Le Danaidi di J.W. Waterhouse |
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Culturale Italo Tedesca di Siracusa
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Cari
soci ed amici,
venerdì 19 giugno 2015 alle ore 18, 00,
presso l'Hotel Parco delle Fontane, Viale
Scala
Greca n. 325, in collaborazione con l’A. M. M, I. (Associazione Nazionale Mogli
Medici)
e FEDER. S. P. e V. (Federazione Nazionale Sanitari Pensionati e Vedove), il
Prof.
Giovanni Ghiselli, già docente ordinario di greco e latino nei licei classi di
Bologna,
professore a contratto nelle Università di Bologna, Urbino, Bressanone,
membro
del direttivo del Centrum Latinatis Europae, terrà una conversazione dal
titolo
Ifigenia, Medea e altre donne della tragedia antica.
Al
termine della conferenza, per gli amici che vorranno parteciparvi, è prevista
una
riunione
conviviale con il relatore presso il ristorante - pizzeria L'Ottavo Peccato,
sito
in Traversa Sinerchia 1/F.
Coloro
che vorranno parteciparvi, sono pregati di telefonare allo 0931-32741 entro le
ore
22 di giorno 16.
IL
PRESIDENTE
Avv. Giuseppe Moscatt
19 giugno 2015
Medea di Seneca e Supplici
di Eschilo
Medea di Seneca
Medea è l’anti-Ifigenia. La ragazza trova la propria
identità nel sacrificio di se stessa, Medea nell’assassinio dei figli. Le
parole chiave del dramma di Seneca sono queste: Medea superest; hic mare et terras vides, /ferrumque et ignes et deos et
fulmina “ (vv. 166-167), Medea rimane: qui vedi il mare e le terre, e
il ferro e i fuochi e gli Dei e i fulmini.
Un’identità che riassume il mondo, senza cielo, e il caos. Un’identità
cosmica o piuttosto caotica.
Il dramma inizia con la preghiera nera di Medea che invoca (voce non fausta precor, 12) il Caos della notte eterna ed Ecate triforme[1].
La donna cerca di diventare quello che è compiendo crimini
orrendi e completando la propria identità scellerata.
Da ragazza, ella ricorda, tradì il padre, uccise e fece a
pezzi il fratello Apsirto, per amore di Giasone, ma ora che è sposa e madre
andrà oltre: “levia memoravi nimis: /
haec virgo feci; gravior exurgat dolor: / maiora iam me scelera post partus
decent “ (vv. 48-50), ho ricordato misfatti troppo leggeri: questi
li ho compiuti da ragazza; sorga un dolore più opprimente: maggiori delitti mi
si addicono dopo il parto.
Segue la preghiera santa del I coro di Corinzi: il canto per
le nozze di Giasone e Creusa.
Il secondo atto è costituito da un dialogo tra Medea furente
e la nutrice che cerca di calmarla. La chiama Medea e la donna risponde fiam (172), lo diventerò. Deve pellere femineos metus e indossare
mentalmente il Caucaso (42-43). Cfr. Il determinismo geografico.
Poi arriva Creonte che le impone di andarsene (vade veloci via 190), l’allitterazione
sembra mimare un soffio che allontana.
Medea ottiene la brevem
moram (288) di un giorno.
Creonte ne ha paura (fraudibus
tempus petis, 290), pensa che basti poco tempo ai malvagi per il delitto (nullum ad nocendum tempus angustum est malis,
292), tuttavia si lascia convincere.
Segue il II Coro (301-379) con un luogo cruciale della Medea: la maledizione del navigare che
crea confusione unificando popoli che devono rimanere separati.
I Corinzi esecrano la navigazione come attività
troppo audace per l'uomo: “ Audax
nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/ “ (vv. 301-302308),
audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti
Il primo a violare il
mare è stato Giasone la cui audacia ha trovato degni antagonisti nei freta perfida
E' la stessa u{bri “ di Serse il quale, secondo Eschilo, tentò di
trattenere con vincoli la sacra corrente e di unificare ciò che deve restare
diviso.
Bene dissaepti
foedera mundi/ traxit in unum Thessala pinus, /iussitque pati verbera pontum (334-336), unificò le regole del cosmo ben
separato la nave tessala e ordinò che il mare patisse le frustate dei remi.
Il pretium (361)
dell’impresa argonautica (huius cursus)
è stato Medea emblema e incarnazione del Caos e del furor che vuole infliggere ferite.
L’orbis pervius, con
tutte le strade aperte, apre la via alla confusione.
Il terzo atto (380- 670) si apre con un dialogo tra la
nutrice e Medea il cui furore straripa (exundat
furor, 392) e crescet semper
(407), crescerà sempre come dice la stessa Medea che aggiunge sternam et evertam omnia (414), abbatterò
e rovescerò tutto. “Amor timere neminem
verus potest “ (416)
Quella dell'amore, quando c'è, è la forza massima, ineluttabile;
lo sa anche Virgilio (omnia vincit Amor, et
nos cedamus amori “ Ecloga X, v. 69,
tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo), e lo sa pure Didone che si dispera
siccome capisce che Enea non la ama.
Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del
resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione
indirizzata a Enea dall'amante abbandonata: “Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis! “ (v. 412), malvagio
Amore, a cosa non spingi i petti mortali!
Vuole trascinare tutto in rovina con sé: mecum omnia abeant (428).
Arriva Giasone che dice di sposare la principessa di Corinto
per i figli: nati patrem vicēre (442)
Medea gli rinfaccia l’aiuto che gli ha dato, anche
danneggiando se stessa: “quascumque
aperui tibi vias, clausi mihi “ (458).
E gli rimprovera l’ingratitudine: ingratum caput (465).
