakespeare, il duca esiliato dal fratello e rifugiatosi nella foresta di Arden con i nobili suoi fedeli dice: “Now my co-mates and brothers in exile, / hath not old custom made this life more sweet / than the painted pomp? Are not these woods / more free from peril than the envious court?” (II, 1), ora miei compagni e fratelli d’esilio, non ha l’antico costume reso questa vita più dolce che lo sfarzo dipinto? Non sono questi boschi più liberi dal pericolo dell’invidiosa corte? 
La ricchezza e il potere dunque sono occasioni per la malvagità.
E pure per la stupidità: il Coro dell'Eracle di Euripide dopo la punizione del tiranno Lico afferma che l'oro, e il successo, spingono i mortali fuori dalla ragione tirandosi dietro un potere ingiusto: "oJ cruso;" a[ t j eujtuciva-frenw'n brotou;" ejxavgetai-duvnasin a[dikon ejfevlkwn" (vv. 774-776).
Su questa linea si trova anche Platone il quale  chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio "ejn jAidou to;n ajei; crovnon timwroumevnou"" ( Repubblica,525e), puniti nell'Ade per sempre. Questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"") non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ sfovdra ponhroiv" (526a) quelli malvagi assai.

Dai capitoli erodotei (III, 80-82) ricordati sopra derivano i modelli costituzionali della filosofia ( Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive. Cicerone riprende Polibio nel De republica..
Anche la storia di Trasibulo-Periandro ha delle riprese. 
Aristotele nella Politica racconta la storia di Periandro e Trasibulo variandola (è il tiranno di Corinto che dà il consiglio) e assimila i loro decollamenti all’ostracismo della democrazia che vuole conseguire l’uguaglianza (diwvkein th;n ijsovthta, 1284a) e quindi i democratici ostracizzavano (wjstravkizon) e allontanavano dalla città quelli che si vedevano sopravanzare nel potere  (tou;~  dokou`nta~ uJperevcein dunavmei) per ricchezza, per gran numero di amici o per qualche altra forza politica.
Allora non è logico scagliarsi contro Periandro e Trasibulo che tagliavano le teste. Questo infatti conviene non solo ai tiranni e non solo loro lo fanno, ma funzionano allo stesso modo le oligarchie e le democrazie. Infatti l’ostracismo ha lo stesso effetto con il reprimere e mettere in fuga tou;~ uJperevconta~, le persone che eccellono. 
Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un'analoga risposta senza parole: "Rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse" (I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della  reggia seguito dall'inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri. 
Il tiranno è invidioso. Infatti L'Invidia personificata da Ovidio "exurit herbas et summa papavera carpit" (Metamorfosi, II, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri. 

Il falso sciocco
Bruto, per salvarsi, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall'animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell'essere disprezzato: "Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnŭit cognomen" (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto.
“Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[73].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea communis mater omnium mortalium esset" I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali. 
Molto interessante è il commento di Bettini alla finta scivolata del falso sciocco. Questo particolare non irrilevante si trova anche in altri autori. "Il racconto di Dionigi appare, in questo episodio, leggermente variato[74]. Egli infatti ambienta la scena non direttamente nel tempio di Delfi, come Livio, ma la ritarda sino al momento dello sbarco in Italia: in questo modo, la terra mater assume simultaneamente anche il connotato della terra patria. Ancora, in Dionigi manca il tema della caduta simulata: Bruto, semplicemente, si china a baciare la terra, compiendo un gesto rituale antico e frequente, in coloro che tornano a casa dopo un lungo viaggio[75]…Ovidio, al contrario, resta fedele al tema della simulazione: "ille iacens pronus matri dedit oscula terrae, / creditus offenso procubuisse pede"[76] giacendo disteso al suolo dette un bacio alla terra madre, dando l'impressione che fosse caduto per aver inciampato. Qui Bruto inciampa, non scivola come altrove: però si tratta ugualmente di una caduta, e di una falsa caduta"[77]. Bettini procede facendo notare che la stupidità, vera o simulata, tira al basso. "In generale la poca stabilità sulle gambe, l'attrazione verso la terra - la tendenza, insomma, a mutare la posizione eretta umana e normale con quella a terra - sembra costituire un tratto tipico dello sciocco e del buono a nulla: ovvero di colui che finge di esserlo. Dell'imperatore Claudio si sottolinea frequentemente l'andatura vacillante, il "dexterum pedem trahere" (trascinare il piede destro), e così via[78]. Il carattere tardus dell'intelletto sembra avere il suo corrispettivo nella tardità fisica"[79].
