il Castello Superiore di Marostica |
La “buona” scuola va
avanti nonostante le proteste del paese. Io procedo nel racconto
dell’accoglienza che ricevetti dal mio primo preside, non il peggiore del resto
tra tutti i presidi della mia vita. Nemmeno il migliore a dire il vero, ma
certamente un personaggio esemplare del fatto che molti dirigenti scolastici, quasi
tutti credo, non hanno gli strumenti per giudicare la preparazione e
l’efficienza degli insegnanti, in particolare di quelli che impiegano la
maggior parte del loro tempo studiando.
“Mi dia un’aula qua dentro - gli dissi - una stanza un po’
soleggiata. La scuola sta per finire ma i ragazzi vogliono continuare a
studiare con me fino all’esame. ”
“Non voglio che lei qui faccia un club”, rispose. “ Lei, le
ragazze può vederle solo di mattina durante il suo orario. Altrimenti si
aspetti una censura. La sto preparando”
“Ho capito” conclusi. “Ho sentito”.
Poi mi sottrassi al suo occhio cattivo che mi aveva fissato
con una luce di sinistro bagliore.
Continuai a fare lezione alle ragazzine e ai ragazzini non
solo dentro la scuola media Ugo Foscolo, ma anche nel prato di Marostica e nel
piazzale davanti alla scuola dove c’erano i tavolini del “bar ristorante
albergo Centrale”.
Lui non mandò la censura, non a me almeno, però mi punì con
la qualifica: mi diede “valente” invece dell’ovvio “ottimo” riscosso da tutti
gli altri. Un giudizio politico, del tutto iniquo.
Io non gli permisi di cambiarmi strutturalmente né di
domarmi, però mi lasciai fuorviare dal disgusto che mi diede, e per un paio di
anni studiai poco facendo lezioni mediocri, ripetendo i luoghi comuni dei
manuali e annoiando sia me stesso sia gli allievi.
Allora il preside, credendo che mi fossi normalizzato e
inquadrato, mi diede “ottimo” come a tutti gli altri.
Solo nel 1974, quando avevo già fatto un paio di
abilitazioni e avuto l’incarico per la superiori, sei mesi prima di trasferirmi
a Bologna, ricominciai a studiare e a fare lezioni egregie per gli scolari di
Carmignano. Negli anni dell’imbarbarimento culturale ero stato infelice, accoppiato
male con una donna adatta al mio ozio e alla mia degradazione. Trascorrevo quei
giorni sciagurati tra micrologiche ciance, mangiate, bevute, e indifferenza per
tutto il creato e le belle creature.
Ma torniamo alla prima mattina di Carmignano. Dopo il
telegramma kafkiano, salii nella mia Mini Minor e la misi in movimento per
andare a vedere i dintorni del borgo dove senza saperlo ero destinato a
rimanere per cinque anni. Fermai l’automobile al ponte di Tezze sul Brenta
attirato dall’acqua del fiume che rifletteva la santa faccia del sole e il
campanile della chiesa di quel paese. Mi fermai a fissare lo scorrere
dell’acqua come facevo a Moena da bambino. Era più lenta di quella dell’Avisio
ma non meno limpida. “Forse anche questa - pensai - scende dalle mie montagne
di forma umana”. Sul greto sassoso andavano e venivano due cacciatori con cani
che correvano freneticamente su e giù. Erano due animali snelli, muscolosi, vitali.
Cercavano qualcosa. Anche io. Dovevo trovare la mia parte di uomo nella vita
perché quella di ragazzo l’avevo già recitata tutta.
“La parte la dà il regista, Dio stesso” pensai, “ma io devo
recitarla bene”
Entrare nel ruolo nuovo e interpretarlo con arte. Non dovevo
lasciarmi scoraggiare e debilitare dai tangheri. L’acqua era trasparente. Si
potevano contare le pietre sommerse. “Come un sasso che l’acqua tira giù”[1]. La
contemplavo pregando in silenzio: che mi aiutasse a purificarmi dalle debolezze,
a liberarmi dai terrori, e trascinasse via le persone ottuse, disoneste, che, al
pari di fango informe, di mota e liquame osceno cercavano di imbruttire la mia
intelligenza, di ottundere e ammorbare la mia vitalità, di inquinare la mia
naturale schiettezza.
Il sole galleggiava nel fiume come un canotto purpureo e
rosseggiava in cima al campanile come quella famosa mela o ragazza di Saffo, troppo
elevata per essere còlta.
