dal cortometraggio "Le Baccanti" regia: Giacomo Bonagiuso |
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Capitolo XII (pp.
82-89)
Euripide volle eliminare il dionisiaco. Ma nelle Baccanti l’avversario più avveduto di
Dioniso, Penteo, viene incantato da lui. Il vecchio poeta, nel suo ultimo
dramma, deve concordare con i due vecchi
Cadmo e Tiresia: la riflessione degli individui più accorti non riesce a
rovesciare quelle antiche tradizioni popolari di fronte alle quali conviene
mostrare almeno una partecipazione diplomatica e prudente.
Nietzsche si riferisce ai vv. 330-340 delle Baccanti dove Cadmo dice al nipote
Penteo:
“O figlio, Tiresia ti ha consigliato bene.
Stai con noi, non fuori dalle norme.
Ora infatti vaneggi e, pur avendo facoltà mentali, non sai
farne uso.
Anche se questi non è un dio, come dici tu,
tiello per te (para; soi
legevsqw): e afferma, con una menzogna bella,
che lo è, perché sembri che Semele abbia generato un dio,
e a noi e a tutta la stirpe si aggiunga onore.
Tu vedi lo sventurato destino di Atteone[1],
che le crudivore cagne che aveva allevato
sbranarono nelle radure montane, perché si era vantato
di essere superiore ad Artemide nelle cacce.
Ma il dio non si accontentò di un interessamento così
tiepido e trasforma il diplomatico Cadmo in un drago. Troppo tardiva la
resipiscenza:
Cadmo.
Dioniso, ti preghiamo, abbiamo sbagliato.
Dioniso.
Troppo tardi ci avete riconosciuti (o[y j
ejmavqeq j hJma`~), e quando era
necessario non/ volevate saperne.
Cadmo.
Questo lo abbiamo capito; ma tu punisci in maniera eccessiva
(vv. 1344-1346).
Euripide termina così la sua carriera: con una
glorificazione dell’avversario. Ma purtroppo la sua tendenza era già stata
realizzata: Dioniso era stato già cacciato dalla scena tragica, buttato fuori
da una potenza demoniaca il cui profeta era Euripide. Quel demone di
recentissima nascita era Socrate.
Il socratico contro il dionisiaco. I giudici d’arte di tutti
i tempi hanno trasformato anche Euripide in un drago ma chi potrebbe essere
soddisfatto di questo miserabile compenso?
Bruno Snell invero fa
un’ apologia di Euripide e la conclude con una nota tratta dal Diario
di Goethe che alcuni mesi prima della morte scriveva:"Non finisco
di meravigliarmi come l'elite dei filologi non comprenda i suoi meriti e
secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo
l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane...Ma c'è forse una nazione che abbia
avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le
pantofole?"[2].
Vediamo allora cos’era quella tendenza socratica complice di
Nietzsche.
Euripide sostituì la tragedia con l’epos drammatizzato.
Ma in questo genere
di composizione non c’è nemmeno l’apollineo con la calma della contemplazione.
Euripide non è come il rapsodo solenne dell’epoca antica, ma, come il giovane
rapsodo dello Ione Platonico in preda
all’emotività: “quando io dico qualche cosa di commiserevole i miei occhi si
riempiono di lacrime, quando dico qualcosa di spaventoso o terribile, i capello
mi stanno dritti e il cuore salta per la paura (uJpo;
fovbou hJ kardiva phda`/, 535c). Cfr. con lo qumov~ di Medea.
I rapsodi sono un anello della catena attirata dalla
calamita: la Musa
ispira i poeti che ispirano i rapsodi.
Euripide è l’attore con il cuore che martella e i capelli
ritti: egli abbozza il piano come pensatore socratico e lo attua come attore
appassionato
Il dramma euripideo è una cosa insieme triste e focosa,
capace di agghiacciare e di infiammare. Non c’è né l’apollineo come calma
contemplazione, né il dionisiaco come sentimento dell’unità.