Questa caratteristica di Claudio può entrare del resto anche nella rubrica "la zoppia del tiranno" che aprirò tra poco avvalendomi della guida di J. P. Vernant.
Per ora torniamo a Bettini e ad altri finti sciocchi che traballano. "David, comunque, fingendosi pazzo alla corte di Achis "si lasciava cadere fra le loro mani e inciampava nei battenti della porta"[80]. Dunque anche David scivolava giù e inciampava, come Bruto a Delfi. Ma anche Amelethus, quando lo incontriamo la prima volta nella reggia di Fengo, giace "abiectus humi" (buttato a terra), sporco[81]... Lo stupido, tendendo al basso, alla terra, con la sua andatura incerta e le sue cadute, il suo inciampare, la sua amletica posizione di humi abiectus, di disprezzato Ceneraccio, riconferma invece la propria natura animalesca, il suo essere brutus: come gli animali che, com'è noto, "natura (…) prona finxit"[82] la natura ha creato proni verso terra. Del resto… Il valore originale dell'aggettivo brutus è proprio quello di "pesante": chi è brutus ha un ingegno che tira al basso. Cadendo a terra Brutus - per fare un gioco etimologico caro ai poeti antichi - diventa "realmente" brutus. I cugini Tito e Arrunte, nel tempio del dio di Delfi, non si saranno certo meravigliati del suo gesto, lo avranno trovato normale. E' stupido, è brutus, e quindi cade. Magari avranno riso di lui"[83]. 
Amleto prima di essere il dramma di Shakespeare fu un’antica storia scandinava, senza autore, ma dotata di una sua vita nella tradizione orale. Il primo accenno ad essa lo troviamo in una canzone composta intorno al 980; la prima versione completa è nei libri III e IV delle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus intorno all’anno 1185. In 16 libri lo storico danese racconta le vicende dei Dani dalle origini mitiche ai suoi giorni. Morì nel 1210.
Amleto è presente anche nella psicologia. Freud in L’interpretazione dei sogni sostiene che Amleto è un giovane bloccato dalla coscienza che lo zio ha attuato quanto avrebbe voluto fare lui stesso.
Livio racconta pure che Bruto aveva portato in dono ad Apollo una verga d'oro inclusa in un bastone di corniolo con un incavo fatto a questo scopo, recando un’ immagine enigmatica del suo carattere: "Aureum baculum inclusum cornĕo cavato ad id baculo tulisse donum Apollini dicitur, per ambagem effigiem ingenii sui"[84]. "L'offerta funziona dunque come un indovinello, che simbolicamente rappresenta la falsa stoltezza dell'eroe. Il falso sciocco si configura come un involucro di materia vile che nasconde un'anima aurea… Dunque Bruto offre al dio un'immagine di se stesso, e della sua intelligenza fasciata di stoltezza. Come il Sileno platonico - l'astuccio ligneo, e di aspetto rozzo, che cela al suo interno la statua della divinità[85] - anche il bastone di Bruto manifesta simultaneamente i contrari. In questo senso si potrebbe anche dire che l'oggetto che Bruto offre al dio funziona alla maniera di un ossimoro, quella figura retorica che fa coincidere in uno stesso sintagma due pefetti contrari: come l'oraziana "concordia discors", o il miltoniano "darkness visible". La materia più nobile e desiderata - l'oro - e quella più vile e mal augurante - un legno scadente e infelix - sono poste forzatamente una dentro l'altra. L'oggetto è ossimorico proprio come ossimorico è il falso sciocco, con la sua sapiens insipientia. Diciamo meglio. Il falso sciocco è l'ossimoro per eccellenza, visto che il significato proprio di questa espressione greca, ojxuvmwron, è proprio quella di "sciocco acuto"… Forse non avevamo pensato che Bruto, come Amelethus, e tutti gli altri falsi sciocchi, erano in realtà delle figure retoriche, degli ossimori: anche in senso assolutamente letterale"[86].