Giasone le ricorda la propria intercessione presso Creonte
che voleva ucciderla, e lei risponde sarcasticamente: poenam putabam: munus, ut video, est fuga “ (492). Inoltre lui è il
mandante dei delitti: cui prodest scelus,
is fecit (500-501). Medea rinnega i figli comuni cui invece Giasone tiene
molto
Allora
la lucida follia vede dove può colpire e dice fra sé: “sic natos amat? /Bene est, tenetur, vulneri
patuit locus “
(549-550), ama così i figli? Va bene, ce l'ho in pugno, si è aperto un varco
per la ferita. Poi finge sottomissione. Ma pensa alla vendetta: fructus est scelerum tibi- nullum scelus
putare (564-565).
Il
conflitto tra i coniugi è diventato una vera e propria guerra. “Eros si associa a Eris, Lotta, quella Eris che Esiodo[2], nelle Opere e Giorni, colloca
“alle radici della terra “ (v. 19) “[3].
Il terzo coro torna a condannare i profanatori del mundus, kovsmo “, antonimo di chaos.
Gli Argonauti hanno prima devastato i boschi del Pelio (nemoris sacri Pelion densa spoliavit[4]
umbra, 608-609) poi hanno solcato il pelago per impossessarsi dell'oro, ma:
exigit poenas mare provocatum (v. 617). L'exitus dirus la morte
orribile (cfr. v. 615) è l'espiazione della rottura dei sacrosancta foedera
mundi. C’è l’elenco degli
Argonauti finiti male
Tra gli altri Tifi che sarebbe stato re
dell’Aulide e la regione memor amissi regis, memore del re perduto, portibus
lentis retĭnet carinas-stare querentes
(623-624) trattiene le navi che vogliono partire nelle gore dei suoi porti
Il coro chiede venia per Giasone: parcite
iusso (669).
IV atto
Medea è scelerum artifex (734) e
prepara veleni inauditi con un’anticipazione delle streghe del Macbeth. Mescola alle erbe mortali, bava
di serpenti e pezzi di uccelli di cattivo augurio.
I veleni letali della terra non le bastano: “Parva sunt-inquit-mala, /et vile telum est, ima
quod tellus creat: /coelo petam venena. Iamiam tempus est/aliquid movēre fraude
vulgari altius “ (vv.
691-694), sono piccoli malefici-dice- e vale poco l'arma che la bassa terra
produce: al cielo chiederò i veleni. Oramai è già tempo di scuotere qualche
cosa di più alto che un artificio volgare.
Cfr. Eliot e il “darsi animo “ dell’eroe tragico.
Le preghiere nere evocano le forze del male: il Chaos coecum, i
criminali del Tartaro, Ecate pessimos induta vultus (752). Il
mondo deve cadere nella confusione.
Medea manda i figli dalla nuova sposa perché le portino i doni letali che
ha preparato.
Nel quinto atto c'è il racconto della
catastrofe. Un nuntius ne dà notizia: “Periēre cuncta! concĭdit regni status!/Nata atque genitor cinere permixto
iacent! “ (vv. 879-880), è andato
tutto in malora, è caduta la potenza del regno!, la figlia e il padre sono a
terra in una cenere confusa!
“Qua fraude capti? “ domanda il
Coro, presi da quale inganno? E il nuntius: “Qua solent reges capi: / donis “ (vv. 882-883), quella dalla
quale di solito vengono presi i re: i doni.
Esemplare in questo
senso è la vicenda di Policrate di Samo il quale finì ucciso dal satrapo di
Sardi Orete che lo aveva attirato, promettendogli doni di ricchezze, in un
tranello dove questo tiranno cadde poiché era davvero avido di denari ( “iJmeivreto ga;r crhmavtwn
megavlw “ “, Erodoto III, 123).
Medea sente di poter raggiungere la pienezza della propria
identità moltiplicando e rendendo sempre più atroci i delitti: “ Medea nunc sum; crevit ingenium malis/ Iuvat,
iuvat rapuisse fraternum caput;/artus iuvat secuisse et arcano patrem/spoliasse
sacro, iuvat in exitium senis[5]/ armasse natas. Quaere materiam, dolor: /ad
omne facinus non rudem dextram afferes “ (Medea, vv. 910-915),
Ora sì che sono Medea, il mio genio è maturato nel male. Mi piace, mi piace
avere strappato la testa al fratello; mi piace averne segate le membra, e avere
spogliato mio padre del suo misterioso idolo[6],
mi piace avere armato le figlie alla distruzione del padre. Cercati un
bersaglio, dolore: ad ogni delitto spingerai una destra non inesperta (914-915).
La madre ha qualche attimo di ripensamento (cor fluctuatur, 943 con metafora nautica,
cede pietati dolor, 944) che però
viene respinto: ira, quā ducis, sequor
(953).
Medea, dimidiata dall’abbandono, si ricostituisce intera
attraverso il delitto
Dopo avere ucciso il
primo figlio, alla madre assassina sembra di avere recuperato il regno e la
verginità: rediēre regna! rapta virginitas redit! (v. 984).
Ancora un’anti-Ifigenia
che è vittima volontaria del padre. Medea è la madre carnefice dei figli.
Quando arriva
Giasone, Medea si autodrammatizza, quasi scavalcando l’autore: la madre
assassina pregusta una voluptas magna: il marito si è aggiunto quale spectator:
deerat hoc unum mihi/, spectator iste (vv. 981-982). Giasone la supplica
dichiarandosi colpevole lui solo: si quod est crimen, meum est (v. 993).
Medea affonda le armi nella ferita dell'uomo. Se c'è ancora qualche residuo di
figlio in me, afferma “scrutabor ense viscera, et ferro extrăham “ (v. 1002).
