Eugène DelacroixMedea in procinto di uccidere i figli, 1862 |
Diverse volte in questi ultimi anni abbiamo letto che una
madre ha ucciso i propri figlioli.
Un articolo di Umberto
Galimberti sul quotidiano "la Repubblica " sostiene che bisogna ascoltare
le madri: "quando un figlio nasce e cresce, bisogna accudire le madri.
Troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l'occupazione
del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l'anima è
vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica,
il terribile è alle porte, non come atto inconsulto, ma come svuotamento di
quelle risorse che fanno argine all'amore separandolo dall'odio, allo sguardo
sereno che tiene lontano il gesto truce. Non basta che i padri assistano al
parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel
logorio della quotidianità, accarezzare l'una e l'altro per cercare
quell'atmosfera di protezione che scalda il cuore e, col calore che genera,
tiene separato l'amore dall'odio…La natura contamina questi estremi. E la
madre, che genera e cresce nell'isolamento e nella solitudine conosce quanto è
fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si
compiono senza di lei…Un invito ai padri: tutelate la maternità nella sua
inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà. Questa tutela ha un solo
nome:"Accudimento", per sottrarre le madri a quella luce nera e così
poco rassicurante che fa la sua comparsa nell'abisso della solitudine"[1].
“Nella Medea di Euripide si sottolinea
l’infelicità della condizione femminile: nel matrimonio tutti i vantaggi sono
per l’uomo, e Medea proclama che “è cento volte meglio imbracciare lo scudo che
partorire una volta sola”. E’ tutta una rivendicazione, è anche un problema di
emancipazione della donna. In questo mi pare che Euripide ribalti Eschilo, che
vedeva come generatore solo il padre mentre Euripide sottolinea ed esalta il
ruolo - e la difficoltà, la sofferenza, il valore - della madre”[2].
La sofferenza del
parto ancora più doloroso della guerra.
“Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli/ in casa, mentre
loro combattono con la lancia,/ pensando male: poiché io tre volte accanto a
uno scudo/ preferirei stare che partorire una volta sola. (Medea, vv. 248- 251).
Ennio (239-169
a . C.) traduce i versi di Euripide quando fa dire alla
sua Medea exul: "nam ter sub armis malim vitam cernere/quam
semel parĕre”, infatti
preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte che partorire una volta
sola.
Le sofferenze del
parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando
l’adultera assassina tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al
marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla
seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n
ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous'
ejgwv" ( vv. 531-532). Qui
il seminare conta meno del partorire, diversamente dalle Eumenidi di Eschilo..
Nelle Fenicie
di Euripide la Corifea
commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ
di' wjdivnwn gonaiv,-kai;
filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le
donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche
modo amante dei figli.
Giocasta lo è stata
anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.
Nell' Ifigenia in
Aulide la Corifea
comprende la pena di Clitennestra per la figliola, ricordando quale prova terribile sia il
parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore
comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire dunque è
una delle cose tremende (ta; deinav).
Tanto più perché il
parto può causare una perdita di bellezza: nell’Hercules Oetaeus di
Seneca, Deianira, vedendo la fulgida bellezza della giovanissima Iole, lamenta
l’oscurarsi della propria con queste parole: “Quidquid in nobis fuit olim petitum, cecidit et partu labat” (vv.
388-389), tutto quello che una volta in noi era desiderato, è caduto e con il
parto vacilla.
Le matrone
romane potevano arrivare a vergognarsi di avere partorito e allattato i figli
poiché dopo non potevano più essere eccitanti con un bel seno. Lo ricavo da Properzio che esorta l'amante alla rixa
amorosa nella luce: "necdum inclinatae prohibent te ludere
mammae:/viderit haec, si quam iam
peperisse pudet " (II, 15, 20-21), non ancora le mammelle cadenti ti
impediscono tali giochi: badi a questo una se si vergogna di aver partorito.
Sentiamo anche
Schopenhauer
“Come ad esempio, la formica femmina, dopo l'accoppiamento, perde
per sempre le ali, superflue, anzi pericolose per la prole, così, di solito,
dopo una o due gravidanze, la donna perde la sua bellezza e probabilmente,
perfino, per la stessa ragione. In conformità con ciò, le giovinette
considerano nel segreto del loro cuore, i loro lavori domestici o professionali
una cosa secondaria, forse, perfino, un semplice trastullo: come loro unica
seria professione esse considerano l'amore, le conquiste e ciò che vi si
collega, come acconciature, balli, eccetera"[3].
E, poco più avanti:" per la donna una sola cosa è decisiva, vale a dire a
quale uomo essa sia piaciuta" (p. 838).
Sentiamo anche H. Hesse:"Domandai al servitore Leo
perché mai gli artisti sembrassero talvolta uomini soltanto per metà, mentre le
loro immagini apparivano così inconfutabilmente vive. Leo mi guardò stupefatto
della mia domanda. Poi…rispose:" Lo stesso avviene per le madri. Dopo che
hanno partorito i figli e dato loro il proprio latte, la propria bellezza ed
energia, diventano a loro volta poco appariscenti e nessuno più le cerca"[4].
