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9 novembre 2015
Necessità della fatica
Leopardi nell’Operetta morale Il Parini ovvero della gloria[1]
immagina che il poeta di Bosisio parli a un giovane “d’indole e di ardore
incredibile ai buoni studi, e di aspettazione meravigliosa”, e gli dica che
pochi sono capaci di intendere “che e quale sia propriamente il perfetto
scrivere”. Chi non intende questo “non può né anche avere la debita ammirazione
agli scrittori sommi”. La conclusione del ragionamento dunque è: “Or vedi a che
si riduca il numero di coloro che dovranno potere ammirarli e saper lodarli
degnamente, quando tu con sudori e con disagi incredibili, sarai pure alla fine
riuscito a produrre un’opera egregia e perfetta”.
Questa è una dichiarazione topica: Esiodo dice che davanti
al valore gli dei hanno posto il sudore: "th'"
d j ajreth'" iJdrw'ta qeoi; propavroiqen e[qhkan" (Opere, 289) .
Nell'Elettra
di Sofocle la protagonista dice alla mite sorella Crisotemi: "o{ra, povnou toi cwri; " oujde; n eujtucei'''" (v. 945) , bada,
senza fatica niente ha successo.
Nei Memorabili[2]
di Senofonte la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle al bivio
che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno: "tw'n ga; r o[ntwn ajgaqw'n kai; kalw'n oujde; n
a[neu povnou kai; ejpimeleiva" qeoiv didovasin ajnqrwvpoi""
(II, 1, 28).
Così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”
Così Cleante stoico in Diogene Laerzio (VII 172): “quando uno spartano gli disse o{ti oJ povno~ ajgaqovn, lui raggiante di gioia esclamò: “ai{mato~ ei\~ ajgaqoi`o, fivlon tevko~, sei di buon sangue, ragazzo mio!”
Si assiste a un eterno ritorno di questa affermazione e di
non poche altre. “Tipico atteggiamento della “cultura” greca. Una volta coniata
una forma, essa rimane valida anche in stadi ulteriori e superiori, e ogni
elemento nuovo deve cimentarsi con essa”[3].
Sappiamo che la cultura greca non si limita ai Greci.
In tutt'altro
contesto, il garrulus che attenta alla vita di Orazio gli fa: "nihil
sine magno/vita labore dedit mortalibus"[4],
niente senza grande fatica la vita ha mai dato ai mortali.
Alessandro Magno, che
si riteneva discendente di Achille e di Eracle, quando si preparava ad
assediare Tiro (estate del 332 a. C.), sognò che Eracle stesso lo introduceva
in città. L’indovino Aristandro interpretò la visione onirica dicendo che Tiro
sarebbe stata presa “xu; n povnw/… o{ti kai; ta; tou` JHraklevou~ e[rga xu; n povnw/
ejgevnetw. Kai; ga; r kai; mevga e[rgon th`~ Tuvrou hJ poliorkiva ejfainevto”[5]
con fatica… poiché anche le imprese di Eracle erano avvenute con fatica. E in
effetti anche l’assedio di Tiro si presentava come una grande impresa.
Quando, giunti al
fiume Ifasi[6],
già oltre l’Indo, i soldati di Alessandro Magno, si rifiutarono di
attraversarlo e di procedere verso il Gange, il condottiero macedone, per
convincere l’esercito esausto a proseguire, parlò ai soldati dicendo: “Pevra~ de; tw`n povnwn gennaivw/ me; n ajndri; oujde;
n dokw` e[gwge o{ti mh; aujtou; ~ tou; ~ povnou~, o{soi aujtw`n ej~ kala; e[rga
fevrousin” (Anabasi di Alessandro,
5, 26, 1) , il limite delle fatiche per l’uomo valoroso non credo siano altro
che le fatiche stesse, quante di esse li portano a grandi imprese”. Ma non
riuscì a convincere quella gente stremata.
Alessandro Magno non solo si sobbarcò personalmente fatiche
immani, e, ovviamente, le impose alle sue truppe, ma le procurò anche ai poeti:
Arriano racconta che dopo la distruzione di Tebe (335), poco prima di partire
per la sua spedizione, il giovane re di Macedonia celebrò giochi e sacrifici. Allora
gli fu annunciato che la statua di Orfeo nella Pieride ijdrw`sai xunecw`~
sudava continuamente; quindi l’indovino Aristandro disse che cantare le gesta
di Alessandro sarebbe costato polu; ~
povno~ ai poeti (Anabasi di Alessandro, I, 11, 2-3).
Dante mette in rilievo la grande fatica che gli è costata
l’opera grandiosa della sua Commedia: il “poema sacro/al quale ha posto mano e
cielo e terra/sì che m’ha fatto per più anni macro” (Paradiso, XXV, 1-3).
Machiavelli nota che molti uomini attribuiscono alla Fortuna
un potere eccessivo nella vita umana e per questo ritengono “che non fussi da
insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare dalla sorte”.