Poi uccide il secondo bambino, ma adagio, per
accrescere il dolore di Giasone: perfruĕre lento scelere; ne propĕra, dolor!
(1005). Quindi la missione è compiuta: bene est: peractum est (v. 1008).
Medea è diventata quello che è: coniugem agnoscis tuam? (1010). Il suum
esse del De brevitate vitae[7] è
rivendicato da Medea in tutta la tragedia
Medea compie la
negazione della propria femminilità iniziata nel primo atto (vv. 40-43): “ Per
viscera ipsa quaere supplicio viam, /si vivis, anime, si quid antiqui
tibi/remanet vigoris;/ pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente
indue “, attraverso le viscere stesse cerca la via per il castigo, se
sei vivo, animo, se ti rimane qualche cosa dell'antico vigore; scaccia le paure
femminili e indossa mentalmente il Caucaso inospitale.
Giasone chiede di essere lui stesso la vittima invece del
secondo figlio, ma Medea risponde: misereri
iubes (1018). Sarebbe un atto di misericordia. E aggiunge: coniugem agnoscis tuam? (1021). Poi la
fuga: patuit in caelum via (1022) due
draghi piegano il collo squamoso al giogo.
L’orrendo
delitto di Medea nega la presenza degli dèi agli occhi di Giasone: Il padre privato dei figli chiude
la tragedia gridando all'assassina di attestare che per dove passa non esistono
gli dèi: “Testare, nullos esse, qua
veheris, Deos “ (v. 1016) “E' l'antiapoteosi finale “[8].
Similmente Tieste dopo che Atreo
gli ha rivelato l'abominio compiuto grida: “Fugēre Superi “ (Thyestes,
v. 1022), gli dèi sono fuggiti!
Medea è la negazione del bene e
della provvidenza. Nelle Troiane di Seneca questo ruolo è svolto da
Elena che Andromaca apostrofa con: “Pestis exitium lues/utriusque populi!
“ (vv. 892-893), peste, rovina, calamità dell'uno e dell'altro popolo!
Le Supplici di Eschilo
Queste giovani che formano il Coro del dramma[9]
sono le Danaidi, cioè le cinquanta figlie di Danao le quali, aujtogenei' fuxanoriva/ (v. 8 feuvgw, ajnhvr), per connaturata
avversione all'uomo, fuggono accompagnate dal padre, volendo evitare le
aborrite nozze con i cinquanta cugini figli di Egitto i quali le inseguono.
Le fanciulle, giunte ad Argo, invocano la protezione del re
del luogo Pelasgo, siccome sono di origine argiva: discendono infatti da quella
Io, figlia del re di Argo, Inaco, che era stata resa pazza e trasfigurata in
una mucca[10]
assillata da un tafàno in conseguenza dell'amore di Zeus e della gelosia di Era.
Una storia raccontata nel Prometeo
incatenato altra tragedia attribuita, con alta probabilità, a Eschilo
Queste odiatrici delle nozze vedono nei cugini pretendenti
uno sciame, denso di maschi, violento (ajrsenoplhqh'
d j-eJsmo;n uJbristhvn, vv. 30-31 a[rshn
e plh`qo~, pieno di maschi) e
lanciato al loro inseguimento.
Le cinquanta femmine costituiscono una folla impaurita, giunta
dall’Egitto con rami avvolti in bende di lana[11]
(ejriostevptoisi klavdoisin, v. 23 e[rion, lana e stevfw, corono).
Nell’ Ifigenia in
Aulide, il ramo dei supplici è il corpo stesso della ragazza che
Clitennestra ha partorito (iJkethrivan de;
govnasin ejxavptw sevqen-to; sw'ma toujmovn, o{per e[tikten h{de soi “ 1216-1217).
Ifigenia appende al padre il proprio corpo.
Il
matrimonio per le Danaidi è sinonimo di orrori: le fanciulle in preda al terrore assimilano la
loro voce a quella di Procne, la sposa di Tereo (v. 61) trasformata in usignolo
(ajhdwvn, 63) dopo che ebbe ucciso il figlio
Iti per punire il marito il quale le aveva violentato la sorella Filomela. Tereo
fu a sua volta mutato in upupa, e la cognata, così barbaramente stuprata, in
rondine.
Viene ripetuto il motivo
dell'inimicizia mortale tra gli uomini e le donne che pure appartengono alla
stessa specie.
Un odio empio, nota subito Danao:
“come può restare puro l'uccello che divora l'uccello? “ (o[rniqo~ o[rni~ pw`~ a}n aJgneuvoi fagwvn ; v. 226)
Le Supplici di Eschilo[12]
hanno pure una parte politica che attualizza il mito facendovi entrare la
democrazia
Nel primo episodio entra in scena Pelasgo che si presenta
come “capo di quella terra “ (v. 251) e avverte la corifea che la città non ama
i discorsi lunghi (makravn ge me;n dh;
rh'sin[13]
ouj stevrgei povli “, v. 273). E' l'affermazione della giusta misura che
non può essere ipertrofica[14]
Pelasgo, sebbene monarca, rende omaggio alla democrazia
affermando solennemente: “io non posso fare promesse prima- di avere reso
questo problema comune (koinwvsa “)
a tutti i cittadini “(vv. 368-369).
E quando le Danaidi
ribattono: “tu sei la città, tu incarni il potere del popolo, - signore che non
subisce giudizi (a[krito “, vv. 370-371),
il monarca ribadisce: “te l'ho detto anche prima: senza il popolo (a[neu dhvmou) non posso agire neppure con
il potere che ho “(vv. 398-399).
Poi Pelasgo aggiunge che occorre un pensiero profondo, in grado di dare salvezza[15]
(dei' toi
baqeiva “ frontivdo “ swthrivou),
e capace di scendere nell’abisso, simile a un tuffatore (divkhn kolumbhth'ro “), con occhio vigile
e non ebbro (vv. 407-409).
