NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 6 novembre 2015

Nietzsche, "La nascita della tragedia", VIII parte

Socrate

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Capitolo XIV (pp. 93-98)

L’unico grande occhio ciclopico di Socrate puntò la tragedia. Un occhio privo dell’ardente follia dell’entusiasmo artistico. Che cosa poteva trovare quell’occhio in quella solenne e mirabile forma di poesia che è la tragedia come la chiama Platone nel Gorgia? (hJ semnh; kai; qaumasthv, hJ th`~ tragw/diva~ poihvsi~, 502b)
Quell’occhio vi trova “qualcosa di assolutamente irrazionale; inoltre il tutto era così variopinto e vario che a un’indole assennata doveva riuscire ripugnante, mentre per le anime eccitabili e sensibili era una miccia pericolosa” (p. 93)
L’unico genere che fosse da lui compreso era la favola esopica  che può dire la verità con un’immagine a chi non possiede molto intelletto.
L’arte tragica secondo Socrate non dice nemmeno la verità siccome è un’arte lusingatrice. Dunque bisognava rimanervi lontani in quanto antifilosofica.  Questo insegnava Socrate, in modo che il giovane Platone per poter diventare suo discepolo per prima cosa bruciò la sue poesie.

Nella Repubblica Platone compila un indice dei libri e dei passi proibiti
 Bisogna plasmare (plavttein) il giovane quando ejnduvetai tuvpo~ (377b) si imprime l’impronta che ciascuno deve portare addosso. I miti del resto non sono tutti buoni. Allora bisogna soprintendere ai compositori di miti ejpistathtevon toi`~ muqopoioi`~ e scartare quelli non buoni.
Vanno rigettati quelli falsi narrati da Omero, Esiodo e altri poeti quando raffigurano malamente la natura degli eroi , come un pittore (w{sper grafeuv~, 377e) che dipinge immagini non somiglianti al vero. Esiodo nella Teogonia racconta di castrazioni e tecnofagia di dèi al tempo di Urano e Crono e del giovane Zeus. Anche se fossero vere queste storie non andrebbero raccontate ai giovani. Al massimo si potrebbe dirlo a pochissimi dij ajporrhvtwn, per via misterica, in segreto, sacrificando non un porco ma una vittima grande e mal procurabile in modo che pochissimi odano.
Questo è collegabile all’esclusione del mito da parte di Tucidide (I, 22)
Quindi bisogna mettere nell’indice dei miti proibiti gigantomachie e contese di eroi e dei con i loro congiunti e familiari. Le battaglie tra gli dei raccontate da Omero  con allegoria (ejn uJponoivai~,) o senza (a[neu uJponoiw`n, 378d)  non bisogna ammetterle ouj paradektevon. Il giovane infatti non è capace di distinguere quello che è allegoria -ujpovnoia-  da quello che non lo è, e quanto gli si imprime nell’anima a quell’età è difficilmente cancellabile. Allora i miti insegnati devono essere buoni. La divinità è buona e come tale va raffigurata 379b.
Quello che è buono non è nocivo. Le cose cattive e nocive non vengono dalla divinità. Allora non bisogna accettare Omero quando scrive che sulla soglia di Zeus sono piantati due vasi (pivqoi) uno con doni cattivi, l’altro con quelli buoni (Iliade, 24, 527-528). Achille dice a Priamo che suo padre e lui , il re di Troia hanno avuto beni e mali mescolati. Altri hanno avuto solo i mali.
Questo dunque non è accettabile. Quindi Platone indica altri passi dell’Iliade da censurare (la violazione della tregua compiuta da Pandaro istigato da Atena (IV, 93 sgg.) e XX, 20 sgg. Quando Zeus convoca gli dèi attraverso Temi e dà loro il permesso di aiutare Greci o Troiani, secondo il volere di ciascuno. Lui, Zeus stesso, diletterà la sua mente osservando (20, 23)  
Anche Eschilo va censurato per dei versi della Niobe (fr. 156 Nauck) che attribuiscono a dio il fatto di suscitare una colpa per annientare una stirpe. (Ma cfr. il primo canto dell’Odissea 32 sgg.). 
Non si devono permettere tali calunnie contro gli dèi, a meno che si chiarisca  che i puniti traggono giovamento dalla punizione (oiJ  wjnivnanto kolazovmenoi, 380b) e che gli dèi fecero cose buone e giuste. 
Altrimenti oujk ejatevon levgein, non bisogna permettere di dire in quanto la divinità è buona e non può fare il male. Ella è causa solo del bene.
La deduzione della bontà del creato dalla bontà del creatore si trova, com’è noto, nel Timeo  di Platone : se il cosmo è bello (eij me;n dh;  kalovς ejstin o{de oJ kovsmoς) l’artefice è buono (o Jdhmiourgo;ς ajgaqovς). 
 Il demiurgo, il migliore degli autori  (a[ristoς tw'n aijtivwn), ha guardato al modello eterno (pro;ς to; ajivdion e[blepen). Sicché il cosmo è la più bella tra le cose nate (kavllistoς tw'n gegonovtwn 29a).
Il demiurgo dunque era buono e chi è buono non prova invidia. Egli ridusse il disordine all’ordine (29d)
Seneca aggiunge: “quaeris quod sit propositum deo? Bonitas. Ita certe Plato ait: “quae deo faciendi mundum fuit causa? Bonus est: bono nulla cuiusquam boni invidia est; fecit itaque quam optimum potuit” (Ep. 65, 10). Lo scopo di Dio è la bontà.

