il recupero del Partenone |
PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA
C’è dunque l’ascoltatore estetico e quello socratico-critico
incapace di comprendere il mito “immagine concentrata del mondo che come
abbreviazione dell’apparenza non può fare a meno del miracolo” (p. 151). Senza
mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un
orizzonte circoscritto da miti può raccogliere in unità tutto un movimento di
civiltà. Solo dal mito le forze della fantasia e del sogno apollineo vengono
salvate dal loro vagare senza direzione.
Il mito garantisce la sua connessione con la religione, il suo crescere
da rappresentanze mitiche. Le immagini del mito devono essere i demonici
custodi, inosservati e presenti, sotto la cui vigilanza cresce l’anima del
giovane e neppure lo Stato conosce leggi non scritte che siano più potenti del
fondamento mitico.
Il socratismo tende alla distruzione del mito e a questo
annichilimento segue l’educazione astratta, il costume astratto, il diritto
astratto , il vagare senza regole della fantasia artistica non frenata da alcun
mito patrio, una cultura che non ha un fondamento ma è condannata a nutrirsi
affannosamente di tutte le culture. L’uomo senza miti, eternamente affamato,
cerca radici in mezzo a tutti i passati. L’enorme bisogno storico della cultura
moderna , l’affastellarsi di innumerevoli culture, l’insoddisfazione perenne
dipende dalla perdita del mito, della patria mitica, del mitico grembo materno
(p. 152).
Ma questa cultura non mitica non ha nulla a che vedere con
la nobile essenza del nostro popolo (p. 152)
Veramente (ndr) Socrate non è ascrivibile a questa cultura
antimitica.
Nel prologo del Fedro
Socrate dice a Fedro che se non credesse al mito di Borea che rapì
Orizia figlia del re Eretteo, come non
ci credono oiJ sofoiv, non sarebbe l’uomo strano (a[topo~) che è (229c). Potrei dire,
facendo il sapiente sofizovmeno~,
che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi o dall’Areopago. E’ un’interpretazione
ingegnosa, ma chi la fa, poi deve raddrizzare gli Ippocentauri, la Chimera , e Gorgoni e
Pegasi e tutte le stranezze della natura. E per questo ci vuole molto tempo
libero: ejmoi; de; pro;~ aujta; oujdamw`~
scolhv (229e).
Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso kata; to; Delfiko;n gravmma, perciò mi
sembra ridicolo geloi`on dhv moi faivnetai
indagare cose che mi sono estranee- ta;
ajllovtria skopei`n . Dunque dico addio a tali questioni, esamino me
stesso skopw` ejmautovn, per vedere
se per caso io non sia una bestia più intricata e più invasa da brame di Tifone
o se sono un essere vivente (zw`/on)
più mite e semplice, partecipe per
natura di una sorte divina e priva di superbia fumosa (Fedro, 230a)
Tutte le nostre speranze tendono a riscoprire, sotto questa
vita civilizzata una forza antichissima, magnifica e intimamente sana, quella
forza da cui è scaturita la
Riforma tedesca dal
cui corale cominciò a risuonare la musica tedesca (p. 153).
Ora dobbiamo attenerci alle nostre luminose guide, i Greci.
Da loro abbiamo imparato l’apollineo e il dionisiaco e il tramonto della
tragedia è dovuto al disgiungersi di questi due istinti artistici originari. La
fine della tragedia si accorda con una degenerazione del carattere greco e
questo mostra come l’arte e il popolo, il mito e il costume, la tragedia e lo Stato
siano connessi. Il tramonto della tragedia fu nello stesso tempo il tramonto
del mito (p. 154)
Congiungendo al mito il presente, questo appariva sub specie aeterni, e in questo fiume del senza tempo si tuffavano lo Stato e
l’arte. Un popolo e anche un uomo vale solo in quanto sa imprimere nelle sue vicende
l’impronta dell’eterno. Il contrario avviene quando un popolo comincia
concepirsi storicamente e ad abbattere il mito (cfr. il to; mh; muqw`de~ di Tucidide I, 22, 4).
La tragedia greca ostacolò soprattutto la distruzione del
mito. Quindi intervenne una febbrile ricerca che accumulò superstizioni e miti
raccattati da ogni parte; in mezzo a questo il Greco si arrestò e mascherò
quella febbre con serenità greca divenendo greculo oppure si stordì in qualche
cupa superstizione orientale. In età moderna continua la stessa mostruosa
mondanizzazione, un avido accalcarsi a tavole straniere, una frivola
divinizzazione del presente tutto sub
specie saeculi , sempre con la distruzione del mito. Trapiantare un mito
straniero significa danneggiare l’albero. Lo spirito tedesco deve rigettare gli
elementi trapiantati che consumano l’albero ammalato e intristito o snaturato
in un morboso lussureggiare. La vittoria cruenta nell’ultima guerra può far
pensare che abbiamo cominciato a espellere l’elemento neolatino.