Vediamo un aspetto della pazzia di Amleto con altre considerazioni di Bettini: "L'eroe ha appena fatto all'amore con la futura Ofelia shakespeariana, e gli viene chiesto: su quale cuscino? E lui: "Su uno zoccolo di giumenta, una cresta di gallo e le travi del tetto"[87]. 

Ma il falso stolto deve anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne. Odisseo a Itaca, davanti a Menelao e Agamennone, aggioga all'aratro un bue e un cavallo e se ne va in giro con in capo il berretto (pileus) dello stolto[88]. Peccato che non possiamo più vedere un celebre dipinto di Eufranore che stava a Efeso, forse nel santuario di Artemide. Plinio lo descriveva così: "Ulisse, fintosi pazzo, aggioga un bue insieme con un cavallo: vi sono anche uomini pensosi vestiti col pallio, e un comandante che rinfodera la spada"[89]. Ecco che le plateali insensatezze del (falso) sciocco suscitano il dubbio e lo sconcerto dei cogitantes, i personaggi "pensosi" che lo osservano.
Solone, per parte sua, se ne uscì invece in pubblico "deformis habitu more vecordium" (tutto malvestito alla maniera dei pazzi), ovvero con in testa il famoso berretto[90]. David, alla corte di Achis, contraffaceva il volto, si lasciava cadere, inciampava nei battenti della porta, e la saliva gli correva lungo la barba[91]. Ancora Amelethus, alla corte di Fengo, giace per terra sporco di cenere, intento a indurire nel fuoco dei bastoncini ricurvi[92]; poi lo vediamo salire su un cavallo a rovescio, reggendo naturalmente la coda al posto delle redini"[93].

Tacere e dissimulare è un modo per resistere alla stupidità della tirannide. Così avviene in 1984 di Orwell dove gli slogan del Partito sono: "La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza, (p. 8)... Non si possedeva di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio... Non era col farsi udire ma col resistere alla stupidità che si sarebbe potuto portare innanzi la propria eredità di uomo" (p. 31).
Falso sciocco è anche Demo nei Cavalieri di Aristofane. Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da ingannare (eujparavgwgo", v. 1115), gli dice, ti piace troppo essere adulato. E il vecchietto irritabile, sordastro (duvskolon gerovntion-uJpovkwfon, vv. 42-43) risponde: "Non avete senno sotto le vostre zazzere, se credete che io non capisca" (ejgw; d  j eJkw;n / tau't  j hjliqiavzw”, vv. 1123-1124), io mi comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi portare da bere. Il Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone in testa, di essere ladri, per poi costringerli a vomitare fuori (pavlin ejxemei'n, v. 1148) il maltolto, usando l’urna elettorale per provocare il vomito. 

In conclusione
Chi non conosce il greco e il latino rimane escluso da quasi tutta la trasmissione culturale europea nel corso dei secoli in tutti i campi, dal diritto alla filosofia, dalla medicina alla fisica, dalle scienze naturali alla teologia.
Chi ignora quella lingua è condannato a non conoscere mai le radici profonde del campo di cui si occupa, qualunque esso sia.

Giovanni Ghiselli

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[1] Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776-1777 traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e limato…certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3).
[2] Aggettivo formato da plhvn e mevlo~, contro il tono, contro il metro.
[3]Lettera a una professoressa  , p. 95.
[4] Del 368 a. C. Le stesse parole tornano nell’Antidosis (254-255) del  354 a. C.
[5] Nicocle 9 e Antidosi 257.
[6] W. Jaeger, Paideia 3, p.134.
[7] Ovidio,  Ars Amatoria , II, 123-124. Bello non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare.
[8] Diario del seduttore, p. 75.
[9] A. La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, p. 9.
[10] Leopardi, Zibaldone, 2214
[11] Pasolini, in Saggi sulla Letteratura e sull’arte, p. 2614.
[12] "Lo Stato", afferma Nietzsche, "vuole allevarsi quanto prima utili impiegati".  Sull'avvenire delle nostre scuole (1872), p. 27.
