Atlantide |
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Capitolo XVII (pp. 111-118)
L’arte dionisiaca dà una consolazione metafisica che ci
strappa al congegno delle forme mutevoli. Noi superiamo la nostra individualità
e, come il poeta lirico, ci identifichiamo con quell’unico essere vivente e
comprendiamo la necessità dell’annientamento delle apparenze data la
sovrabbondanza delle forme che si urtano e si incalzano alla vita. Nella
tragedia gli eroi parlano più superficialmente di quanto non agiscano, come
Amleto del resto.
I Greci sono, come dicono i sacerdoti egizi, gli eterni
fanciulli e nell’arte tragica non sanno quale sublime giocattolo sia nato nelle
loro mani.
Lo racconta Platone
nel Timeo.
Quando Solone era in Egitto, un sacerdote molto vecchio gli
disse: “Solone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un Greco vecchio non esiste:
“ \W
Sovlwn, Sovlwn, {Ellhne" ajei;
paidev" ejste, gevrwn d j {Ellhn oujk e[stin (22b).
Essi non hanno
ricordo delle vicende più antiche a causa dei diluvi che periodicamente ne
sconvolgono la civiltà. Il diluvio celeste lascia sopravvivere solo gli ignari
di lettere e di Muse, sicché si perde il ricordo dei tempi antichi.
Storicizzando i diluvi, possiamo dire che la vittoria della
barbarie spazza via la classe colta. Si pensi ai nobili rimproverati da Augusto
perché non si sposavano e non facevano figli.
Gli Ateniesi novemila anni prima avevano le stesse leggi
degli Egiziani e si opposero all’imperialismo di Atlantide ma poi ci fu una
catastrofe per la quale i guerrieri di Atene sprofondarono dentro la terra e
Atlantide fu assorbita dal mare (Timeo,
25d).
Nel Crizia sono descritte Atlantide e Atene
come città rette da dèi: la prima da Posidone, Atene da Atena ed Efesto. In
Atlantide però si estinse l’elemento divino ed essa diventò gonfia di
ingiustizia e di prepotenza (121b). Allora Giove, compresa la degenerazione
della stirpe, decise di punirla.
La tragedia dunque dopo Euripide sparisce ma la concezione
dionisiaca del mondo sopravvive nei misteri. Fu l’ottimismo della scienza a
uccidere la tragedia e la scienza deve raggiungere i limiti estremi perché la
tragedia rinasca.
Cfr. Il Prometeo
incatenato di Eschilo, il Frankestein di Mary Shelley e La coscienza di Zeno di Svevo.
La scienza uccide il
mito e senza mito non c’è poesia. Il nuovo ditirambo attico presentava una
musica che riproduceva non la volontà stessa ma l’apparenza.
Era una musica intimamente degenerata. Aristofane colse nel
segno riunendo nello stesso sentimento di odio Socrate, Euripide e i nuovi
ditirambi attici la cui musica era ridotta in maniera scellerata a immagine imitatoria
dell’apparenza e fu privata della sua forza creatrice di miti. Con il nuovo
ditirambo la musica è divenuta una meschina immagine dell’apparenza, più povera
dell’apparenza stessa.
Allora una battaglia diviene rumore di marcia e clangore di
segnali. La musica è diventata schiava dell’apparenza. Euripide che aveva una
natura non musicale era partigiano della nuova musica ditirambica.
Con Sofocle inizia l’affermarsi della rappresentazione dei
caratteri e della raffinatezza psicologica. Il carattere non è più un tipo
eterno e lo spettatore non sente più il
mito ma la verità naturalistica e la forza di imitazione dell’artista. C’è il
piacere e il gusto del singolo preparato anatomico. Sofocle per lo meno dipinge
ancora caratteri interi. Euripide dipinge solo grandi tratti caratteristici che
si rivelano in violente passioni; nella commedia attica nuova ci sono soltanto
maschere con una sola espressione: vecchi frivoli, lenoni gabbati, schiavi
scaltri in instancabile ripetizione. La musica diventa uno stimolante per nervi
ottusi e consunti o musica descrittiva.