Cfr. Scopenhauer sul francese: questo miserrimo gergo
romanzo, questa pessima mutilazione di parole latine, con la peculiarità di un
disgustoso suono nasale, come pure il singhiozzante accento così indicibilmente
ripugnante sull’ultima sillaba. Invoco il biasimo dell’Europa tutta contro gli
spudoratissimi fanfaroni che la definiscono langue
classique (Parerga e Paralipomena.
p. 723).
I primi che lottarono su questa via furono Lutero e i nostri
grandi artisti e poeti. Ma soprattutto il Tedesco deve ascoltare il richiamo
dell’uccello dionisiaco che si libra su di lui.
Capitolo XXIV (pp. 156-161)
Il contenuto del mito tragico è innanzitutto, un accadimento
epico con la glorificazione dell’eroe che lotta. La sofferenza dell’eroe
esemplifica la saggezza del Sileno che comprende il brutto e il disarmonico. Ma l’arte non è solo imitazione della realtà
naturale, bensì è pure un supplemento metafisico della realtà di natura,
postole accanto per superarla. Il mito tragico ha questa funzione
trasfiguratrice che deve suscitare un piacere estetico prima che morale. Ebbene
il mito tragico deve convincerci che perfino il brutto e il disarmonico sono
parte di un gioco artistico che la volontà gioca con se stessa nell’eterna
pienezza del sui godimento. La dissonanza musicale ci fa capire questo fenomeno
originario dell’arte dionisiaca. Il fenomeno dionisiaco ci rivela che il gioco
di costruzione e distribuzione del mondo individuale è l’efflusso di una gioia
primordiale, come si può capire anche dal frammento di Eraclito: “aijw;n pai`~ ejsti paivzwn, pesseuvwn, paidio;~
hJ basilhivh (D. 48).dunque la forza formatrice del mondo “viene
paragonata da Eraclito l’oscuro a un fanciullo che giocando disponga pietre qua
e là, innalzi mucchi di sabbia e di nuovo li disperda (p. 160) aijwvn (cfr, ajeiv e lat. eevum,
è il tempo, la vita, l’eternità.
Musica e mito sono parenti. Quando decade uno si intristisce
anche l’altra. L’ottomismo socratico comporta un’esistenza senza miti, un’arte
abbassatasi a divertire, una vita guidata da concetti. Ma lo spirito tedesco
che riposava in un inaccessibile abisso, intatto nella sua splendida salute,
simile a un cavaliere dolcemente assopito, fa salire fino a noi il canto
dionisiaco. Questo canto un giorno annienterà i nani maligni e desterà Brunilde
Capitolo XXV (pp. 161-163)
Musica e mito tragico provengono da un dominio artistico al
di là dell’apollineo, e giustificano l’esistenza del peggiore dei mondi. Il dionisiaco suscita all’esistenza tutto il
mondo dell’apparenza anche l’orrido, e quindi è necessario l’apollineo. La
dissonanza se si facesse uomo che di fatto è dissonanza, ha bisogno per vivere
di una magnifica illusione che lo copra con il velo della bellezza. Questpoè il
fine artistico di Apollo che illudendo con la bella apparenza rende la vita
degna di essere vissuta.
-Cfr. Foscolo: “All’amica risanata (1802, Antonietta Fagnani
Arese): “sorgon così tue dive/membra dall’egro talamo,/e in te beltà
rivive,/l’aurea beltate ond’ebbero/ristoro unico a’ mali/le nate a vaneggiar
menti mortali”.-
La forza di trasfigurazione apollinea abbellisce il sostrato
dionisiaco del mondo. Le rigogliose espressioni di bellezza intervengono
proprio dove le forze dionisiache si levano più impetuosamente
Se potessimo tornare nella Grecia più antica, vedendo uomini
dall’incedere solenne, dai movimenti leggiadri, esclameremmo: “Beato popolo
degli Elleni! Come deve essere stato grande tra voi Dioniso, se il dio di Delo
ritiene necessari tali incantesimi per guarire la vostra follia ditirambica!”
(p. 162)
Ma un vecchio ateniese guardando con il sublime occhio di
Eschilo potrebbe replicare: aggiungi però questo, tu bizzarro straniero: quanto
dovette soffrire questo popolo per diventare così bello!” (cfr. tw`/ pavqei mavqo~, Agamennone, 177).
Sulla sofferenza
positiva Nietzsche si esprime in Di là dal bene e dal male[1]:"il
grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità
cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini,-la sua raccapricciante
certezza…di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (p. 200).
F. Dostoevskij in Ricordi
del sottosuolo (del 1864) scrive:" io sono convinto che l’uomo non
rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè alla distruzione e al
caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza… In realtà io continuo a pormi una domanda
oziosa: che cos'è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi
sofferenze? Dite su, che cos'è meglio?" (p. 234 e p. 320).
fine
giovanni ghiselli
Ciao Gianni , bellissimo articolo...con affetto Giovanna Tocco e Daniela Chirila
RispondiElimina