NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna   -  Tutte le date link per partecipare da casa:    meet.google.com/yj...

mercoledì 10 giugno 2015

Il rifiuto della maternità e le sofferenze del parto

Eugène DelacroixMedea in procinto di uccidere i figli, 1862


Diverse volte in questi ultimi anni abbiamo letto che una madre ha ucciso i propri figlioli.
Un articolo di Umberto Galimberti sul quotidiano "la Repubblica" sostiene che bisogna ascoltare le madri: "quando un figlio nasce e cresce, bisogna accudire le madri. Troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l'occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l'anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile è alle porte, non come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all'amore separandolo dall'odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il gesto truce. Non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l'una e l'altro per cercare quell'atmosfera di protezione che scalda il cuore e, col calore che genera, tiene separato l'amore dall'odio…La natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell'isolamento e nella solitudine conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei…Un invito ai padri: tutelate la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà. Questa tutela ha un solo nome:"Accudimento", per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell'abisso della solitudine"[1].

“Nella Medea di Euripide si sottolinea l’infelicità della condizione femminile: nel matrimonio tutti i vantaggi sono per l’uomo, e Medea proclama che “è cento volte meglio imbracciare lo scudo che partorire una volta sola”. E’ tutta una rivendicazione, è anche un problema di emancipazione della donna. In questo mi pare che Euripide ribalti Eschilo, che vedeva come generatore solo il padre mentre Euripide sottolinea ed esalta il ruolo - e la difficoltà, la sofferenza, il valore - della madre”[2].
La sofferenza del parto ancora più doloroso della guerra.
La Medea di Euripide afferma di preferire la guerra al parto  inaugurando un tovpo" che arriva alle soldatesse di oggi.

“Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli/ in casa, mentre loro combattono con la lancia,/ pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo/ preferirei stare che partorire una volta sola. (Medea, vv. 248- 251).


Ennio (239-169 a. C.) traduce i versi di Euripide quando fa dire alla sua Medea exul: "nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parĕre”, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi tre volte che partorire una volta sola.  

Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando l’adultera assassina tenta di giustificarsi per il trattamento riservato al marito il quale non era incolpevole: egli sacrificò Ifigenia dopo averla seminata, senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" ( vv. 531-532). Qui il seminare conta meno del partorire, diversamente dalle Eumenidi di Eschilo..

Nelle Fenicie di Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è in qualche modo amante dei figli.
Giocasta lo è stata anche troppo; Medea evidentemente fa eccezione.

Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola,  ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia d’amore comune a tutte, tanto da soffrire per i figli.
Partorire dunque è una delle cose tremende (ta; deinav). 

Tanto più perché il parto può causare una perdita di bellezza: nell’Hercules Oetaeus di Seneca, Deianira, vedendo la fulgida bellezza della giovanissima Iole, lamenta l’oscurarsi della propria con queste parole: “Quidquid in nobis fuit olim petitum, cecidit et partu labat” (vv. 388-389), tutto quello che una volta in noi era desiderato, è caduto e con il parto vacilla.

Le matrone romane potevano arrivare a vergognarsi di avere partorito e allattato i figli poiché dopo non potevano più essere eccitanti con un bel seno. Lo ricavo da Properzio che esorta l'amante alla rixa amorosa nella luce: "necdum inclinatae prohibent te ludere mammae:/viderit haec, si quam  iam peperisse pudet " (II, 15, 20-21), non ancora le mammelle cadenti ti impediscono tali giochi: badi a questo una se si vergogna di aver partorito.