[13] S. Settis, Futuro del "classico" , p. e  106.
[14] Filosofo ed economista inglese (1806-873)
[15] Con la quale Guglielmo il Conquistatore  nel 1066 sconfigge il re anglosassone Aroldo III, quindi conquista l’Inghilterra.
[16] Non va sempre in questo modo: cfr. p. e.  Ifigenia in Aulide 1400-1401 l'Ifigenia in Aulide , scritta negli ultimi anni di vita del poeta, quando Sparta si era accordata con la Persia per sconfiggere la lega attica,  contiene  un grido di guerra contro i nemici orientali :"è naturale che gli Elleni comandino sui barbari, e non i barbari, madre, sui Greci: loro infatti sono schiavi, noi liberi", proclama la fanciulla (Ifigenia in Aulide, vv. 1400-1401) dopo avere offerto la sua vita per la patria: "do il mio corpo per l'Ellade. Sacrificate, espugnate Troia. Questo infatti sarà il mio monumento a lungo, questi i figli, le nozze e la gloria mia"(vv.1397-1399). ndr 
[17] Salvatore Settis, Pericle, nostro vicino di casa, “Il sole 24 ore”, domenica 31 agosto 2008, p. 27. 
[18] Pascoli, Relazione al Ministro della P. I., in: Prose, A. Mondadori, Milano, 1946, pag. 591. 
[19] Invenerunt e il successivo deberent significano da una parte inventiva e fantasia, dall'altra la non meno necessaria disciplina che più avanti infatti viene rimpianta.
[20]Satyricon, 2.
[21] S. Settis, , Futuro del "classico", p. 11o e p. 114.
[22] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 27.
[23] Del 1944.
[24] Al convegno di Lamezia Terme (Scuola e cultura classica, 2 marzo 2004) l'ispettore Luciano Favini ha definito Eliot "ierofante di Virgilio".
[25] “Il rapporto clientelare si configura come un’organizzazione mafiosa che garantisce l’omertà, e il successo dei disonesti”. (L. Perelli, La corruzione politica nell’antica Roma, p. 31).
[26] “ E per provinciale intendo più di quanto trovo nelle definizioni dei vocabolari…Intendo una stortura dei valori (escluderne alcuni esagerandone altri), derivante non dall’aver poco viaggiato per il mondo, ma dall’applicare all’intera esperienza umana criteri normativi acquistati in un’area limitata; il che porta a scambiare il contingente con l’essenziale, l’effimero con il durevole” T. S. Eliot, Op. cit, p. 975..
[27] Mi sembra di percepire in Virgilio, più che in ogni altro poeta latino (perché al confronto di lui Catullo e Properzio sembrano tipacci, e Orazio un plebeo), una raffinatezza di costumi che deriva da una delicata sensibilità, specie se guardiamo a quella pietra di paragone dei costrumi che è il comportamento privato e pubblico fra i due sessi…ho sempre pensato che l’incontro di Enea con l’ombra di Didone, nel libro VI, sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia…Il punto, direi, non è che Didone non perdona (benché sia importante che invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo-ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia); la cosa più importante è che Enea non perdona a se stesso, sebbene ed è significativo, si renda ben conto che tutto quanto ha fatto è stato per obbedire al destino…Ho scelto questo brano quale esempio di maniere civili…” Che cos’è un classico, in T. S. Eliot, Opere, p. 967..
[28] T. S. Eliot, Che cos’è un classico, in T. S. Eliot, Opere, p. 972.
[29] Cfr. la citazione di Tacito in 19.
[30] Del 46 a. C.
[31] Frammenti postumi Autunno 1887, (116), 9,  (166).
[32] Frammenti postumi Autunno 1887 (310) 11 (31).
[33] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 220.
[34] Eschilo, Agamennone, 177. E, poco più avanti: "Goccia invece del sonno davanti al cuore / il  penoso rimorso, memore delle pene inflitte; e anche / sui recalcitranti arriva il momento della saggezza" ( kai; par j a[-konta" h\lqe swfronei'n , Agamennone,  vv. 179-181).
[35] F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872),  p. 7 e p. 163.
[36] Odi  I, 5, 5.
