Alcune parole chiave e loro polivalenza - undicesima parte della Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino
16. Alcune parole chiave. Loro polivalenza.
Importante è
anche la segnalazione delle parole chiave "che caratterizzano una società
in un'epoca data (es. mores maiorum in epoca augustea) o, aggiungiamo,
un movimento letterario o un autore (es. lepos in Catullo)". Tali
parole, aggiunge Anna Giordano Rampioni, "servono per comprendere l'atmosfera
culturale e politica di quel tempo"[1].
Ogni autore del
resto predilige certe parole, e anche noi docenti, e pure ogni studente ha
predilezioni proprie: dai vocaboli che un ragazzo ricorda meglio si può capire
qualche cosa della sua anima.
In greco alcune
di tali parole particolarmente significative possono essere
kovsmo", e il suo antonimo
cavo~, qumov",
novso", ajrethv, a[th, u{bri", fronei'''''n, pavqo", mavqo", novmo", aijdw''",
peiqwv, peivqw, aJndavnw, tovlma, e[rw", e[ri", e{lko" e così via. In
latino segnalo argumentum, mos, fas, fides, amor, foedus,
perfidus, persuadeo, suavis, amicitia, pietas, pudicitia, matrimonium, vitium,
adulterium, audacia vulnus,, ulcus, os, vultus, oculi, cultus, rusticitas,
neglegentia.
Ognuno di questi
termini è suscettibile di spiegazioni ampie e varie, secondo le loro
collocazioni in diversi contesti. Si può iniziare lo studio del lessico e della
morfologia partendo da queste.
16. 1.
L’ambiguità del linguaggio. Secondo Freud l’ambivalenza di talune
parole, come l’aggettivo sacer per esempio, riflette l’ambivalenza
affettiva di certi rapporti umani, soprattutto parentali. Il latino come lingua
della psicoanalisi e come lingua del pudore.
C'è da
aggiungere che proprio attraverso le parole chiave è possibile indicare
l'ambiguità del linguaggio, particolarmente di quello drammatico.
Le parole
cambiano di significato a seconda di chi le pronuncia o del contesto in cui si
trovano, o dell’autore che le usa.
Faccio un
esempio: u{bri" per il Coro
dell'Edipo re , ossia per Sofocle stesso, è la madre dei tiranni (v.
872), per il Creonte dell'Antigone (v. 309) è il misfatto di chi si
oppone alla sua prepotenza tirannica.
"I Greci avevano
diagnosticato la predisposizione verso la hybris, termine che significa
dismisura demenziale", sintetizza Morin[2].
Può avere un significato del genere l’u{bri~
dell’esercito di Alessandro Magno, che tornando dall’India, attraversava
la Carmania: racconta Plutarco che al disordine confuso e disperso della marcia,
costellata di banchetti e bevute ininterrotte, canti, suoni, danze e grida
dionisiache di donne, si accompagnava kai;
paidia; bakcikh'~ u{brew~ (Vita di Alessandro, 67, 6),
anche lo scherzo tipico della sfrenatezza bacchica.
Si può usare un
derivato di u{bri" quale esempio di
transvalutazione lessicale attribuita ai gusti sessuali delle donne. Nelle
Nuvole[3]
di Aristofane il Discorso ingiusto (Lovgo"
a[diko" ) sostiene che Tetide lasciò Peleo perché non era impetuoso (uJbristhv"
, v. 1067) e non era piacevole passare la notte con lui, mentre la donna
gode a essere sbattuta. Qui è notevole il capovolgimento del significato
di u{bri", la prepotenza, che,
applicata alla libidine della donna, diviene un valore.
Un'idea non
tanto peregrina e paradossale: la ritroviamo in Machiavelli:"Io iudico
bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è
donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede
che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano.
E però, sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi,
più feroci, e con più audacia la comandano"[4].
Esiodo
sostiene, in un contesto serio, che nella bassa età del ferro, gli uomini non
onoreranno l’uomo rispettoso del giuramento, il buono e il giusto, ma:“
ma'llon
kakw'n rJekth'ra kai; u{brin-anevra
timhvsousi” (Opere e giorni,
vv. 191-192) piuttosto onoreranno l’operatore di mali e l’uomo violenza.
Secondo Freud
l’ambiguità, o ambivalenza, di talune parole, per esempio l’aggettivo sacer,
deriva dall’ambivalenza di certi rapporti umani.
In
Totem e tabù l’inventore della psicoanalisi scrive che “tabù è un
vocabolo polinesiano” di traduzione difficile in tedesco, ma equivalente in modo
esatto al latino sacer. Quindi aggiunge: “Anche l’a[go~
dei greci e il kodausch (kadosch)
degli ebrei deve avere avuto lo stesso significato del tabù per i polinesiani…I
divieti tabù più antichi e più importanti sono i due princìpi fondamentali della
legge totemica: non uccidere l’animale totemico e fuggire il rapporto sessuale
con individui di sesso diverso appartenenti allo stesso totem…L’uomo che ha
violato un tabù, diventa egli stesso tabù in quanto possiede la pericolosa
capacità di indurre gli altri a seguire il suo esempio”[5].