Nei Memorabili
di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori
alle proprie creature e il dovere della gratitudine, fa presente che “il
nascimento” mette a repentaglio la vita della madre:" hJ de; gunh;
uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa
peri; tou' bivou" (II, 2,
5), la donna, dopo avere concepito, porta questo peso, aggravata e con rischio
della vita.
In Anna Karenina c'è
il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa,
mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La faccia di
Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per
l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la
testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile
urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato
all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense" [5].
Medea dunque avverte gli uomini che il parto può essere più
tremendo della guerra.
Del resto il letto è il campo di battaglia della donna.
Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, soffrì e
morì di parto nel dare alla luce la seconda creatura: “Quando il dolore
travalicò ogni limite umano, ella gridò e fu un gridare terribilmente
selvaggio, che non si accordava con il suo volto e non si addiceva alla piccola
Rachele. In quell’ora, infatti, in cui ancora una volta fu giorno, ella non era
più in sé, non era più lei, lo si udiva da quel suo orrendo muggito: non era
pià lei, la sua era una voce completamente estranea…Erano doglie spasmodiche
che non affrettavano l’opera, ma serravano soltanto in una morsa di tormenti
infernali quella povera santa, così che la maschera del suo volto contratta
nell’urlo era divenuta cianotica e le sue dita artigliavano l’aria…E poi da
Rachele si levò un ultimo grido, come l’esplosione estrema di una furia
demoniaca, quale non si può lanciare una seconda volta senza morire, quale non
si può udire una seconda volta senza perdere la ragione…il figlio di Giacobbe
era uscito, il suo undicesimo e il suo primo, venuto fuori dall’oscuro grembo
insanguinato della vita, Dumuzi-Absu, il vero figlio dell’abisso”[6].
Dopo l’assassinio del primo figlio, Giasone chiede a Medea di accontentarsi di una sola
vittima.
Medea risponde:"Si posset una caede satiari manus,/nullam petisset. Ut duos perimam,
tamen/nimium est dolori numerus angustus meo./In matre si quod pignus etiamnum
latet,/scrutabor ense viscera, et ferro extraham" (vv. 998-1002), se le mie mani
si potessero saziare di una sola uccisione, non ne avrei commessa alcuna. Che
ne ammazzi due è comunque un numero troppo piccolo per il mio tormento. Se c'è
ancora qualche residuo di figlio nel mio grembo, frugherò con la spada le
viscere e lo estrarrò con il ferro.
Con questa immagine cruenta Medea nega definitivamente il
suo ruolo di madre.
Pure Lady Macbeth vuole defemminilizzarsi quando invoca gli
spiriti che apportano pensieri di morte:"unsex me here",
snaturatemi il sesso ora, e riempitemi dalla testa ai piedi della crudeltà più
orrenda (of direst cruelty). Il sangue di cui gronda la tragedia, nel
suo corpo deve addensarsi e chiudere
ogni via di accesso al rimorso ( Macbeth, I, 5). Quindi la donna chiama
una densa notte che giunga avvolta nel più tetro fumo d'inferno perché il suo
pugnale non veda la ferita che produce .
Poco più avanti questa creatura atroce immagina l'uccisione di un
suo bambino piccolo:"Io ho dato latte: e so quanta tenerezza si prova
nell'amare il bambino che lo succhia; ebbene io avrei strappato il capezzolo
dalle sue gengive senza denti mentre egli mi avesse guardata in faccia
sorridendo e gli avrei fatto schizzare via il cervello, se lo avessi giurato
come tu hai giurato questo"(I, 7).
"La sua voce
dovrebbe indubbiamente sollevarsi fino a raggiungere in "schizzar via il
cervello", un urlo quasi isterico"[7].
Un altro caso ancora è la Medea del romanzo di Christa Wolf: ella
accetta l'identità scomoda che vogliono
attribuirle senza diventare un'assassina: " Non sono giovane, ma pur sempre selvaggia, lo dicono
i corinzi, per loro una donna è selvaggia se fa di testa sua. Le donne dei
corinzi mi sembrano animali addomesticati, resi con cura mansueti, e mi fissano
come un'apparizione estranea…"[8].
Questa Medea non ha ucciso il fratello, né i figli, ma contro di lei è stata
messa su una montatura perché ha ficcato il viso a fondo negli arcana
del Palazzo:"Medea sarebbe stata accusata di aver ucciso suo fratello
Apsirto in Colchide. Ciò avrebbe dato ad Acamante il pretesto per procedere
contro di lei, se voleva, dato che non poteva utilizzare il suo vero crimine,
l'essersi intromessa in un intimo segreto di Corinto. Noi due del resto, Presbo
e io, non ci nascondemmo la nostra gioia maligna per il fatto che anche questa
Corinto meravigliosa, ricca, così sicura di sé ed arrogante ha i suoi passaggi
sotterranei con segreti profondamente celati"[9].