L’Edipo a Colono di
Sofocle però mostra ancora nel modo più puro l’accento di una conciliazione
proveniente da un altro mondo. Ismene
dice al padre: nu`n ga;r qeoiv sj
ojrqou`si, provsqe d’ w[llusan
(394)
Ma dopo Sofocle non c’è più consolazione metafisica, bensì
l’eroe che fa un buon matrimonio o, come il gladiatore, viene prima scorticato
poi riceve la libertà. E al posto della consolazione metafisica subentra il
deus ex machina.
La consolazione metafisica degenera in culto segreto. La serenità greca diventa
voglia di vivere senile e improduttiva. L’aspetto più nobile di questa tarda
serenità è la serenità dell’uomo teoretico che dissolve comunque il mito e
utilizza il dio delle macchine e dei crogiuoli.
E’ il credere a una
correzione del mondo per mezzo del sapere , credere a una vita guidata dalla
scienza. Una canuta o calva assennatezza.
Capitolo XVIII (pp. 118-124)
Ci sono tre gradi di illusione: quello socratico della
conoscenza, quello dell’arte e la consolazione metafisica per cui la vita
eterna continua a fluire indistruttibile sotto il vortice dei fenomeni. Sono le
nature più nobilmente dotate che cercano queste illusioni. Costituiscono la
cultura e, a seconda delle proporzioni o delle mescolanze, abbiamo una cultura
socratica o artistica o tragica, o, con esemplificazioni storiche, una
cultura alessandrina o ellenica o buddhistica.
Socrate è il prototipo della cultura alessandrina e
dell’uomo teoretico dotato di grandi forze conoscitive e posto al servizio
della scienza (p. 119)
L’uomo di cultura diventa un personaggio erudito.
Faust si precipita attraverso tutte le discipline dedito
alla magia e al diavolo per brama di sapere, ma è insoddisfatto ed è l’uomo
moderno che comincia a sentire i limiti di quel piacere socratico per la
conoscenza e dal vasto mare del sapere anela a una costa (p. 120).
Per l’uomo moderno, l’uomo non teoretico è qualcosa di
incredibile e di stupefacente, tanto che Goethe scrisse a Eckermann a proposito
di Napoleone: “Sì, mio caro, c’è anche una produttività nelle azioni”.
La cultura alessandrina ha bisogno, per durare, di una
classe di schiavi di cui del resto nega la necessità, e va incontro alla
distruzione quando questa classe barbarica di schiavi ha imparato a considerare
la sua esistenza come un’ingiustizia. Le grandi nature capiscono i limiti
della conoscenza e della scienza. Kant e
Schopenhauer hanno sconfitto l’ottimismo che si cela nella logica. Tale
ottimismo si appoggia su aeternae
veritates che crede insospettabili e crede nella conoscibililità di tutti
gli enigmi del mondo e considera lo spazio, il tempo, la causalità quali leggi
assolute, mentre Kant le considera strumenti - (forme a priori della sensibilità umana Critica
della ragion pura (1781,
in originale Kritik der reinen Vernunft) - dell’apparenza elevata a suprema
realtà al posto della vera essenza delle cose rendendo questa in conoscibile e,
come dice Schopenhauer, addormentando ancora più profondamente uno che sogna.
La cultura tragica eleva a meta suprema non la scienza ma la
sapienza che, diversamente dalle scienze,
guarda l’immagine totale del mondo e ne raccoglie l’eterna sofferenza
come sofferenza propria (p. 122)
To;
sofo;n d j ouj sofiva (Baccanti, v. 395): La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica:" la sua
principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della
scienza, la sapienza". La sapienza
si tuffa nel fiume della vita. La scienza al contrario è il fine
dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile
fiume dell'esistenza: angosciosamente
egli corre su e giù lungo la riva"[1]
.
“La scienza lavora
incessantemente a quel grande colombario dei concetti, cimitero delle
intuizioni”[2].
Cfr. la grammatica
grande sepolcreto delle regole e delle eccezioni, cimitero della lingua e della
letteratura.
“Vi sono coloro che promettono di risolvere una questione
come quella omerica, prendendo spunto dalle preposizioni, e credono di tirar su
la verità dal pozzo servendosi di ajnav
e katav. (Sull’avvenire delle nostre scuole, 1872, p. 71)
“All’idea di
classicità, Nietzsche sostituisce in definitiva quella di tragicità: la civiltà
greca non è una civiltà classica ma piuttosto una civiltà tragica”[3].