Il latino e il greco sono anche lingue della psicanalisi.
Il latino è pure la lingua del pudore: lo
stesso Freud usa termini come
fellatio[6]
che permette di menzionare questo atto sessuale senza cadere nell’indecenza.
L’esogamia dunque
venne imposta all’orda primigenia dal padre che, in seguito a una rivolta della
banda dei figli, aizzati e guidati da uno di loro, “il caporione”, venne
ammazzato e sostituito simbolicamente con l’animale totemico. Questo poi fu
alternatamente venerato e ucciso per essere mangiato nel pasto totemico[7]
cui è succeduta la comunione cristiana. Ebbene l’ambivalenza della parola
sacer rifletterebbe l’ambivalenza del rapporto tra il padre e i figli: “L’imperio
dell’esogamia, la cui espressione negativa è l’orrore dell’incesto, si fondava
sulla volontà del padre e continuò questa volontà dopo il parricidio. Di qui
l’intensità del suo tono affettivo e l’impossibilità di una fondazione
razionale, cioè il suo carattere sacro. Siamo fiduciosi che l’esame di tutti gli
altri casi di divieto sacro condurrebbe allo stesso risultato del caso
dell’orrore dell’incesto, e cioè che in origine il sacro non è altro che la
prosecuzione della volontà del padre primigenio. Con ciò si farebbe anche un po’
di luce sull’ambivalenza, finora incomprensibile , delle parole che esprimono il
concetto di sacro. E’ la stessa ambivalenza che domina in genere il rapporto con
il padre. “Sacer” significa non solo “sacro”, “consacrato”, ma anche
qualcosa che possiamo tradurre soltanto con “infame”, “esecrando” (“auri
sacra fames”[8]).
Tuttavia la volontà del padre non era soltanto qualcosa di intoccabile, qualcosa
da tenere altamente in onore, ma anche qualcosa di fronte a cui si tremava,
perché esigeva una dolorosa rinuncia pulsionale ”[9].
Interessanti a
proposito dell’ambiguità delle parole le osservazioni di E. Benveniste
sulla radice indoeuropea *do- . Essa "significa 'dare' nell'insieme delle
lingue indoeuropee. Tuttavia, a turbarne singolarmente la definizione,
interviene una lingua: in ittita, da- significa 'prendere' e pai-
'dare'...Le nozioni di 'dare' e 'prendere' sono quindi legate nella preistoria
indoeuropea". Allora "l'ittita, che dà alla radice *do- il senso di
'prendere', invita a considerare che in indoeuropeo 'dare' e 'prendere' si
ricongiungono, per così dire, nel gesto (cfr. ingl. to take to 'prendere
per dare a' )"[10].
Nella
Germania di Tacito, a chiarimento di dotem, troviamo munera
ripetuto in anafora. Munus è un altro sostantivo che significa il dovere
del contraccambio ribadito dal successivo invicem. Benveniste segnala il
legame (attraverso la radice indoeuropea *mei-) con mutuus
(reciproco): anche questi termini fanno parte di " una grande famiglia di parole
indoeuropee che, con suffissi vari, marcano la nozione di reciprocità"[11].-
“Non a caso la
nozione di dono è caratterizzata da un’ambiguità semantica dovuta al fatto che
la radice “dō” significa dare o prendere a seconda del contesto d’intenzione dei
parlanti. Nelle antiche lingue anglosassoni il termine gift significava
dono ma anche veleno: proprio come la mela di Biancaneve. Gift in tedesco
conserva principalmente il significato di veleno, in inglese quello di dono e in
olandese mantiene entrambi i significati”[12].
Giovanni
Ghiselli
[1] A. Giordano Rampioni, Manuale per l'insegnamento
del latino nella scuola del 2000 , p. 95.
[2] L'identità umana, p. 102.
[3] Del 423 a. C.
[4] Il Principe, 24.
[5] S. Freud, Totem e tabù (del 1913), p. 33 e
pp. 51-52.
[6] Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci,
del 1910, in Psicoanalisi del genio della Newton Compton ( p.
166).
[7] Cfr. S. Freud, L’uomo Mosè e la religione
monoteistica, terzo saggio, p. 408.
[8] Eneide, III, 57, maledetta fame dell’oro.
Ndr.
[9] S. Freud, L’uomo Mosè e la religione
monoteistica, terzo saggio, pp. 438-439.
[10]
E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee , trad. it. Einaudi, Torino, 1976, pp. 59 e 60.
[11]
E. Benveniste, op. cit., p. 141.
[12] A. Segrè, Economia a colori, p. 98.
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