Pelasgo dice che è uno spreco amaro (tajnavlwma pikrovn 476) che degli uomini versino sangue per
delle donne-gunaikw`n ou{nec j aijmavxai-
eppure è necessario temere l’ira di Zeus che protegge i supplici: infatti è la
paura suprema (u{yisto “ fovbo~, 479)
per i mortali
Ad Argo, e in Grecia, dunque, spiega Pelasgo, il re
democratico delle Supplici: “la gente
tende ad accusare (filaivtio~ lewv~)
il potere[16]
“ (v. 485), e la moltitudine probabilmente commisererà le Danaidi supplici: “e
infatti qualcuno vedendo questi rami, e provando compassione, potrebbe sentire
avversione per la prepotenza del maschio stuolo (u{brin
a[rseno “ stovlou), e il popolo sarebbe più benevolo verso di voi: infatti
ciascuno ha simpatia per i più deboli “(toi`~
h{ssosin ga;r pa`~ ti~ eujnoiva~ fevrei, 489). Cfr. il mito di Atene che
protegge i supplici.
In effetti, al momento della votazione, “tutto il popolo
votò alzando la mano favorevole “(Eschilo, Supplici,
v. 607) alla proposta presentata dallo stesso Pelasgo di aiutare le ragazze
vessate, non solo per pietà verso di loro, ma anche per schivare l'ira di “Zeus
che protegge i supplici “(v. 616) ed evitare “la doppia contaminazione “(diplou'n mivasma, v. 619) che sarebbe
derivata dal respingere giovani donne bisognose di protezione, straniere, quindi
ospiti; e, al tempo stesso, concittadine per la loro origine, in quanto Io, la
loro sesta antenata, era figlia di Inaco re di Argo.
L'aiuto alle fanciulle
raccomandato dal re con un breve discorso, venne dunque approvato dal popolo cersivn (v. 621), con alzata di mani, senza
bisogno dell’araldo (a[neu klhth'ro~, v.
622) che chiamasse per nome.
Un popolo intero si espone al rischio di una guerra per non
schivare il proprio dovere religioso.
Il codice tripartito
Del resto fu Zeus stesso a portare a termine l’operazione (v.
624).
Qui vediamo la fede nella democrazia, in Zeus, e la volontà
di osservare le regole avite che prescrivevano di onorare e riverire i numi, i
genitori, e gli stranieri non ostili. Cfr, l’Orestea.
Tale codice tripartito viene ricordato dal coro delle
Danaidi: gli ospiti, gli dèi, il padre e la madre devono essere almeno
rispettati: “infatti il rispetto dei genitori[17]
(tokevwn sevba~) è la terza tra le
leggi scritte della Giustizia venerandissima “(vv. 707-709).
il re di Argo avverte l'araldo degli Egizi che potrà portare
via le donne solo se un discorso pio riuscirà a persuaderle (ei[per eujsebh; “ pivqoi lovgo “, v. 941).
L'intelligenza e la moralità devono succedere alla violenza
nel rapporto tra i sessi.
Oggi viene continuamente stimolata una cattiva rivalità, il
risentimento e perfino l’odio tra maschi e femmine, per il semplice motivo che
le persone sessualmente insoddisfatte sono più facilmente manipolabili[18].
Alla fine del dramma le Danaidi
pregano la casta Artemide di guardarle con compassione salvandole dalle nozze.
Ma il coro viene sdoppiato e le loro
ancelle consigliano di non trascurare Cipride. Anche Afrodite è una dea
venerata per le sue opere. Del suo corteggio fanno parte Desiderio, Persuasione
seducente, e Armonia. Il pensiero di Zeus è imperscrutabile e il matrimonio
potrebbe essere la realizzazione delle figlie di Danao come di molte donne
prima di loro (Supplici, vv. 1049-1052).
La tragedia si conclude con le minacce dell'arrogante araldo
egiziano contro gli Argivi difensori delle Danaidi le quali oppongono resistenza
a ogni tentativo di aggiogarle a uomini aborriti. Esse pregano Zeus “di
liberarle da nozze rovinose con sposi malvagi “(v. 1064) e che “conceda la
vittoria alle donne “(kai; kravto “ nevmoi
gunaixivn, v. 1069).
Eschilo tende ai compromessi e
nelle sue tragedie non c'è mai un vincitore assoluto.
Alla fine della trilogia, Afrodite stessa compariva sulla
scena celebrando la necessità cosmica di Eros. Risparmiando il marito, Ipermestra
renderà omaggio alla dea dell'amore.
Sentiamo Perrotta sulle Supplici
di Eschilo (In I tragici greci, Eschilo Sofocle
Euripide, D’Anna, Messina-Firenze, 1971)
Le Danaidi sono colpevoli di u{bri
“, una parola ripetuta tante volte nella tragedia. Colpevoli sono anche
i loro pretendenti.
Le Supplici sono “misandre, nemiche di Afrodite e delle sue
ineluttabili leggi “ (p. 20). Esse hanno orrore degli uomini in genere. Verso
la fine della tragedia, nominano una sola divinità: Artemide casta. E’ la
stessa unilateralità dell’Ippolito di Euripide.
Le ancelle oppongono un canto in onore di Afrodite.
Kuvprido “ d oujk
ajmelei' qesmo; “ o{d j eu[frwn (1035), non trascura Cipride questo canto
assennato. Afrodite è assistita da Povqo “
e Peiqwv, Desiderio e Persuasione, e
del resto o[ tiv toi movrsimovn ejtiv, to;
gevnoit j a[n (1048), quello che è destinato si compie.