Il dio inoltre non muta forma e quindi i poeti non devono scrivere quello che Omero attribuisce ad alcuni proci che rimproverano Antinoo il quale ha insultato Odisseo travestito da mendicante e lo ha colpito con uno sgabello. Questi pretendenti dicono che quel ramingo infelice potrebbe essere un nume del cielo: spesso gli dèi girano per le città camuffati per vedere i soprusi o la giustizia degli uomini (17, 482-487).  Non è vero che gli dèi si trasformano  Certe madri raccontano fandonie su dèi che si aggirano di notte per rendere più vili i figlioli.
La menzogna è odiata dagli uomini e dagli dèi. La divinità non ha nessun motivo per mentire. Il demonico e il divino è assolutamente fuori dalla menzogna: “Panth/ a[ra ajyeude;~ to; daimovniovn te kai; qei`on” (Repubblica, 382e). Il dio è semplice e verace oJ qeo;~ aJplou`n kai; ajlhqev~ nelle parole e nelle opere e non si muta né inganna con segni o con sogni.
Cfr. Achille nell’Ifigenia in Aulide  926-927) o l’idiota di Dostoevskij.
 
Dunque pur lodando Omero su molti punti, non lo loderemo quando racconta del sogno ingannevole mandato da Zeus ad Agamennone in Iliade II  (Repubblica, 383).
Il dio chiama  Sogno funesto (ou\lon  { Oneiron, II, 6) e gli ordina di dire ad Agamennone che è giunta l’ora di prendere l’ampia città.
Né si può approvare Eschilo quando in un’altra tragedia, forse Il giudizio delle armi, rappresenta Teti che accusa Apollo di menzogna: alle nozze di lei aveva cantato la sua felicità, poi è stato proprio quel dio ad ammazzargli il figliolo (fr. 350 Nauck).
Perciò a tali opere non si deve concedere un coro, né vanno lette nelle scuole (Repubblica, 383c)
Fine del secondo II della Repubblica di Platone

