Beethoven |
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Altri topoi molto diffusi: tw/' pavqei mavqo" in ampio quadro. Tw/' pavqei kavllo~.
La condanna della
tirannide, il diritto del più forte, l’imperialismo, l’ esecrazione del denaro
e del potere. Seneca e Manzoni.
Il biasimo dell’ uomo
privo di bisogni spirituali. Fedro, Sallustio, Platone. La bellezza con
semplicità.
Un tovpo"
etico e psicologico diffuso è quello del tw/'
pavqei mavqo" [1], attraverso la sofferenza si giunge alla
comprensione[2].
Voglio darne un ampio quadro.
La sofferenza che conduce alla comprensione.
Esiodo. Pavese. Sofocle. Euripide. Menandro. Polibio. Nietzsche. Virgilio. Schiller. Dostoevskij. H.
Hesse. Proust. Wilde. D'Annunzio. Verga. Di nuovo Pavese. Ancora Hesse. Piero
Boitani
Tale legge si trova in tutte le
espressioni letterarie collegate all'oracolo delfico.
Esiodo afferma che la giustizia, quando si giunge alla fine,
supera la prepotenza e soffrendo anche lo stolto impara (Opere e giorni,
vv. 217 - 218).
Viceversa Pavese: “Non bastano le disgrazie a fare di un
fesso una persona intelligente”[3].
Nell'opera di Sofocle questa concatenazione di delitto - castigo
- riconoscimento degli errori, è messa in piena evidenza alla fine dell'Antigone, quando Creonte riceve la
notizia del terzo suicidio provocato da lui e dichiara la propria colpa che lo
ha annichilito: "a[getev m j ejkpodwvn,
- to;n oujk o[nta ma'llon h] mhdevna", portatemi via, io non sono
più di un nessuno (vv. 1324 - 1325). Nel poeta di Colono questo comprendere
tardivo non salva dalla catastrofe chi ha sbagliato.
Un caso di lieto fine
in seguito a resipiscenza invece possiamo trovarlo nell'Alcesti di Euripide. Admeto, sentendo il peso della solitudine dopo
avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio della sua vita per salvare la
propria, soffre la desolazione nella quale è rimasto e dice: "lupro;n diavxw bivoton: a[rti manqavnw",
condurrò una vita penosa: ora comprendo (v. 940). In seguito, come si sa, gli
verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
C. Del Grande in Tragw/diva afferma che pure la commedia
nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico
fornendo esempi di mavqo" tragico.
E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il
marito che aveva ripudiato la moglie Panfile per un presunto errore sessuale di
lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso insieme, quando si accorge
dell'amore della sposa, ironizza sulla propria innocenza di uomo attento alla
reputazione: " ejgwv ti"
ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn"(v. 588), io uno senza
peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion gunaiko;" ajtuvchma",
un infortunio involontario della donna (v. 594).
“Nella commedia più delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes, il cui intreccio può
essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in modo che infine un
giovane si renda conto del misfatto che ha commesso. Ubriaco, ha usato violenza
a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla già incontrata. Quando
nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si adira contro la moglie
finché deve scoprire che l’unica persona meritevole della sua indignazione
morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista coscienza della propria
situazione e riconosce che le sue grosse parole non erano altro che parole. Così
osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico: conosci te stesso. Ma non è un
Tantalo che nella sua hybris
selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino, né un Edipo, che
nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e neppure un Admeto,
che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane borghese innocuo
che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera coscienza, essendo
ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza di Menandro sta
nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni psicologiche, da temi
così inconsistenti…ipoeti più antichi erano spinti a comporre da motivi di
contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta, scoprire una verità, indagare
la virtù ecc…Dopo l’intermezzo democratico, con la fioritura ateniese della
tragedia e della commedia, i poeti dovevano di nuovo dimostrare il loro talento
alle corti dei monarchi…E come Menandro essi rinunciano al patho, ai programmi
morali, all’impegno politico, e osservano con sorridente comprensione il
comportamento degli uomini”[4].
E', secondo Del Grande, un "vero momento di mavqo" tragico"[5].
Su questo episodio torneremo trattando l’intolleranza e la tolleranza (21. 1).