Sentiamo anche Schopenhauer
“Come ad esempio, la formica femmina, dopo l'accoppiamento, perde per sempre le ali, superflue, anzi pericolose per la prole, così, di solito, dopo una o due gravidanze, la donna perde la sua bellezza e probabilmente, perfino, per la stessa ragione. In conformità con ciò, le giovinette considerano nel segreto del loro cuore, i loro lavori domestici o professionali una cosa secondaria, forse, perfino, un semplice trastullo: come loro unica seria professione esse considerano l'amore, le conquiste e ciò che vi si collega, come acconciature, balli, eccetera"[3]. E, poco più avanti:" per la donna una sola cosa è decisiva, vale a dire a quale uomo essa sia piaciuta" (p. 838).
Sentiamo anche H. Hesse:"Domandai al servitore Leo perché mai gli artisti sembrassero talvolta uomini soltanto per metà, mentre le loro immagini apparivano così inconfutabilmente vive. Leo mi guardò stupefatto della mia domanda. Poi…rispose:" Lo stesso avviene per le madri. Dopo che hanno partorito i figli e dato loro il proprio latte, la propria bellezza ed energia, diventano a loro volta poco appariscenti e nessuno più le cerca"[4].

Nei Memorabili di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori alle proprie creature e il dovere della gratitudine, fa presente che “il nascimento” mette a repentaglio la vita della madre:" hJ de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la donna, dopo avere concepito, porta questo peso, aggravata e con rischio della vita.       
In Anna Karenina c'è  il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense" [5].

Medea dunque avverte gli uomini che il parto può essere più tremendo della guerra.
Del resto il letto è il campo di battaglia della donna.
Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, soffrì e morì di parto nel dare alla luce la seconda creatura: “Quando il dolore travalicò ogni limite umano, ella gridò e fu un gridare terribilmente selvaggio, che non si accordava con il suo volto e non si addiceva alla piccola Rachele. In quell’ora, infatti, in cui ancora una volta fu giorno, ella non era più in sé, non era più lei, lo si udiva da quel suo orrendo muggito: non era pià lei, la sua era una voce completamente estranea…Erano doglie spasmodiche che non affrettavano l’opera, ma serravano soltanto in una morsa di tormenti infernali quella povera santa, così che la maschera del suo volto contratta nell’urlo era divenuta cianotica e le sue dita artigliavano l’aria…E poi da Rachele si levò un ultimo grido, come l’esplosione estrema di una furia demoniaca, quale non si può lanciare una seconda volta senza morire, quale non si può udire una seconda volta senza perdere la ragione…il figlio di Giacobbe era uscito, il suo undicesimo e il suo primo, venuto fuori dall’oscuro grembo insanguinato della vita, Dumuzi-Absu, il vero figlio dell’abisso”[6].

La  Medea di Seneca pensa di incenerire l'istmo di Corinto e di assumere la ferocia massima negando la propria femminilità:"Per viscera ipsa quaere supplicio viam,/si vivis, anime, si quid antiqui tibi/remanet vigoris; pelle femineos metus/et inhospitalem Caucasum mente indue./Quodcumque vidit Pontus aut Phasis nefas,/videbit Isthmos. Effera ignota horrida,/tremenda caelo pariter ac terris mala/mens intus agitat: vulnera et caedem et vagum/funus per artus " (vv. 40-48), attraverso le viscere stesse cerca la via per il castigo, se sei vivo, animo, se ti rimane qualche cosa dell'antico vigore; scaccia le paure femminili e indossa mentalmente il Caucaso inospitale. Tutta l'empietà che il Ponto o il Fasi hanno visto, le vedrà anche l'Istmo. La mia mente medita dentro di sé malvagità feroci, inaudite, terrificanti, terribili per il cielo parimenti e per le terre: ferite e strage e un cadavere smarrito tra le  membra.

Dopo l’assassinio del primo figlio, Giasone  chiede a Medea di accontentarsi di una sola vittima.
Medea risponde:"Si posset una caede satiari manus,/nullam petisset. Ut duos perimam, tamen/nimium est dolori numerus angustus meo./In matre si quod pignus etiamnum latet,/scrutabor ense viscera, et ferro extraham" (vv. 998-1002), se le mie mani si potessero saziare di una sola uccisione, non ne avrei commessa alcuna. Che ne ammazzi due è comunque un numero troppo piccolo per il mio tormento. Se c'è ancora qualche residuo di figlio nel mio grembo, frugherò con la spada le viscere e lo estrarrò con il ferro. 
Con questa immagine cruenta Medea nega definitivamente il suo ruolo di madre.