Le nozze possono toccare anche a te, come a molte donne
prima di te. Le ancelle suggeriscono alle Danaidi anche di pregare con parole
più moderate: “mevtriovn nun e[po “ eu[cou
“ 1060) di non caricare troppo il divino ta;
qew'n mhde;n ajgavzein 1062 (a[gan).
Ma le Danaidi chiedono kravto “
potere per le femmine (1069) “E’ evidente che anche le Danaidi peccano di
mancanza di misura “ (p. 20). Solo Ipermetra non insisterà nell’ u{bri “ accettando Linceo per il desiderio
di figli (Prometeo incatenato, 865). “Intenderà, cioè, una
delle leggi supreme che governano il mondo “ (p. 21). Nella terza tragedia
verrà Afrodite in persona a esaltare l’amore. Da Ipertesta e Linceo discenderà
Eracle (Prometeo incatenato, 871 sgg.)
“Il problema morale
delle Supplici è, dunque, chiaro: v’è mancanza di moderazione dall’una e
dall’altra parte. L’una e l’altra colpa sono punite da Zeus “ (p. 21). Perrotta
data le Supplici al 490. La considera
la prima delle sette tragedie di Eschilo e non considera eschilèo il Prometeo incatenato. I cori rivelano le
idee teologiche di Eschilo. Zeus è onnipotente, nessun potere è superiore al
suo (diversamente dal Prometeo) Zeus è in conoscibile e il suo pensiero va allo
scopo attraverso fitte ombre che lo sguardo umano non penetra; ogni opera
divina è senza sforzo; il suo potere è quello della giustizia. Già Esiodo aveva
connesso Zeus con Diche. Lo Zeus di Eschilo è altra cosa rispetto all’Uno di
Parmenide: “una specie di Javeh, com’è stato detto. Io integrerei, correggendo:
un Javeh giusto “ (p. 23). La tendenza al monoteismo non esclude le credenze
tradizionali: “Lo Zeus onnipotente e perfetto delle Supplici è anche l’amante di Io; lo Zeus giusto delle Eumenidi è
anche il figlio di Crono che un giorno legò suo padre “ (p. 23)
“La stessa morale delle Supplici
si ritrova nei Persiani…La morale dei
Persiani, il suo fabula docet, si
potrebbe riassumere in un verso solo, pronunciato dall’ombra del saggio Dario: “Quando
un uomo si affretta alla sua perdita, anche il dio lo aiuta a rovinarsi “ p. 24 (o{tan speuvdh/ ti “ aujtov “, cwj qeo; “ sunavptetai
(742), il dio lo assiste
Max Pohlenz, La tragedia greca, trad. it., Paideia, Brescia
1961 Die Grichische Tragödie 1954
La tragedia “è un atto
cultuale e statale “. Il poeta scelto dallo stato deve interpretare “un brano di
storia sacra “ (p. 13).
Tragico forse in
origine aveva un nesso con travgo~ (capro) e wjdhv, canto, quindi “canto del capro “, ma poi significò
disordine, frattura, crisi dell’ordine cosmico.
Goethe, il 6 gigno 1824,
aveva detto al cancelliere Müller “La tragicità
si fonda sempre su di un’antinomia inconciliabile. Ove intervenga o sia
possibile una conciliazione, il tragico svanisce “ (p. 15)
Schiller invece “credeva
nella conciliazione delle antitesi e la ravvisava nell’atteggiamento “sublime “
dell’eroe, che in virtù della sua libera azione morale affermava anche nella
rovina la sua superiorità sul fato ineluttabile “ (p. 15)
Anche altri esponenti
dell’idealismo tedesco come Hegel “hanno ravvisato nella conciliazione delle
antitesi il fine della tragedia “
Con Schopenhauer la
rovina dell’eroe divenne la conclusione necessaria del dramma
Eschilo tende a una
conclusione conciliante, e la trova proprio in virtù della sua salda fede nel
giusto ordine cosmico di Zeus.
L’uomo greco ha
l’impulso a foggiare la vita secondo la propria misura, ma si trova davanti un
destino, una moira che circoscrive la
sua capacità di autodeterminarsi. Nella vita essi sentono qualcosa di divino.
Il divino non è lontano
dai Greci come lo è dagli Ebrei e dai Cristiani. Saffo parla ad Afrodite come a
un’amica intima. A Sofocle apparve Eracle in sogno e gli rivelò chi aveva
rubato dal tempio di Eracle una patera
aurea gravis, una coppa di oro
massiccio. In somnis vidit ipsum deum
dicentem qui id fecisset. Sofocle non gli diede importanza. Ma il sogno si
ripeteva: allora il poeta ascendit in Arium
pagum, detulit rem; Areopagitae comprehendi iubent eum qui a Sophocles erat
nominatus. Il ladro confessò e restituì la coppa. Il tempio fu chiamato di
Ercole inducatore quo facto fanum illud
Indicis Herculis nomimatum est (Cicerone, De divinatione, I, 25). Nel mondo domina il logos e l’ordine, non
il caos. Lo riconosce anche Aiace poco prima di suicidarsi (Aiace, 670 ss.: gli inverni nevosi
cedono il passo alla fertile estate, la notte allo splendore del giorno) e così
Giocasta nelle Fenicie.
Il destino avverso non
avvilisce né umilia l’eroe che lo affronta intrepido. Quello che conta nella
vita è dare prova del proprio valore. La Tucvh non può
toglierci l’identità, se l’abbiamo.
L’arte dei Greci associa
il mu`qo~ al lovgo~. Achille
può scegliere e compie la scelta più difficile; Odisseo prevale sull’ira di un
dio.
L’
u{bri~ è difetto di
coscienza dei limiti. Gli dei olimpici non annientano le potenze delle viscere
terrestri: Encelado, Tifone etc.