Per suscitare un effetto usa nuovi mezzi di eccitamento che
non sono apollinei né dionisiaci; in luogo delle intuizioni apollinee
pensieri freddi e paradossali (cfr. la
diplomazia di Cadmo); in luogo delle estasi dionisiache passioni roventi (cfr.
Medea o Ifigenia). Più precisamente pensieri e passioni imitati in modo
realistico, non artistico.
Dunque la sua tendenza antidionisiaca si sviò nel
naturalismo non artistico e portò il socratismo nel dramma: creò il socratismo
estetico: “Tutto deve essere razionale per essere bello” (p. 85). Socrate
proponeva. “ solo chi sa è virtuoso”.
La temeraria
razionalità di Euripide costituisce un regresso rispetto alla tragedia
sofoclea.
Il prologo euripideo è un esempio di quel metodo
razionalistico.
All’inizio del dramma un singolo personaggio si presenta
sulla scena e dice chi è, racconta l’antefatto e perfino che cosa accadrà nel
corso del dramma, un modo di procedere petulante e imperdonabile e tale che
rinuncia all’effetto della tensione. La maestria di Eschilo e Sofocle dava
nelle prime scene tutti i fili necessari alla comprensione come per caso (cfr. Edipo re 1, e Agamennone 36- 37: ta; d’ a[lla sigw` : bou`~ ejpi glwvssh/ mevga~-bevbhken
).
Nietzsche pensò che
lo spettatore fosse in agitazione per il problema dell’antefatto e che per
questo perdesse le bellezze artistiche. Perciò scrisse il prologo
chiarificatore e lo fece recitare a un personaggio affidabile, un dio (cfr. le Troiane o le Baccanti con la prima parola {hkw.)
Voleva togliere ogni dubbio sulla realtà del mito. Di una altro intervento divino ha bisogno
Euripide a chiusura del suo dramma per assicurare il pubblico circa l’avvenire
dei suoi eroi: è questo il compito del famigerato deus ex machina (p. e. Ifigenia
in Tauride , Elena, Oreste).
Euripide come poeta echeggia le sue cognizioni coscienti.
Egli volle applicare ai suoi drammi queste parole di Anassagora: “al principio
tutto era mescolato, poi venne l’intelletto e creò ordine”.
Con il suo nou`~
Anassagora apparve tra i filosofi come il primo sobrio tra individui tutti
ebbri, e altrettale pensò di essere Euripide rispetto ai suoi colleghi
Anassagora
introduce per primo una Mente (Nou`~) separata e ordinatrice della materia (u[lh) che è formata da particelle simili ma distinte per qualità. Le chiamò spevrmata, semi, mentre oJmoiomerh` è termine aristotelico (Fisica
I, 4, 187a); commentatori più tardi le chiamano oJmoiomevreiai.
Ogni composto
risulta formato da una mescolanza di tutti semi, ma assume il carattere dei
semi predominanti. Mangiando il pane cresce il pelo poiché nel pane c’è anche
il pelo. Insomma in ogni cosa c’è tutto. Il pane appare tale poiché prevalgono
le particelle di pane, ma se potessimo vedere l’invisibile nel pane o nell’oro
vedremmo semi di tutte le specie. Il Nou`~
è distinto dalla materia, è dotato di potenza infinita e imprime un movimento
rotatorio che determina la scomposizione del magma informe e l’ordinata
aggregazione dei semi simili secondo le giuste proporzioni. Il Nou`~ rimane trascendente.
Sentiamo Diogene
Laerzio (Vite dei filosofi, II, 3)
“Tutte le cose erano insieme; poi la mente (oJ nou`~) le dispose in ordine. Egli stesso ebbe il
soprannome di Mente. Affermava che il Sole è una massa incandescente e rovente,
maggiore del Peloponneso. Onde Euripide, che fu suo discepolo, nel Fetonte chiamò il sole “massa d’oro”[3].