Vale la pena di
riferirne anche l'esegesi di T. Mann:"A
questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza
e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso"[4].
Su questa opposizione sapere/sapienza riferisco, di seconda mano, Eliot che
pure è uno dei miei massimi maestri:"Eliot affermava:"Qual è la
conoscenza che noi perdiamo nell'informazione e qualè la sapienza (wisdom)
che perdiamo nella conoscenza?"[5].
Interessante a questo proposito è un elogio dello stupore di H.
Hesse:"Per stupirci siamo qui!" dice un verso di Goethe. Tutto inizia
con questa stupefazione e con essa termina, tuttavia non è un cammino vano. Sia
che io ammiri un musco, un cristallo, un fiore, un maggiolino d'oro, sia che
guardi un cielo solcato dalle nuvole, un mare con il pacato gigantesco respiro
della sua risacca, l'ala di una farfalla con la trama ordinata delle sue
costole vitree…in quello stesso istante io ho abbandonato e dimentico il mondo
avido e cieco dell'umana necessità e, anziché
pensare a comandare, acquistare, sfruttare, combattere o organizzare, non
faccio altro, per quell'istante, che provare la "stupefazione"
goethiana e, contemporaneamente, non divengo solo fratello di Goethe e
di tutti i poeti e saggi, ma sono anche fratello del cosmo vivente che
contemplo e sperimento: della farfalla, del coleottero, della nuvola, del fiume
e del monte. Percorrendo la via dello stupore, sono infatti sfuggito per un
attimo al mondo delle differenziazioni e sono entrato in quello dell'unità,
dove ogni cosa o creatura dice all'altro: Tat
twam asi ("Sei Tu")...non vogliamo lamentarci che nelle nostre
università non si insegni a percorrere le strade più semplici per conseguire la
saggezza e che, al posto dello stupore, si insegni l'esatto contrario: a
contare e a misurare invece che perdersi nell'estasi, l'oggettività invece
della malia, il rigido attenersi alle differenziazioni anziché subire
l'attrazione del Tutto e Uno. Le
università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere, ma
tacitamente postulano come conosciuto ciò
che esse non possono insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione
goethiana, e i loro spiriti migliori non conoscono altra finalità più
nobile che costituire un altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si
manifestino di nuovo"[6].
Seneca sostiene che la sapienza è
l’unica libertà: “Sapientia quae sola libertas est”[7].
Il sapere non vale
nulla, non è sapienza quando non riconosce sopra di sé il sacro e il divino che inspiegabilmente lega"con amore in
un volume ciò che per l'universo si squaderna". Agostino afferma: “Ecce pietas est sapientia”[8].
E' il caso di Edipo re che crede di azzeccarci con l'intelligenza
senza avere imparato nulla dagli uccelli ("gnwvmh/
kurhvsa" oujd& ajp& oijwnw'n maqwvn", v. 398) e
fallisce. "Coloro che hanno interpretato l'Edipo re secondo il modulo
della "tragedia di conoscenza" hanno postulato che Sofocle abbia
voluto rappresentare due tipi di conoscenza differenti per mezzi e possibilità,
dal cui incontro-scontro risulterebbe il senso stesso del dramma. Si è parlato
di un "sapere umano" e un "sapere divino"[9],
di una conoscenza umana sensitiva e fondata sull'apparenza ed una conoscenza
divina vera, cioè dovxa e ajlhvqeia, illusione e saggezza[10].
Edipo sulla scena sofoclea rappresenterebbe l'uomo raziocinante che si basa
sulla conoscenza dei sensi e del proprio intelletto e che agisce di
conseguenza, ma le coincidenze degli eventi fanno sì che alla fine tutte le sue
costruzioni intellettuali si rivelano fallaci, mentre il sapere degli dei,
incontrollabile e spesso incomprensibile per gli uomini, risulta essere l'unico
sapere veritiero...In realtà, quello di Edipo non è un generico "sapere
umano", ma rappresenta allusivamente il sapere di alcune correnti di
sapere razionalistiche dell'epoca, e analogamente non si deve parlare tanto di
generico "sapere divino", quanto piuttosto di sapere oracolare
delfico, con le sue peculiari modalità espressive e celebrante un dato sistema
di valori etici"[11].