Eppure Platone sentiva una necessità artistica: doveva creare una forma d’arte.
 Il dialogo platonico mescola tutti gli stili e le forme esistenti (cfr. Il Fedro dove secondo Leopardi ci sono tre lingue) ed è sospeso tra narrazione, lirica, dramma, fra prosa e poesia e non ha una forma linguistica unitaria. La satira menippea con il prosimetro è andata oltre Platone.
Il dialogo platonico è la barca su cui si salvò la poesia antica naufraga (p. 95). Nella barca il cui timoniere era Socrate, si trovavano stipate tutte le creature della poesia antica. Platone ha fornito alla posterità il modello di una nuova forma d’arte: quella del romanzo, una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia è ancilla della filosofia.  
Più tardi la filosofia diverrà ancilla della teologia.
Il pensiero filosofico sovrasta l’arte che deve abbarbicarsi al tronco della dialettica.
La tendenza apollinea si chiude nell’iinvolucro di uno schematismo logico, mentre Euripide traduce il dionisiaco in una passione naturalistica.
Socrate, l’eroe dialettico del dialogo platonico ricorda la natura affine dell’eroe euripideo che deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni e che per questo rischia di non suscitare più la nostra compassione tragica (p. 96). Nella natura della dialettica infatti trionfa l’elemento ottimistico che entrato nella tragedia le fa compiere il salto mortale nel dramma borghese.
Basta pensare alle massime socratiche: la virtù è il sapere, si pecca solo per ignoranza, il virtuoso è felice. In queste forme di ottimismo sta la morte della tragedia.
In questa nuova situazione il coro appare come qualcosa di fortuito di cui si può fare a meno. Mentre il coro deve essere causa della tragedia.
Già Sofocle non osa più affidare al Coro la parte principale e comincia a franare il terreno dionisiaco della tragedia. Il coro di Sofocle appare ora come coordinato agli attori, come se venisse sollevato dall’orchestra e portato in scena. La sua essenza ne viene distrutta, sebbene Aristotele approvi questa concezione (p. 97).
Il coro, afferma Aristotele, deve essere parte del tutto (movrion tou` o{lou) e partecipare all'azione kai; sunagwnivzesqai, al pari di uno degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).
Dopo Euripide le parti cantate non sono connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi.
Sofocle compie il primo passo verso la distruzione del Coro un annientamento che procede con spaventosa rapidità con Euripide, Platone e la Commedia nuova.
La dialettica ottimistica scaccia la musica della tragedia con la sferza dei suoi sillogismi. La tragedia infatti è una simbolizzazione visibile della musica, è come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca.
Eppure Socrate, logico dispotico, non fu indifferente all’arte. In carcere racconta ai suoi amici (nel Fedone, 60-61) che gli veniva in sogno un’apparizione che diceva: “Socrate, datti alla musica!”
w\ Swvkrate~ e[fh mousikh;n poivei kai; ejrgavzou (60e) fai e componi musica. Egli pensava che la filosofia fosse la musica suprema (61). Ma dopo il processo, racconta, mi venne il dubbio che  il dio intendesse la musica nel senso comune (th;n dhmwvdh mousikhvn) e volli togliermi lo scrupolo. Così composi una poesia per la festa del dio Apollo, poi pensai che il poeta debba comporre miti e non ragionamenti ma io non ero esperto di miti, e allora misi in versi i miti che conoscevo, quelli di Esopo (61b).

Queste sue parole sul sogno sono l’unico segno di una sua perplessità sui limiti della natura logica. Ebbe questo dubbio: forse esiste un regno della sapienza da dove il logico è bandito?
Forse l’arte è un supplemento necessario alla scienza?


Capitolo XV  (pp. 98-104)

L’influenza di Socrate si è allargata sulla posterità come le ombre che diventano sempre più grandi al sole della sera.
Quasi ogni epoca ha cercato di liberarsi dai Greci poiché in confronto a loro ogni opera sembra perdere improvvisamente colore e vita e ridursi a brutta copia, anzi a caricatura. Spesso esplode la rabbia contro quel popoluccio arrogante che chiamava barbari gli altri popoli, nonostante le istituzioni limitate e i brutti vizi che li contraddistinguono. Ma non fu trovata la cicuta per ucciderli. Il fatto è che i Greci tengono in mano come aurighi la nostra cultura,  e qualsiasi cultura, anche se i cavalli sono scadenti e inadeguati alla gloria dei loro aurighi che considerano uno scherzo cacciare i cavalli in un abisso superati invece da loro con un salto.