Pure Lady Macbeth vuole defemminilizzarsi quando invoca gli spiriti che apportano pensieri di morte:"unsex me here", snaturatemi il sesso ora, e riempitemi dalla testa ai piedi della crudeltà più orrenda (of direst cruelty). Il sangue di cui gronda la tragedia, nel suo corpo deve  addensarsi e chiudere ogni via di accesso al rimorso ( Macbeth, I, 5). Quindi la donna chiama una densa notte che giunga avvolta nel più tetro fumo d'inferno perché il suo pugnale non veda la ferita che produce .
 Poco più avanti questa  creatura atroce immagina l'uccisione di un suo bambino piccolo:"Io ho dato latte: e so quanta tenerezza si prova nell'amare il bambino che lo succhia; ebbene io avrei strappato il capezzolo dalle sue gengive senza denti mentre egli mi avesse guardata in faccia sorridendo e gli avrei fatto schizzare via il cervello, se lo avessi giurato come tu hai giurato questo"(I, 7).
 "La sua voce dovrebbe indubbiamente sollevarsi fino a raggiungere in "schizzar via il cervello", un urlo quasi isterico"[7].

Un altro caso ancora è la Medea del romanzo di Christa Wolf: ella accetta l'identità scomoda che vogliono  attribuirle senza diventare un'assassina: " Non sono giovane, ma pur sempre selvaggia, lo dicono i corinzi, per loro una donna è selvaggia se fa di testa sua. Le donne dei corinzi mi sembrano animali addomesticati, resi con cura mansueti, e mi fissano come un'apparizione estranea…"[8]. Questa Medea non ha ucciso il fratello, né i figli, ma contro di lei è stata messa su una montatura perché ha ficcato il viso a fondo negli arcana del Palazzo:"Medea sarebbe stata accusata di aver ucciso suo fratello Apsirto in Colchide. Ciò avrebbe dato ad Acamante il pretesto per procedere contro di lei, se voleva, dato che non poteva utilizzare il suo vero crimine, l'essersi intromessa in un intimo segreto di Corinto. Noi due del resto, Presbo e io, non ci nascondemmo la nostra gioia maligna per il fatto che anche questa Corinto meravigliosa, ricca, così sicura di sé ed arrogante ha i suoi passaggi sotterranei con segreti profondamente celati"[9].
La Medea della Wolf ha subito calunnie ordite da chi aveva il potere e voleva conservarlo. Apsirto venne fatto uccidere dal loro padre Eeta perché lo richiedeva una tradizione barbarica ineludibile. Medea, in uno degli undici monologhi di cui è composto il romanzo, racconta:" Quando corsi per il campo su cui le donne folli avevano sparpagliato le membra fatte a pezzi, quando corsi singhiozzando per quel campo nell'oscurità che calava e ti raccolsi, povero fratello scorticato, pezzo dopo pezzo, osso dopo osso, allora smisi di credere. Come potremmo mai ritornare su questa terra in nuova forma. Perché le membra di un uomo morto sparse sul campo dovrebbero rendere fertile questo campo" (p. 99).
Anche a Corinto c'è stato un crimine dell'ambizione politica: il re Creonte, come l'Agamennone dell' Ifigenia in Aulide di Euripide, ha voluto, o permesso, l'assassinio della figlia adolescente per lo stesso motivo abbietto: non perdere il potere:"Allora gli dico quello che so: che là, nella caverna, ci sono le ossa di una ragazza, una bambina, quasi, della tua età, fratello. E che sono le ossa della figlia del re, la prima figlia del re Creonte e della regina Merope"[10].
Questa Medea anomala cerca di aiutare la nuova donna di Giasone a scendere "in quell' abisso dove giacciono le immagini del passato" ossia a guardare il rimosso con ricordo dell'uccisione della sorella Ifinoe "la fanciulla sacrificata sull'altare del potere"[11]. Infatti quell'assassinio fu ordinato da suo padre Creonte, il re di Corinto. "In quella voragine dove io mi vidi seduta, molto piccola ancora, in lacrime, inconsolabile, sulla soglia di pietra tra una delle stanze del palazzo e il lungo corridoio gelido. Che camera era, quella sulla cui soglia sedevo, volle sapere, ma io non volevo guardarmi intorno, avevo paura, lei mormorò le sue formule tranquillizzanti, allora fui costretta a voltarmi. Era una camera in cui viveva una ragazza. C'era una cassapanca dipinta con colori meravigliosi, sul letto erano sparsi dei vestiti, su una mensola stava un piccolo specchio incorniciato d'oro, ma nessun segno di chi potesse viverci. Tu lo sai Glauce, disse la donna[12], tu lo sai bene. No gridai, no, urlai, non lo so, come potrei saperlo, è sparita, mai più ricomparsa, nessuno l'ha mai più nominata, anche la camera è sparita, probabilmente mi sono solo immaginata tutto questo, probabilmente non è mai esistita. Chi, Glauce, chiese la donna. La sorella, urlai. Ifinoe"[13].