Il segretario
fiorentino non condivide questo parere: “perché el nostro libero arbitrio non
sia spento, iudico poter essere vero che la fortuna sia arbitre della metà
delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o
presso, a noi”. La Fortuna come certi “fiumi rovinosi…dimostra la sua potenzia
dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa
che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla”. Dunque non bisogna
adagiarsi sulla Fortuna: “quel principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina,
come quella varia” (Il principe, 25) .
Gli eterni giovani sciocchi
Leopardi trova che nella sua età prevalgano “creature”, giovani e
anziane, infantilmente insensate: "Amico mio, questo secolo è un secolo di
ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere
per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi
buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno
fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche[7]
preparatorie"[8].
Mevga
nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani
rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano
per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non
potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca[9]
(Esiodo, Opere e giorni, vv 130-135).
I classici non passano mai di moda.
“Qualunque stile
moderno ha proprietà, forza, semplicità, ha sempre sapore di antico, e non par
moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non piace” (Zibaldone, 1988). Il classico non segue
le mode.
La moda è infatti la sorella della morte. Nel dialogo di
Leopardi, la Moda dice alla Morte: “io sono la moda, tua sorella”. E la Morte: “Mia
sorella?” “Sì-risponde la Moda-: non ti ricordi che siamo nate dalla caducità? ...
e so che l’una e l’altra tiriamo parimenti a disfare e a rimutare di continuo
le cose di quaggiù…la nostra natura e usanza comune è di rinnovare
continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al
sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle
masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io non sono però mancata
e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia
sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle
bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini
con istampe roventi…”[12].
Si pensi ai tatuaggi, alla chirurgia estetica e ad altre schifezze del genere
La poetica sull’indefinito.
Nello Zibaldone di
Leopardi leggiamo: «le parole lontano, antico,
e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite,
e non determinabili e confuse» (1789). E, più avanti (4426): «il poetico, in un
modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel
vago».
Il canto corale, a più voci, entra in questa poetica del
vago e dell’indefinito.
Il coro infatti è "parte di quel vago, di
quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre
cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno
dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se
non introducendovi la moltitudine" (2804).
La brevità necessaria.
Leopardi apprezza molto anche la brevità degli autori. “Quanto
una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per
esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene
largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà
proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà
brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone,
1822).
“Non era molto ciò che egli sapeva, ma un uomo intelligente
sa con dieci parole dire meglio che uno sciocco con cento”[13].
L’Anonimo Sul sublime
sconsiglia il polisindeto, la ripetizione delle congiunzioni copulative, poiché
le congiunzioni smussano e fanno cadere l'aspro incalzare delle passioni (Sul Sublime, 21). Impacciare la passione
con le congiunzioni è come legare le membra di chi corre.
La semplicità, l'essenzialità elegante è distintiva dello
stile stesso di Orazio poeta. Lo si può ricavare da queste parole di Nietzsche:
"Non ho mai provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento
artistico che mi dette, fin dal principio, un'ode di Orazio. In certe lingue
quel che lì è raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di
parole in cui ogni parola come risonanza, come posizione, come concetto fa
erompere la sua forza a destra, a sinistra e sulla totalità, questo minimum
nell'estensione e nel numero dei segni, questo maximum, in tal modo
realizzato, nell'energia dei segni-tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere,
nobile par excellence. Tutto il resto della poesia diventa in paragone
qualcosa di troppo popolare-nent'altro che loquacità sentimentale"[14].
Il bello e l’utile.
Il kalovn e il sumfevron: cfr. la Medea di Euripide dove Giasone "dra'/
ta; sumforwvtata " (v. 876) fa quello che è più utile, come
riconosce la moglie abbandonata, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo.
Leopardi in Il
pensiero dominante del 1831 condanna l’ossessione dell’utile da parte della
sua età "superba, / che di vote speranze si nutrica, /vaga di ciance, e di
virtù nemica; /stolta, che l'util
chiede, /e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede" (vv.
59-64) . Giasone ricaverà dolore dal suo privilegiare l’utile.
Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro il
poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese
Gino Capponi del 1835: " anzi coverte/fien di stragi l'Europa e
l'altra riva/dell'atlantico mar... sempre che spinga/contrarie in campo le
fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di
melate canne, /o cagion qual si sia ch'ad auro torni" (vv. 61-67) .
La terapia del rovesciamento: mettersi nei panni (o nei
piedi degli altri).
Nella commedia L’arbitrato
(Epivtreponte") di Menandro (342-391),
Carisio, il marito che si crede tradito, comprende che l'errore sessuale della
moglie Panfile, presunto, ma da lui ritenuto reale, è stato un "infortunio
involontario della donna" (ajkouvsion
gunaiko; " ajtuvchm j, v. 594).