Sulla medesima linea si trova il Duvskolo": il
vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo, comprende
che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto del prossimo,
e deve ammettere: " e{n d j i[sw"
h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn wj/ovmhn - aujto;" aujtavrkh" ti"
ei\nai kai; dehvsesq j oujdenov"" (vv. 713 - 714), in una cosa
probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il solo autosufficiente tra
tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro dunque rimane vigente la
legge tragica per la quale attraverso le proprie sofferenze si impara e si
diventa più comprensivi: "non si può dire che mavqo" non ci sia stato... Il paradigma in funzione
esemplare è evidente"[6].
Del resto già nel Prologo il dio Pan aveva detto a proposito
di Gorgia: “ oJ pai`~ uJpe;r th;n hJlikivan
to;n nou`n e[cwn: / proavgei ga;r hj
tw'n pragmavtwn ejmpeiriva, vv. 28 - 29, è un ragazzo che ha cervello al
di sopra della sua età: /infatti l'esperienza delle difficoltà fa crescere.
Anche il "pragmatico" e "universale" Polibio
riconosce valore educativo alla sofferenza: al cambiamento in meglio si giunge
attraverso due vie: quella dei patimenti propri e quella dei patimenti altrui (tou' te dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn kai; dia;
tw'n ajllotrivwn); la prima è più efficace ("ejnargevsteron"), la seconda meno dannosa
("ajblabevsteron", Storie, I, 35, 7).
Dal dolore dei Greci si sviluppa non solo la comprensione ma
anche la bellezza, una sorta di tw/' pavqei
kavllo": "Una questione fondamentale è il rapporto del Greco
col dolore…la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di
bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata
dalla mancanza, dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette
soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[7].
La "Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì
contesa giunta ad unità, discordia conciliata, angoscia risanata". [8]
Sulla sofferenza
positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e dal male[9]:
"il grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità
cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini, - la sua raccapricciante
certezza…di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (p. 200).
Per non limitarci alla letteratura greca e ai suoi
interpreti, aggiungiamo autori successivi. Nell'Eneide di Virgilio Didone incoraggia i Troiani giunti naufraghi
sulle coste della Libia ricordando che anche lei è esperta di sventure le quali
l'hanno resa non solo attenta e diffidente, ma pure compassionevole verso i
disgraziati: "non ignara mali
miseris succurrere disco "(I, 630), non ignara del male imparo a
soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas non verrà contraccambiata da
Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti massimi dei nostri autori e
dovrebbe esserlo nella scuola: "E infine, possiamo imparare la lezione
fondamentale della vita, la compassione per le sofferenze di tutti gli umiliati,
e la comprensione autentica"[10].
“Virgilio insiste, com’è ben noto, sull’umanità del
personaggio, che, avendo sofferto, è particolarmente sensibile al dolore degli altri”[11].
Friederich Schiller impiega la norma del tw'/ pavqei mavqo~ in molte delle sue
tragedie, particolarmente nella Maria
Stuarda (1802): “il personaggio della infelice regina cattolica sembra tra
tutti il più adatto ad essere il fulcro d’una tragedia di ispirazione
euripidea…secondo quelle leggi drammatiche già prospettate nel saggio Vom Erhabenen, 1793, per le quali “Se la
prima legge dell’arte tragica è rappresentare la natura sofferente, la seconda
legge è rappresentare la resistenza morale a quelle sofferenze”[12].
Maria muore non solo rassegnata ma felice del proprio matirio: “La prigione si
apre, /e lieta la mia anima vola/verso l’eterna libertà…ora/ benefica e dolce
mi si affianca/la morte come una severa amica…Sento/di nuovo sul mio capo la
corona/e l’antica dignità rivive/nell’animo lavato dal dolore” (V, 4)
F. Dostoevskij in Ricordi del sottosuolo
(del 1864) scrive: " io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla
vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al caos. Giacché la
sofferenza è la vera origine della coscienza… In realtà io continuo a pormi una
domanda oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi
sofferenze? Dite su, che cos'è meglio?" (p. 234 e p. 320).
H. Hesse, in Siddharta (p. 135) esprime con altre
parole l'antica legge eschilea del tw/'
pavqei mavqo": "Profondamente sentì in cuore l'amore per il
figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era
stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce".
Dalla donna che ci
fa soffrire si impara anche.