Anche Socrate è stato una guida per la cultura europea: egli è il prototipo dell’uomo teoretico. Questo è felice per il disvelamento della realtà. Certo la realtà non può essere svelata tutta e il Lessing, il più onesto uomo teoretico, proclamò che a lui interessava più la ricerca della verità che la verità stessa.
Ma c’è anche l’idea illusoria di Socrate il quale credeva che attraverso il filo conduttore della causalità si potesse giungere negli abissi dell’essere e che il pensiero potesse non solo conoscere ma addirittura correggere l’essere. Questa illusione metafisica conduce la scienza verso l’arte. La scienza va a finire nel mito (cfr. p. e. il buco nero).
Socrate fu dunque il mistagogo della scienza. Mustagwgov~ è quello che inizia ai misteri. Tale tendenza universale della scienza applicata alla prassi egoistica di individui e di popoli ha portato allo sterminio di etnie intere con la conseguenza di un pessimismo pratico che può perfino produrre l’orripilante etica del genocidio per pietà.
Ma Socrate è il prototipo dell’ottimista teoretico che concede al sapere e alla conoscenza la forza di medicina universale e vede nell’ignoranza, nell’errore il male. Per lui i fatti morali più sublimi, i moti della compassione, dell’eroisno, perfino la tranquillità dell’anima che il greco apollineo chiamava swfrosuvnh derivano dalla dialettica del sapere  e sono considerati apprendibili. Ma la scienza procedendo corre senza sosta verso i suoi limiti  e davanti a questi l’ottimismo naufraga.
Allora irrompe la conoscenza tragica  la quale per essere sopportata ha bisogno dell’arte come protezione e rimedio.
La scienza giunta ai suoi limiti porta al bisogno d’arte.


Capitolo XVI  (pp. 104-111)

La tragedia greca dunque è perita per il dileguarsi dello spirito della musica dal quale è derivata la sua nascita. Contro la tragedia si combatte una battaglia mentre si favoriscono la farsa e il balletto che fanno sbocciare i loro fiori non sempre beneodoranti. La scienza che è essenzialmente ottimistica si oppone a una concezione tragica del mondo. Apollo e Dioniso rappresentano due mondi d’arte diversi.
Apollo è il genio trasfiguratore del principium individuationis che fa conseguire la liberazione nell’illusione; mentre al mistico grido di Dioniso si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose.

La Magna Mater ha molti nomi, non è individuata (cfr. Prometeo incatenato che invoca La madre: "Qevmi"-kai; Gai'a, pollw'n ojnomavtwn morfh; miva" (vv. 209-210), Temide e Terra, una sola forma di molti nomi.

 C’è un abisso tra l’arte plastica apollinea e la musica dionisiaca
Schopenhauer ha riconosciuto alla musica un carattere diverso rispetto alle altre arti: essa non è immagine dell’apparenza, bensì immagine della stessa volontà e dunque rappresenta la metafisica e la cosa in sé.
 Non dà lumi in questo senso quella civetta di Minerva che è Aristotele, per natura estraneo al grande istinto artistico che invece Platone possedeva. Nel  tempo di Aristotele si era già sviluppato l’artista imitativo, quasi erudito, lontano dal fenomeno artistico primordiale.
La musica è un linguaggio universale ed è l’immagine della volontà stessa, non dell’apparenza, e dunque rappresenta la cosa in sé.
La musica fa risaltare in accresciuta significatività ogni  scena della vita reale, tanto più quanto la sua melodia è analoga allo spirito intimo di una data apparenza. La musica dà il cuore delle cose (p. 109).
Nel linguaggio degli scolastici, i concetti sono gli universalia post rem, la musica dà gli universalia ante rem, la realtà gli universalia in re.  Questo Schopenhauer.
La musica dunque è il linguaggio immediato della volontà che genera il mito. Nel lirico, la musica rivela la sua essenza in immagini apollinee, nel tragico il dionisiaco esprime la volontà nella sua onnipotenza dietro il principium individuationis, la vita eterna oltre ogni apparenza e nonostante ogni annientamento.
 La sapienza dionisiaca si traduce nel linguaggio dell’immagine: l’eroe che è la più alta apparenza della volontà viene negato con nostra gioia perché è comunque solo apparenza e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione.
La tragedia grida la fede nella vita eterna; lo scultore glorifica l’eternità dell’apparenza e la bellezza della vita che fa scomparire il dolore dai tratti della natura.

Nell’arte dionisiaca la natura dice che nell’incessante mutamento delle apparenze ella è la madre primigenia eternamente creatrice tale che eternamente costringe all’esistenza.

1 commento:

  1. Forse si è persa la fede nella vita eterna,per questo non si scrivono più tragedie forti come quelle greche?Giovanna Tocco

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