Insomma la gnwvmh è
fallace e gli uomini non possono comprendere tutto. Non solo le vie della
divinità sono imperscrutabili ma anche quelle dell'incoscio.
Il motivo antiintellettualistico, ricorrente nell'Edipo,
avrà un'infinità di riprese: da Euripide, il "filosofo della scena",
quando giunge alla stanchezza postfilosofica delle Baccanti , al movimento dello Sturm
und Drang ("il mio cuore-annota Werther il 9 maggio 1772-è l'unica cosa della
quale sono superbo...Quello che io so, lo può sapere chiunque, ma il mio cuore
lo possiedo io solo". ), fino a Elias Canetti il quale in La provincia dell'uomo afferma che "L'ignoranza non deve
impoverirsi con il sapere...Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda
che prima dormiva appiattata...Le sole risposte inaridiscono il corpo e il
respiro"(pp. 1600-1601).
E' il profeta a nutrire la forza della verità (Edipo re, v.356) che non è potenza
economica né militare, ma nemmeno cerebrale, anzi è consapevolezza dei limiti
angusti che racchiudono le nostre facoltà intellettive.
Nell'episodio di Aconzio
e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia, poi imitata da Ovidio nelle Heroides
(XXI lettera: Cidippe ad Aconzio) il poeta di Cirene afferma che
l'ampiezza e la varietà del conoscere è un bene soltanto se conferisce a chi lo
possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" il molto sapere è un grave male, per chiunque non è
padrone
della lingua: è proprio come per un bambino avere un
coltello"(fr.75 Pf, vv. 8-9).
L’uomo della cultura tragica è un uccisore di draghi che si
lancia verso l’immenso, volge le spalle alle mollezze dell’ottimismo e desidera
un’arte nuova, l’arte della consolazione metafisica e la tragedia come l’Elena
che spetta a lui.
Tale uomo grida con Faust
“E non dovrei, con la più anelante violenza
Trarre in vita la forma unica fra tutte?”
L’uomo teoretico si spaventa delle conseguenze da lui
prodotte e non osa più affidarsi al terribile fiume ghiacciato dell’esistenza
ma corre su e giù lungo la riva. La concezione ottimistica l’ha rammollito.
L’uomo moderno teoretico rimane l’eterno affamato, il critico senza piacere e
senza forza, l’uomo alessandrino che è in fondo un bibliotecario e un
emendatore che si accieca miseramente sulla polvere dei libri e sugli errori di
stampa. (p. 123)
"La cultura comincia proprio dal punto in cui sa
trattare ciò che è vivo come qualcosa di vivo"[12].
“L’artista tragico non è pessimista-dice appunto sì a ogni
cosa problematica e anche terribile, è dionisiaco” (Crepuscolo degli idoli o come si filosofa col martello, 1888, p. 22)
“Giacché soltanto nei misteri dionisiaci, nella psicologia
dello stato dionisiaco si esprime il fatto fondamentale dell’istinto
ellenico-la sua “volontà di vivere”. Che cosa si garantivano i Greci con questi
misteri? La vita eterna, l’eterno ritorno della vita…il trionfante sì alla vita
oltre la morte”[13].
Wille zum Leben,
volontà di vivere.
continua
[1]
La nascita della tragedia , p. 122 e
p. 123.
[2]
G. Vattimo, Op. cit., p. 159.
[3]
G. Vattimo, Op.cit., p. 69.
[4]
T. Mann, Nobiltà dello Spirito, p. 814.
[5]
E. Morin, op. cit., p. 45.
[6]H.
Hesse, La bellezza della farfalla , in Hesse L'arte dell'ozio , pp. 401-402.
[7]
Seneca, Ep., 37, 4.
[8]
Confessiones, 5, 5, ecco la sapienza
è pietà.
[9]Diller
1950.
[10]Cfr.
su questa linea soprattutto Reinhardt 1933, trad. it. pp. 111-52; Bowra 1944,
p. 162-211; Champlin 1969.
[11]G.
Ugolini, Sofocle e Atene , p. 161.
[12] F. Nietzsche, Sull'avvenire
delle nostre scuole, 1872, p. 43.
[13]
Crepuscolo degli idoli, p. 128.
Troppo bello. Stampo e studio. Giovanna Tocco
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