Su questo possiamo sentire Proust: " "Perché solo
la felicità è salutare al corpo, ma è il dolore a sviluppare le energie dello
spirito…Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi serie
di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa fare un
uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su cui
viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto soffrire
una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha rivelate, verità
che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto comprendere... Facendomi
perdere il mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più
utile, anche sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in
ordine le mie "scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal
conformato (e può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da
non poter amare senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare
certe verità, la vita d'un tale essere finisce col riuscire ben
spossante!"[13].
La sofferenza si confà alla chiarezza della visione e pure
all'arte: "Spesso solo per mancanza d'ingegno creativo non ci spingiamo
abbastanza oltre nella sofferenza. E la realtà più atroce suol dare, insieme
con la sofferenza, la gioia d'una bella scoperta, perché non fa che dare una
forma nuova e chiara a quello che andavamo rimuginando da un pezzo senza
rendercene conto"[14].
“La sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il
nostro modo di esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per
diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel
passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra
identità”[15].
Sentiamo ancora qualche testimonianza.
Lo stariez Zossima dice le sue ultime volontà ad Alioscia: “
Avrai molto da fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo
sarà sempre con te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà. Conoscerai
grandi sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio testamento:
nelle sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[16].
D'Annunzio
attribuisce al piacere maggiore efficacia pedagogica che al dolore: "Ella[17]
ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[18]:
lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità
di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna
che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e
che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha
gioito"[19].
Sentiamo
di nuovo del vecchio Malavoglia: “Hanno imparato presto perché hanno visti guai
assai! - diceva padron jNtoni: - il giudizio viene colle
disgrazie”[20].
Torniamo a C. Pavese: " la grande, la tremenda verità è
questa: soffrire non serve a niente"[21].
“Soffrire non serve a niente (26 novembre ‘37).
Soffrire limita l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).
Soffrire è sempre colpa nostra (29 settembre ’38)
Soffrire è una debolezza (13 ottobre ’38)
Almeno un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei
scritto queste belle sentenze”[22].
“Qualunque sofferenza che non sia anche conoscenza è inutile”[23].
Mi avvio alla conclusione con un un personaggio, Boppi, di
un romanzo giovanile di H. Hesse: " mi capitò di diventare l’allievo
meravigliato e riconoscente di un misero storpio. Se un giorno arriverò davvero
a compiere il poema iniziato da gran tempo e a pubblicarlo, vi si troverà ben
poco di buono che io non abbia imparato da Boppi. Incominciò per me un periodo
buono e piacevole nel quale troverò da nutrirmi per tutta la vita. Mi fu
concesso di vedere addentro una magnifica anima umana sulla quale malattia, solitudine,
povertà e maltrattamenti erano passati soltanto come nuvole leggere e vaganti. Tutti
i piccoli vizi coi quali ci amareggiamo e guastiamo la vita bella e breve, l’ira,
l’impazienza, la menzogna, tutte queste odiose e luride piaghe che ci deformano
erano state cauterizzate in quell’uomo da lunghi e profondi dolori. Non era un
saggio, né un angelo, ma un uomo pieno di comprensione e di affetto che, a
furia di tremende sofferenze e di gravi privazioni aveva imparato a sentirsi
debole senza vergognarsi, e ad affidarsi nelle mani di Dio"[24].
Concludo questo argomento citando Piero Boitani, professore
di Letterature comparate nell’Università di Roma “La Sapienza”: “La vita è
fatta della nostra relazione con gli altri, non solo di contemplazione della
natura o di noi stessi. Penso che per sopravvivere con gli altri sia necessario
compatire: non soltanto nel senso di avere pietà nei loro confronti, di
guardare alle loro e alle nostre sventure con umana pietas, ma di “soffrire con”, “com - patire”. Se soffriamo con gli
altri, se prendiamo su di noi i loro dolori, riconosciamo l’essere umano che è
in loro, e in noi, in maniera assai più profonda di quanto non ci consenta il
semplice conoscere…Leggere la compassione nell’Elettra di Sofocle, ma poi cercarne le variazioni in Omero, in
Proust, in Guerra e Pace. Temi e
tradizioni. La letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le
medesime, e la ri - scrittura è il principio che ne governa la crescita”[25].