giovanni ghiselli

il blog è arrivato a 245062






[1] Umberto Galimberti, "la Repubblica" 2 dicembre 2004, p. 15.
[2] Da un’intervista a Claudio Magris compresa in Madri, a cura del Centro Studi  La permanenza del Classico, pp. 225-226.
[3] Parerga E Paralipomena ,Tomo II, pp. 832-833.
[4] H. Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente,  (del 1932) p. 33.
[5] L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720.
[6] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Le storie di Giacobbe, pp. 413- 414.
[7]A. C. Bradley, La tragedia di Shakespeare, p. 403. Qualche pagina prima (370) Bradley scrive: "I versi più terribili della tragedia sono quelli del suo grido raccapricciante "Ma chi avrebbe mai pensato che quel vecchio avesse dentro tanto sangue?" (V, 1).
[8] C. Wolf, Medea, p. 20.
[9] Op. cit., p. 88.  Parla Agameda della Colchide, un'ex allieva di Medea arrivata a odiarla. Acamante è l'astronomo del re di Corinto Creonte. Presbo è un altro Colco divenuto organizzatore dei giochi di Corinto. Sono entrambi amanti di Agameda.
[10] C. Wolf, Medea, p. 108.
[11] Medea, p. 157.
[12] E' Medea che, vittima di un complotto di Stato, e diventata innominabile.
[13] Medea , p. 148. Queste parole fanno parte del monologo di Glauce, figlia del re Creonte e della regina Merope di Corinto.

3 commenti:

  1. Anche questo "pezzo" è splendido, si avverte in te, Gianni, una sensibilità speciale per il mondo femminile. Non tutti i parti sono dolorosi.A ognuno il suo destino anche nella sofferenza generatrice,chi troppo e chi nulla.
    Giovanna Tocco

    RispondiElimina
  2. In Francia ,lo stato, per prevenire la depressione post partum manda (credo con cadenza settimanale)a casa della puerpera una persona per aiutare ed assistere. Quando la prole è considerata un bene della collettività l'atteggiamento sociale cambia. Da noi in Italia i figli mi pare che siano considerati un bene personale delle famiglie , nel bene e nel male. Giovanna Tocco

    RispondiElimina
  3. ha ragione Giovanna: in Italia e in genere nel mondo occidentale, il bambino è un obbligo solo dei genitori, della madre in special modo; dei bambini deve occuparsi tutta la collettività, dalla nascita fino all'adolescenza. Cosa che succedeva un tempo anche qui, come ancora oggi presso culture differenti dalla nostra.
    Personalmente preferirei morire che essere madre, però aiutare le madri coi loro bambini mi ha aiutata a mia volta; è un enorme piacere.
    Maddalena

    RispondiElimina