Poi ripartii e salii al castello di Marostica che avevo
notato dal ponte. Era circondato da voli di rondini ritardatarie. All’epoca in
certi campi ero in ritardo anche io. Però potevo rifarmi. Le foglie dei tanti
ciliegi erano vizze ma verdi, si pure di un verde ormai spento; i pampini delle
viti erano arancioni o purpurei come il sole riflesso dall’acqua del Brenta. Aleggiava
una malinconia dolce. Finiva un’era per me. Il giorno dopo avrei iniziato
quella del professore. Il preside mi aveva assegnato una prima e una terza. Dovevo
essere una guida per i ragazzi. Io non potevo più essere soltanto un ragazzo.
“La morte non esiste”, pensai. “L’acqua dei fiumi scorre su
questa terra da milioni di anni. Se sarò bravo con i miei allievi, se sarò una
buona guida, continuerò a vivere nelle loro azioni, nei loro pensieri e in
quelli dei loro figli e dei figli dei loro figli, nei secoli dei secoli e così
sia. Continuerò ad aleggiare qui sulla terra, anche dopo che mi avranno messo
sotto la terra”.
Sei mesi più tardi, in quel castello di nuovo incoronato da
voli di rondini, su quel prato dal verde vivacizzato, screziato da fiori
bianchi caduti volteggiando dai lisci, neri ciliegi, come in una notte d’estate
cadono in scivolata le stelle nei golfi sacri dell’Ellade e invece di
inabissarsi spente nell’imo, galleggiano trasformate in luccicanti barche da pesca[2], su
quel prato verdissimo e rifiorito dunque, avrei portato i miei allievi contenti,
contento anche io di parlare, di correre, di giocare con loro nel sole vivo e
nell’aria brillante della nuova stagione, felice di comunicare la mia gioia di
vivere con l’umanità rigogliosa degli adolescenti.
Mi vedo in una fotografia dell’ultimo giorno di scuola, il
12 o il 13 giugno del 1970.
Io, Peppino Graziani e i nostri allievi siamo allineati di
fianco alla mastodontica chiesa di Carmignano, davanti a una grande quercia
frondosa, profetica, alata. Come quelle che avrei sentito stormire a Dodona. Tutto
nel sole di giugno brilla: il muro del tempio, le nostre facce abbronzate, i
grembiuli neri delle ragazzine e anche l’ombra dell’albero gigante, dalle ampie
ali. Ho l’aria soddisfatta. Sono elegante, armonioso. Ho i lineamenti marcati
ma fini, come la mamma etrusca, come le zie. Sono bello. Sentivo di avercela
fatta a diventare un educatore piuttosto che un impiegato alla Zanini.
Però mi mancava qualcosa: il vivido pathos degli occhi pieni
di luce di una splendidissima femmina umana.
In quel motel mi era mancata molto una donna, un’amante.
Ma nessuna delle colleghe mi era piaciuta. Non che sognassi
attrici e principesse, ma trovavo del tutto antieroica e antierotica la loro
bramosia di accasarsi prima che fosse troppo tardi per loro. Anni dopo avrei
considerato molto più interessanti le colleghe sposate ansiose di trovare un
amante occulto e clandestino.
Avrei trovato erotica, se non eroica, la complicità con
quelle mogli infedeli. Voglio dire che la stoffa idealistica e missionaria l’ho
indossata sempre studiando e insegnando, ma in altri campi non ho disdegnato
altre maschere per recitare altri ruoli. Criterio non eludibile è stato sempre
quello di non danneggiare la vita: la mia e quella degli altri.
Finita la scuola e gli esami, partii per l’Università estiva
di Debrecen, con la volontà risoluta di fare del gran sesso, una scorpacciata
di sesso, roba ghiotta e possibilmente non indigesta. Durante il viaggio
cantavo: “Come un sasso che l’acqua tira giù. /La mia libertà non finisce qua”[3]. Non è
ancora finita e non credo che finirà prima di questa mia vita meravigliosa di
cui sono grato a chi me l’ha data. Così concludo il capitolo Carmignano di
Brenta ringraziando la mamma, il babbo e il buon Dio.
giovanni ghiselli
il blog giovanni ghiselli blog ha superato i 250 mila
contatti in 877 giorni alla media di 285 lettori al giorno. Ringrazio anche
loro. Saremo 300 mila entro l’anno 2015. Lo spero.
Bella conclusione, approvo.
RispondiEliminaComplimenti per il blog!
alessandro
Concordo con Alessandro. Giovanna Tocco
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