E più avanti, specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza, allora, è un prerequisito
del riconoscimento. Se la Genesi ebraica postula che il prezzo del sapere sia
la morte[26],
i Greci sapevano perfettamente che la conoscenza si può acquisire soltanto
attraverso il dolore. Era saggezza comune fin dai tempi di Omero ed Esiodo[27],
ma è stato Eschilo, all’inizio della tragedia, ad esprimerla in maniera
memorabile nell’Agamennone, quando il
coro intona il famos “Inno a Zeus”[28]
Zeus, chiunque egli sia, se è questo il nome
Con cui gli è caro essere invocato,
così a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur tutto attentamente vagliando,
tranne Zeus, se veramente si deve gettar via
il vano peso dal proprio pensiero.
(…. )
Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà pienamente la saggezza -
A Zeus che ha avviato i mortali
A essere saggi, che ha posto come valida legge
“saggezza attraverso la sofferenza”.
Invece del sonno (oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti
al cuore
un’angoscia memore di dolori:
anche a chi non vuole arriva saggezza.
Pathei mathos: questa
è l’indicazione di Zeus per il phronein
umano, la “prudenza” che è saggezza”[29].
Aggiungo i due versi dell’Agamennone opportunamente indicati
da Boitani in nota: “Divka de; toi'~ me;n
paqou' -
sin maqei'n ejpirrevpei”
(Agamennone, vv. 250 - 251), Giustizia
fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto.
giovanni ghiselli, 2 giugno 2015
[1] Eschilo, Agamennone, 177. E, poco
più avanti :"goccia invece del sonno
davanti al cuore/il penoso rimorso, memore delle pene inflitte; e anche/sui
recalcitranti arriva il momento della saggezza" ( kai; par j a[-konta" h\lqe
swfronei'n , Agamennone, vv. 179-181).
[2] Si veda la massima
beethoveniana "Durch Leiden Freude", attraverso la sofferenza la
gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La testa ben fatta, p. 43 n.
7.
[3]
Il mestiere di vivere, 2 novembre 19 38.
[4]
B. Snell, Poesia e società, pp.
156-157.
[5]Tragw/diva , p. 209.
[7]
F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[8]B.
Snell, Eschilo e l'azione drammatica
, p. 141.
[9]
Del 1875
[10]
E. Morin, La testa ben fatta, p. 49.
[11]
A. La Penna , Prima lezione di letteratura latina, p.
150.
[12]
Schiller Tutto il teatro 3,
Introduzione di Paolo Chiarini, p. 108.
[13]M.
Proust, Il tempo ritrovato , pp 238,
239 e 242.
[14]
M. Proust, Sodoma e Gomorra, p. 549.
[15] O. Wilde, De Profundis, in Oscar Wilde
Opere, p. 653.
[16]
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov,
p. 123.
[17]
La vita.
[18]
" Se il chiavare non fosse
la cosa più importante della vita, la
Genesi non comincerebbe di lì" (C. Pavese, Il mestiere di vivere , 25 dicembre, 19 37).
Ndr.
[19]
Il fuoco (del 1900) p. 95.
[20]
G. Verga, I Malavoglia, p. 221.
[21]
C. Pavese, Il mestiere di vivere, 25 novembre 19 37.
[22]
Il mestiere di vivere, 27 ottobre 19 38.
[23]
Il mestiere di vivere, 19 gennaio 19 39.
[24]H.
Hesse, Peter Camezind (del 1904), p.
117.
[25]
P. Boitani, Prima lezione sulla
letteratura, pp. X ss.
[26]
Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza
del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi,
certamente moriresti”…Nella tradizione occidentale c’è anche un legame costante
tra l’anagnorisis e la cecità (o la
morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis
e il ragionamento, di cui ho scritto Il
genio di migliorare un’invenzione, cit.
[27]
Per l’importanza del pathei mathos
nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie,
cit., pp. 254-255. I loci più
importanti della tradizione soo Omero, Iliade,
XVII, 32; Esiodo, Opere e giorni,
218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo
re, 402; Sofocle, Antigone, 1190;
Platone, Simposio, 222b. Per un elenco generale e una discussione
si veda H. Dorrie, Leid und Erfahrung,
in “Abhandlunen der Akademie der Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5,
1956.
[28]
Eschilo, Agamennone, 160-180 (e si vedano anche i vv. 250-252). L’edizione
usata è quella curata da V. Di Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche
E. Severino, Il giogo. Alle origini della
ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.
[29]
Piero Boitani, Prima lezione sulla
letteratura, pp. 109-110.
Ancora una volta Gianni ,grazie. Grazie per la bellissima sintesi e i collegamenti. Grazie perchè leggerti è un grande piacere. Giovanna Tocco
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