Eschilo
rappresenta il contrasto tra dei vecchi e nuovi.
L’uomo
greco cerca le cause.
Erodoto
(V, 61) ricorda tagikoi;
covroi,
danze caprine eseguite all’inizio del VI secolo a Sicione in onore dell’eroe
Adrasto. Ma Clistene, tiranno di Sicione restituì i cori a Dioniso.
Platone
nel Cratilo (408c) nota il doppio
senso di tragikov~,
caprino
(da travgo~) e pure tragico.
Il
fulcro del culto dionisiaco è il ditirambo creato da Arione (Erodoto, I, 23). Nel
535 Pisistrato chiamò Tespi per l’allestimento artistico della grande festa di
primavera in onore di Dioniso. Tespi introdusse il dialogo cui i Greci erano
inclini. Aristotele nella Poetica (4? Non l’ho trovato) scrive che Tespi non
creò una vera e propria tragedia ma piuttosto il dramma satiresco. Comunque
Tespi ha posto un germe
Bacchilide
ha lasciato un ditirambo drammatico con un dialogo tra Teseo e i giovani
ateniesi.
La
struttura della tragedia è determinata dalla contrapposizione tra il coro e il
singolo, l’attore che è uJpokrithv~, colui che risponde.
Gli
orrori non vengono messi in atto ma raccontati: la swfrosuvnh greca non
tollerava l’orrore dell’atto sanguinoso. L’uomo greco cerca il logos: il senso delle cose. Il coro dice
quello che il dio ha ispirato al suo profhvth~. Il coro cerca il senso profondo degli
avvenimenti.
Dioniso
è originario della Tracia e della Frigia. La sua influenza in Grecia inizia nel
VII secolo. Il dio ricongiunge gli uomini alla natura, li fa uscire dalla
condizione umana. La sua furia orgiastica urtava con il senso greco della
misura e dell’ordine. I Greci sono il popolo della swfrosuvnh, dell’autodominio.
Ma questo è una conquista: è la “mente sana “ che assicura la prevalenza dello
spirito, e alla vita istintiva conferisce forma, misura, bellezza. Dunque il
ditirambo chiassoso e improvvisato si mutò nel canto artistico in onore del dio.
Maschera e coturni, stivali a gambale.
Nelle
Rane di Aristofane, Euripde rinfaccia
a Eschilo la pomposità del suo linguaggio: di usare parole della grandezza del
Licabetto (colle presso Atene) e del Parnaso. Allora il poeta più antico gli
risponde: ti dico, disgraziato (kakovdaimon),
che bisogna creare parole proporzionate ai concetti. Del resto è naturale che
semidei usino parole più grandi delle usuali, infatti usano anche abiti molto
più maestosi dei nostri (1060-1062). Dioniso incrementa e propaga la vita, Apollo
le dà ordine.
In
Iliade VI 132 troviamo che Dioniso è mainovmeno~. Non si tratta di
pazzia patologica ma di una esaltazione che strappa gli uomini dal costume
giornaliero. Il carisma della persona è la sua autonomia che lo differenzia
dall’uomo gregge diffuso in Oriente. Solone esprime fiducia nell’ordine cosmico
che è pure un ordine etico: al crimine segue la sventura, La polis corrisponde
all’autonomia dei Greci. Nel 510 fu abbattuta la tirannide e stabilita
l’isonomia, uguaglianza dei diritti per i cittadini. Da Clistene in avanti la
polis presta un appoggio al cittadino e gli fornisce un contenuto di vita. L’operosità
del singolo trae valore dal suo rapporto con la totalità del demos. Fino a
Pisistrato, Atene soggiacque all’influsso ionico. Poi creò una cultura propria.
Con il crollo della tirannide, fiorì la tragedia.
Quando
il poeta parla al popolo e non al tiranno, il poeta diviene il maestro del
popolo. Lo dice Eschilo nelle Rane: ai
bambini è il maestro che fa scuola, agli adulti i poeti (1055)
Il
tragediografo non deve dare voce ai propri sentimenti ma esprimere quanto
commuove il suo popolo. La tragedia era ufficio sacro, parte del culto statale.
Anche Pindaro si sentiva educatore. Pindaro però si rivolgeva solo ai nobili, il
tragediografo a tutti
Frinico
fece piangere gli Ateniesi con la
Caduta di Mileto e gli fu inflitta una multa. Nelle
Tesmoforiazuse, Agatone lo ricorda
come un autore bello elegante e capace di creare drammi belli (164 ss)
Ifigenia in
Aulide.
Fu
rappresentata postuma con l’Alcmeone
e le Baccanti. Il resoconto finale
del messo non risale a Euripide. E’ un dramma psicologico dove Agamennone è il
prototipo delle figure ondeggianti dei politici ateniesi che non avevano le
attitudini dello statista. Caratteristica di questo duce è la debolezza. Vuole,
disvuole, piange. L’eroe dell’Agamennone
di Eschilo è diventato debole, vacillante e non eroico.
Nella
tragedia di Eschilo, il coro cantava che Agamennone aveva dovuto entrare nel
giogo della necessità (ajnavgka~
e[du levpadnon,
Agamennone, 218) e procedeva con
ferrea risolutezza verso il compimento del sacrificio.
In
questa Ifigenia Euripide mostra la fiacchezza interiore dell’uomo, la debolezza,
l’incertezza. Invece di un monologo che serva a chiarire a se stesso quello che
vuole, Euripide lo fa dialogare con un servo per il quale oltretutto prova
invidia.
Il
padre di Ifigenia ha paura della massa che pretenderà il sacrificio.
La
ragazza prima ha paura, poi diventa eroica. Euripide ammira l’idealismo della
gioventù, in questa tragedia come nelle Fenicie
(Meneceo) e negli Eraclidi (Macaria).