Anche a Corinto c'è stato un crimine dell'ambizione
politica: il re Creonte, come l'Agamennone dell' Ifigenia in Aulide di
Euripide, ha voluto, o permesso, l'assassinio della figlia adolescente per lo
stesso motivo abbietto: non perdere il potere:"Allora gli dico quello che
so: che là, nella caverna, ci sono le ossa di una ragazza, una bambina, quasi,
della tua età, fratello. E che sono le ossa della figlia del re, la prima
figlia del re Creonte e della regina Merope"[10].
Questa Medea anomala
cerca di aiutare la nuova donna di Giasone a scendere "in quell' abisso
dove giacciono le immagini del passato" ossia a guardare il rimosso con
ricordo dell'uccisione della sorella Ifinoe "la fanciulla sacrificata
sull'altare del potere"[11].
Infatti quell'assassinio fu ordinato da suo padre Creonte, il re di Corinto.
"In quella voragine dove io mi vidi seduta, molto piccola ancora, in
lacrime, inconsolabile, sulla soglia di pietra tra una delle stanze del palazzo
e il lungo corridoio gelido. Che camera era, quella sulla cui soglia sedevo,
volle sapere, ma io non volevo guardarmi intorno, avevo paura, lei mormorò le
sue formule tranquillizzanti, allora fui costretta a voltarmi. Era una camera
in cui viveva una ragazza. C'era una cassapanca dipinta con colori
meravigliosi, sul letto erano sparsi dei vestiti, su una mensola stava un
piccolo specchio incorniciato d'oro, ma nessun segno di chi potesse viverci. Tu
lo sai Glauce, disse la donna[12],
tu lo sai bene. No gridai, no, urlai, non lo so, come potrei saperlo, è
sparita, mai più ricomparsa, nessuno l'ha mai più nominata, anche la camera è
sparita, probabilmente mi sono solo immaginata tutto questo, probabilmente non
è mai esistita. Chi, Glauce, chiese la donna. La sorella, urlai. Ifinoe"[13].
giovanni ghiselli
il blog è arrivato a 245062
[1]
Umberto Galimberti, "la
Repubblica " 2 dicembre 2004, p. 15.
[2]
Da un’intervista a Claudio Magris compresa in Madri, a cura del Centro Studi
La permanenza del Classico,
pp. 225-226.
[3]
Parerga E Paralipomena ,Tomo II, pp. 832-833.
[4]
H. Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente,
(del 1932) p. 33.
[5]
L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720.
[6]
T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Le
storie di Giacobbe, pp. 413- 414.
[7]A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p.
403. Qualche pagina prima (370) Bradley scrive: "I
versi più terribili della tragedia sono quelli del suo grido raccapricciante
"Ma chi avrebbe mai pensato che quel vecchio avesse dentro tanto
sangue?" (V, 1).
[8] C. Wolf, Medea,
p. 20.
[9] Op. cit., p. 88. Parla Agameda della Colchide, un'ex allieva di Medea
arrivata a odiarla. Acamante è l'astronomo del re di Corinto Creonte. Presbo è
un altro Colco divenuto organizzatore dei giochi di Corinto. Sono entrambi
amanti di Agameda.
[10] C. Wolf, Medea, p. 108.
[11] Medea, p. 157.
[12] E' Medea che, vittima di un complotto di Stato, e
diventata innominabile.
[13] Medea , p. 148. Queste parole fanno parte del
monologo di Glauce, figlia del re Creonte e della regina Merope di Corinto.
Anche questo "pezzo" è splendido, si avverte in te, Gianni, una sensibilità speciale per il mondo femminile. Non tutti i parti sono dolorosi.A ognuno il suo destino anche nella sofferenza generatrice,chi troppo e chi nulla.
RispondiEliminaGiovanna Tocco
In Francia ,lo stato, per prevenire la depressione post partum manda (credo con cadenza settimanale)a casa della puerpera una persona per aiutare ed assistere. Quando la prole è considerata un bene della collettività l'atteggiamento sociale cambia. Da noi in Italia i figli mi pare che siano considerati un bene personale delle famiglie , nel bene e nel male. Giovanna Tocco
RispondiEliminaha ragione Giovanna: in Italia e in genere nel mondo occidentale, il bambino è un obbligo solo dei genitori, della madre in special modo; dei bambini deve occuparsi tutta la collettività, dalla nascita fino all'adolescenza. Cosa che succedeva un tempo anche qui, come ancora oggi presso culture differenti dalla nostra.
RispondiEliminaPersonalmente preferirei morire che essere madre, però aiutare le madri coi loro bambini mi ha aiutata a mia volta; è un enorme piacere.
Maddalena