Il protagonista di
questa commedia ripropone la formula antica della dovxa, la reputazione, ma poi la supera, con quell’ ejgwv ti"
ajnamavrthto", che anticipa il Vangelo
di Giovanni: "chi di voi è senza peccato scagli la pietra per primo contro
di lei, oJ ajnamavrthto" uJmw'n
prw'to" ejp j aujth; n balevtw livqon (8, 7). Qui non si tratta di
un adulterio presunto. Infatti gli scribi e i farisei portano al tempio una
donna còlta in adulterio (mulierem in
adulterio deprehensam, 8, 3) e chiedono al Cristo, che insegnava in quel
luogo, se dovesse essere lapidata secondo la legge mosaica. Lo dicevano per
metterlo alla prova e magari poterlo accusare. Gesù allora si diede a scrivere
con il dito sulla terra. E siccome lo incalzavano, il Redentore, rizzatosi, disse
loro: " qui sine peccato est vestrum,
primus in illam lapidem mittat ". E riprese a scrivere per terra. Tutti
gli altri uscirono, e il Cristo, rimasto solo con la donna, la assolse, come
tutti gli altri, aggiungendo: "vade
et amplius iam noli peccare " (8, 11), vai e non peccare più.
Leopardi: “gli
scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla
partecipato alla sua dottrina, eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella
forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo
proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama
comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon
maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella dottrina, ma l’eccellenza
nel saperla comunicare”[15].
E più avanti: “Ma il gran torto degli educatori è di volere
che ai giovani piaccia quello che piace alla vecchiezza o alla maturità; che la
vita giovanile non differisca dalla matura; di voler sopprimere la differenza
di gusti di desiderii ec. , che la natura invincibile e immutabile ha posta fra
l’età de’ loro allievi e la loro, o non volerla riconoscere, o volerne affatto
prescindere…di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza della
necessità suppliscano all’esperienza ec. ”[16].
Le quattro parti della vita in Orazio
Orazio nell' Ars
poetica[17]
distingue le quattro diverse parti che ciascuno di noi recita nella vita. Dobbiamo
ricordarcene noi insegnanti per avvicinarci alla comprensione dei nostri
ragazzi.
Dunque: "aetatis
cuiusque notandi sunt tibi mores" (156), devi badare bene ai costumi
specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle varie
età: il puer il quale gestit paribus colludere (159), smania di
giocare con i suoi compagni, e cambia umore spesso: et mutatur in horas (160)
.
Poi l'imberbus
iuvenis il giovinetto imberbe il quale gaudet equis canibusque,
è cereus in vitium flecti, facile come la cera a prendere l'impronta del
vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Più avanti negli anni, conversis
studiis aetas animusque virilis/, quaerit opes et amicitias, inservit
honori (vv. 166-167), cambiate le inclinazioni, l'età e la mente adulta
cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista del potere.
Poi c'è il vecchio: "difficilis,
querulus, laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum"
(vv. 173-174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso da ragazzo,
critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti che recitiamo in
quattro parti diverse, con quattro aspetti diversi.
Sentiamo anche Shakespeare
che ne distingue sette: "All the world's a stage-And all the men and
women merely players" (As you like it [18],
II, 7) , tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non
sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e
le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie
parti, poiché sette età costituiscono gli atti della vita umana". Segue la
descrizione dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro
piagnucoloso che, con la sua cartella e col suo mattutino viso, si trascina
come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi il terzo quello dell'innamorato
"che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le
sopracciglia dell'amata". Infine "l'ultima scena, che chiude questa
storia strana e piena di eventi, è seconda fanciullezza e completo oblio, senza
denti, senza vista, senza gusto, senza nulla".
continua
[1]
Scritta nel 1824, pubblicata nel 1827.
[2]
Scritto socratico in quattro
libri che presenta il maestro come un uomo probo e onesto, rispettoso della
religione e delle leggi, valida guida morale nella vita pratica
[3] W. Jaeger, Paideia 1, p. 191.
[4] Sermones, I, 9, 59-60-
[5]
Arriano (età di Traiano e di Adriano) , Anabasi
di Alessandro, 2, 18, 1.
[6]
Nell’estate del 326 a. C.
[7]
Di nuovo il topos della fatica necessaria (cfr. cap. 3) .
[8] Dialogo di
Tristano e di un amico (1832) . E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive: "Così a scuotere
la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del
ridicolo ne' dialoghi e novelle
Lucianee ch'io vo preparando" (Zibaldone,
1394) . Al capitolo 66 citerò altre parole di Tristano all’amico.
[9]
Nhvpios è l’idiota che non sa parlare (nh-e[po")
: cfr. quanto scrive Pasolini sull’atroce afasia che prelude alla
violenza.
[10] 1798-1837.
[11]Zibaldone, 58.
[12]Operette
morali, Dialogo della Moda e della Morte.
[13]
T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 176.
[14]
Crepuscolo degli idoli, Quel che debbo agli antichi, 1.
[15]
Zibaldone, 1376.
[16]
Zibaldone, 1473.
[17]
Composta tra il 18 e il 13 a. C.
[18]
1599-1600.
Grazie al bravissimo Stefano che è tornato prima dal lavoro sono riuscita ad assistere a questa bella lezione,devo dire che leggere ed essere presenti si completano a vicenda. Nelle tue lezioni c'è una forte componente emozionale che coinvolge molto:lo scritto consente di rileggere e riflettere. Da te si impara sempre molto,e cose belle e raffinate ed eroiche. Tu insegni prima di tutto il gusto e l'arte del vivere,al contrario del penoso coma vigile del consumismo imperante. Giovanna Tocco
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