“Questa mescolanza di debolezza e di forza, di
timidezza e di eroismo è un ritratto vero e suggestivo della natura “, osserva
Schiller nelle note alla sua traduzione.
Perrotta
riporta questo giudizio di Schiller e aggiunge: “Questa bambinache concepisce
la vita soltanto come una festa, si trova di fronte, all’improvviso, la morte…
E alla morte sa andare, sì, ma come ad una festa: proprio come la vita era per
lei soltanto una festa. Raccomanda alla madre: non ti tagliare i capelli, non
portare il lutto per me…Alla madre raccomanda tenerissimamente il fratello: Fammi
di Oreste un uomo “. Poi invita le verfini a cantare il peana di Artemide, a
celebrare la sua morte col canto: la vista delle corone, delle bende, delle
acque lustrali, e il canto l’inebbriano…Le parole di Schiller ben
s’adatterebbero non alla sola Ifigenia ma a tutte le eroine euripidee. Polissena
è in tutto simile a Ifigenia: piange anch’essa la giovinezza e le nozze perdute,
come lei è timorosa ed ingenua, e fanciullescamente ricorda il tempo felice, quando
la sua bellezza brillava tra le compagne, ed essa era “uguale in tutto agli dèi
fuorché nella morte “ (p. 221) i[sh qeoi'si plh;n to; katqanei'n movnon (356)
“Anche Polissena è tutta presa da una dolce
esaltazione, e ricorda a sé stessa più di una volta di essere la figlia di
Priamo, la sorella di Ettore…Dopo la sua coraggiosa decisione l’eroina torna a
piangere la giovinezza e l’amore e non sa staccarsi dalle braccia di Ecuba;
alla fine, prega Odisseo di condurla via, perché sente il suo cuore “struggersi
al pianto della madre. La stessa debolezza è in Alcesti. I filistei, che
contaminano con la loro ammirazione ogni cosa bella, non si stancano di
celebrare in lei l’ideale delle spose e delle madri. Al cesti non incarna né
questo né altro più o meno nobile ideale pratico; soltanto è una creatura d’ineffabile
dolcezza “ Perrotta I tragici greci, Eschilo,
Sofocle, Euripide, D’Anna, Messina-Firenze, 1971, p. 221). Perrotta poi
ricorda la morte di Evade “che un furioso e amoroso dolore spingerà a uccidersi
sul cadavere di Capaneo “ (nelle Supplici,
1045 sgg.). Dice al padre Ifi: “ come un uccello sulla roccia sul rogo di
Capaneo alleggerisco l’infelice fardello (1045-1047). Il padre le chiede perché
abbia messo in ordine il corpo con tanta cura (1054). Evade risponde che ha un
abbigliamento confacente a qualche cosa di glorioso (1055), a un atto
straordinario (1057). Dice che procede kallivniko “ (1059) verso una bella vittoria su
tutte le donne illuminate dal sole. Si getterà sul rogo di Capaneo e arderanno
insieme.
Torniamo
a Perrotta: “Questa è la morte come la può concepire e volere una donna: la toilette di Alcesti prova ch’essa anche
nella morte vuol essere bella “. (158 sgg. Si lavò, poi si adornò di vesti e
gioielli quando capì che l’ultimo giorno era arrivato)
“Poi l’eroina si getta sul letto nuziale, e
donnescamente ricorda, sia pure con un’allusione pudica, le gioie d’amore. Nella
sua anima non manca neppure una sfumatura di gelosia, e non so come facciano i
critici a negarla: “Un’altra donna ti possederà, non più virtuosa, ma forse più
fortunata “ (vv. 181-182
se; d’ a[llh ti “ gunh;
kekthvsetai, -swvfrwn me;n oujk a]n ma'llon, eujtuch;
“ d’ i[sw “, parodiato
da Aristofane nei Cavalieri 1251-1252
quando Paflagone deve lasciare la corona al salsicciaio, non più ladro (klevpth “) ma forse più
fortunato.
“Ma che fa questa donna, non appena compare
sulla scena? Invoca il sole, la patria, la casa natia. Poi fissa gli occhi
lontano, come perduti in uno spettacolo invisibile: una barca, un lago “ (p. 222)
Quindi
Perrotta cita i vv. 252- 256 nella traduzione di Racine (su; kateivrgei “ 256, ne me retard pas.
“Come
Ifigenia, come Polissena, come Macaria, come tutte queste eroine euripidee, Al
cesti
S’enivre des
splendeurs de sa propre vertu
Si
inebria dello splendore della propria virtù
“Euripide
sapeva penetrare profondamente nelle anime di queste giovani donne, così
eroiche e così fragili, che idoleggiava con la sua arte e amava col suo cuore “
(Perrotta, p. 223)
Achille
è stato educato da Chirone, mentre Ifigenia non ha ricevuto alcuna educazione. Achille
si innamora dell’anima eroica della fanciulla. Non c’è il motivo erotico
presente in Racine. (Ifigenia, 1674).
Ifigenia come Polissena sa consolare la madre e proibisce ogni lutto.
Agamennone
è un ambizioso arrivista, Clitennestra è giustificata in anticipo di quanto
farà. Già Meneceo nelle Fenicie si
contrapponeva alle ambizioni degli adulti. Qui Ifigenia e Achille sono due
giovani che guardano al proprio animo come stella polare. Rappresentano
l’idealismo della gioventù.