[37]G. B. Conte, Scriptorium Classicum  3,  p. 22.
[38] Del 44 a. C.
[39] S. Settis, Futuro del 'classico', p. 84.
[40] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana 2, p. 380.
[41] Jean Starobinski, Tre furori, p. 124 e p. 125.
[42] T. Mann, Doctor Faustus, p. 731.
[43] M.Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 66.
[44] S. Settis, Futuro del "classico", p. 66.
[45] Le Notti Attiche, XVI 10, 15
[46] M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 145.
[47] H. Mount, Amo, amas, amat…And all that  How to become a latin lover, Short books, London 2006.
[48] Amo, amas, amat…And all that  How to become a latin lover, p. 216.
[49] M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 147.
[50] La democrazia in America (del 1840), p. 480.
[51] T. Mann, La montagna magica, p. 231
[52] Ibidem, p. 231.
[53] A Satana, vv. 97-100.
[54]E. Fromm, La disobbedienza e altri saggi , p. 63.
[55] Questa espressione può essere un ottimo punto di partenza per spiegare il participio predicativo, e poi “condirlo” , come si diceva (capp. 18 e 19) , con la letteratura.
[56] Aferesi da ejperevsqai, infinito aoristo da ejpeivromai, “domando”
[57] Heautontimorumenos  ,77.
[58] Cfr. 21. 1.
[59] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov , p. 403.
[60] Ivan  Gonĉarov, Oblomov (del 1859), p. 53.
[61] H. Hesse, La Cura , (del 1925), p. 27.
[62]  Oggi aggiungerei “maschi e femmine” (ndr).
[63] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, p. 33 e p. 368.
[64] Questo principio è il motivo della contesa tra Antigone e Creonte nell’Antigone di Sofocle e nelle successive.
[65]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca  , p. 170.
[66] cfr. I sette a Tebe, v. 164.
[67] V. Ehrnberg, Sofocle e Pericle, p.123-124.
[68] Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[69] Data probabile: 422 a. C.
[70] Tucidide ricorda che Pericle katei'ce to; plh'qo" ejleuqevrw", (II, 65) teneva in pugno il popolo lasciandolo libero
[71]K. R. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione , p. 10.
[72] Inferno , XIII, vv. 64-66.
[73] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[74] Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, 4, 69, 3.
[75] E. Fraenkel, Aeschylus. Agamemnon, Clarendon Press, Oxford, 1962, II, pp. 256 sgg. (nel commento al v. 503); Olgivie, A Commentary on Livy cit., p. 228: sul bacio alla terra vedi in particolare F. Lot, Le basier à la terre. Continuation d'un rite antique, in Pankrateia, Mélanges H. Grégoire, Bruxelles 1949, pp. 435 sgg.
[76] Ovidio, Fastorum libri, 2, 720. Così Valerio Massimo, 7, 3, 2:"perinde atque casu prolapsus, de industria se abiecit". Per il tema del "baciare la terra", cfr. J 1652; A 401.
[77] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, pp. 95-96.
[78] Seneca, Apocolocyntosis, 5, 1; Svetonio, Divus Claudius, 2; 21; Seneca, Apocolocyntosis, 1 e 5.
[79] M. Bettini, op. cit., p. 96.
[80] Il libro dei Re, 21, 11 (=Il libro di Samuele, 21, 11-13).
[81] Saxo, 3, 6, 6.
[82] Sallustio, De Catilinae coniuratione, 1.
[83] M. Bettini, op. cit., p. 98.
[84] Livio, I, 56.
[85] Platone, Simposio, 215b, 221d sg.; Lanza, Lo stolto, Einaudi, Torino 1997, pp. 32 sgg.
[86] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi, Torino, 2000, p. 86.
[87] Saxo, 3, 6, 11.
[88] Igino, Fabulae, 95.
[89] Plinio, Naturalis historia, 35, 129.
[90] Giustino, 2, 7; Plutarco, Vita di Solone, 8, 1, sg.
[91] Il libro dei Re, 21, 11 (=Il libro di Samuele, 21, 11-13).
[92] Saxo, 3, 6, 6.
[93] M. Bettini, op. cit., p. 59.

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