Già
in Erodoto, la guerra di Troia appariva come il primo scontro tra i Greci e i
barbari. Poi le guerre persiane. Alla fine della sciagurata guerra fraterna tra
Greci, i Persiani tornavano ad avere una parte preponderante e in entrambi i
campi molti sentivano questo come un’onta nazionale. Lo stesso navarco spartano
Callicratida sconfitto alle Arginuse nella tarda estate del 406 non aveva buoni
rapporti con Ciro il Giovane che invece piaceva a Lisandro. Senofonte racconta
che quando andò Callicratida da Ciro a chidergli del denaro per la paga dei
marinai, il principe gli disse di aspettare due giorni. Allora il navarco
indignato per il rinvio e adirato per l’anticamera (foithvsesin ojrgisqeiv~) disse che i
Greci erano disgraziatissimi per il fatto di dover adulare i barbari e{neka ajrgurivou per denaro, e
dichiarò che se fosse tornato sano e salvo in patria avrebbe fatto il possibile
per conciliare Ateniesi e Spartani (Elleniche,
I, 6-7)
Il
sentimento panellenico auspicava l’unione contro il secolare nemico barbarico. Euripide
dal 408 si trovava alla corte del re Macedone Archelao che ambiva ad essere
greco. Ancora non c’era il progetto di Filippo e Alessandro, ma in meno di un
secolo ci sarà la “crociata “ panellenica teorizzata da Isocrate e compiuta daAlessandro
Magno contro l’impero persiano.
Alla
fine delle Baccanti, Cadmo considera come
terribile sciagura l’essere destinato a condurre contro l’Ellade un esercito
barbarico.7
Gianni Ghiselli
[1]
“Divinità primitiva e trina (triformis), essendo associata a divinità
appartenenti ai tre regni: la luna (il cielo), Diana (la terra) e Proserpina
(gli inferi) “. (G. G. Biondi, op. cit., p. 91, n. 5.)
[2]
Vissuto ad Ascra in Beozia tra l'VIII e il VII secolo. Ci sono giunti due poemi
sicuramente esiodèi in esametri: Teogonia, Opere e giorni.
[3]J.
P. Vernant, Tra mito e politica, p. 136.
[4]
Il soggetto è quisquis (607) che poi exitu diro piavit (615)
[5]
Pelia
[6]
Il vello d'oro naturalmente.
[7]
“Ille illius cultor est,
hic illius: suus nemo est “, 2, 4,, quello è dedito al culto di quello, questo
di quello, nessuno appartiene a se stesso.
[8]
G. G. Biondi, Seneca Medea Fedra, p. 165.
[9]
Databile tra il 463 e il 461,
[10]
Cfr. sublatis cornibus Io…iam
saetis obsĭta, iam bos (Eneide, VII; 789-790), con alte le corna Io, già
coperta di peli, già vacca. Si tratta di un’immagine che orna lo scudo d’oro di
Turno.
[11] Questo è il segno dei supplici anche nell’incipit
dell’Edipo re che comincia con queste
parole del figlio di Laio: “ O figli, nuova stirpe dell'antico Cadmo/quali
seggi mai sono questi dove state seduti/con i supplici rami incoronati? “ (vv. 1-3).
[12]
Le Supplici di Euripide (del 422)
contengono una parte politica più ampia in difesa della democrazia e delle
leggi scritte.
[13]
Cfr. parrhsiva
[14]
Si pensi alla chiacchiera di tanti dei politici attuali vaghi di ciance e privi
di idèe
[15]
Servirebbe anche oggi, 25 aprile 2015.
[16]
Grazie alla parrhsiva, la libertà di
parola. Tsipras e il suo ministro Varoufakis, eletti dal popolo, per ora non
hanno piegato la testa come fanno i nostri cooptati dai vertici della finanza. Varoufakis
per questo si è preso del dilettante.
[17] “Nell’ordine dei valori morali proposti dalla società
greca arcaica e classica l’onore reso ai genitori viene subito dopo quello
prestato agli dèi: ved. p. es. Pindaro, Pyth.
6-26-7 (Chitone diede ad Achille il precetto di venerare il Cronide senza
privare mai di questo onore i genitori-e scolio ad. loc.); Euripide, Tr. GF
V, fr. 853 Kannicht; Senofonte, Mem. IV
4, 19. Le colpe contro i genitori nella mentalità religiosa del tempo erano
considerate inespiabili anche dopo la morte: Eschilo, Eum. 721; Platone, Phd. 114
a, Resp. 615 c(….) Invece, nel comico
“mondo alla rovescia “ degli uccelli, battere il padre è considerato un atto
onorevole (p. es. Aristofane, Au. 755-9)
“
Avezzù-Guidorizzi, Edipo
a Colono, p. 356 e p. 357.
[18] Nel romanzo 1984
di Orwell, c’è una ragazza, Jiulia, che si ribella al dispotismo facendo
l'amore con gioia, poi spiega: ""Quando fai all'amore, spendi
energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non
possono tollerare che ci si senta in questo modo... Tutto questo marciare su e
giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che
sesso che se ne va a male, che diventa acido. Se sei felice e soddisfatto
dentro di te, che te ne frega del Grande Fratello e del Piano Triennale, e dei
Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate? " (p. 142).
Spogliandosi questa ragazza bruna "faceva un gesto magnifico, proprio
quello stesso magnifico gesto dal quale sembra che venga distrutta tutta intera
una civiltà" (p. 133).
Il protagonista del romanzo
vede nell'istinto della donna sensuale "un colpo inferto al Partito... un
atto politico". Quando la sua giovane amante si spoglia infatti la osserva
pieno di ammirazione, quindi le dice: "Sta' a sentire. Con più uomini sei
stata e più ti voglio bene. Hai capito? " (p. 134).
Quante madri,come la Medea ,attualmente sacrificano la prole al solo fine di ledere il maschio traditore! Veramente la tragedia greca è, e sarà , sempre attuale perchè parla di noi.Anzi,ci spiega i nostri sentimenti. Giovanna Tocco
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