Gli stoici riprendono e modificano questa
definizione del sole: lo considerano una massa infuocata e dotata di intelligenza
(noerovn) che proviene dal mare[4].
Del resto Crisippo nel primo libro peri; Pronoiva~ Sulla provvidenza sostiene
che tutto il cosmo è un essere vivente ragionevole zw/`on logikovn kai; noerovn e
fornito d’anima (Diogene Laerzio VII 142, 143.)
Al magistero del filosofo nei confronti del poeta sembra
credere Nietzsche quando scrive:" Nella chiusa comunità dei seguaci
ateniesi d’Anassagora la mitologia del volgo era ancora consentita soltanto
come un linguaggio simbolico; tutti i miti, tutti gli dèi, tutti gli eroi erano
quindi considerati unicamente come geroglifici di un’interpretazione della
natura, e persino l’epos omerico doveva essere il canto canonico dell’imperio
del nous e delle battaglie e leggi
della physis. Qualche voce di questa
società d’eminenti spiriti liberi penetrò qua e là nel popolo; e
particolarmente il grande e sempre ardimentoso Euripide, teso nei suoi pensieri
al nuovo, osò far sentire in vari modi la sua[5]
parola attraverso la maschera tragica"[6].
Secondo Euripide chi creava inconsciamente non creava il
giusto.
“Anche il divino Platone parla per lo più ironicamente della
facoltà creativa del poeta se essa non è una conoscenza consapevole e la
parifica alla maniva dell’indovino e
dell’interprete dei sogni” (p. 88): il poeta poeterebbe in stato di
incoscienza.
Nelle Leggi, l’Ateniese dice che secondo un palaio;~ mu`qo" il poeta quando ejn tw`/ trivpodi th`~ Mouvsh~ kaqivzhtai, tovte
oujk e[mfrwn ejstivn (719c) e
come una sorgente oi|on de; krhvnh ti~,
lascia scorrere prontamente il getto che scaturisce to; ejpio;n rJei`n eJtoivmw~ ea`/.
Del resto nel Fedro
Socrate considera positiva la pazzia del poeta come quella dell’innamorato: il
filosofo ateniese non considera negativamente questa "frenesia divina che
è molto più saggia della saggezza del mondo"[7].
Anzi Socrate vuole dimostrare, a proposito della pazzia amorosa:"wj" ejp j eujtuciva/ th'/ megivsth/ para;
qew'n hJ toiauvth maniva[8]
devdotai" (Fedro, 245c) che tale follia è concessa dagli dèi
per la nostra più grande fortuna.
Platone assimila la follia erotica ad altre manie: nel Fedro
ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato
già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di
sé: quello dei profeti come la
Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei
poeti, e quello degli innamorati. C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti"
, “profeta”, hanno la radice comune man(t)
-/mhn-.
I beni più grandi
derivano da una mania data dagli dèi ( Fedro,
244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici
agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non
ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che
prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~,
con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c), l’hanno chiamata mantica. Non mi sembra che
ci sia ironia.
Euripide vuole mostrare al mondo l’opposto del poeta
irragionevole: il suo principio estetico è: tutto deve essere cosciente per
essere bello”, parallelo al socratico “tutto deve essere cosciente per essere
buono” (p. 88) E’ il socratismo estetico. Socrate era quel secondo spettatore
che non capiva e non apprezzava la tragedia antica e i due fecero lega e il
socratismo estetico uccise la tragedia. Socrate fu dunque l’avversario di
Dioniso e infatti fu dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, eppure fu
capace di costringere alla fuga lo stesso potentissimo dio.
Dioniso, come quando era fuggito da Licurgo (cfr. Iliade, VI, 130-140) si salvò nelle
profondità del mare, cioè nei flutti mistici di un mondo segreto che invaderà
il mondo.
Euripide non crede che ci sia identità tra conoscere il bene
e farlo, anzi: nell'Ippolito[9]
Fedra, la matrigna innamorata del
figliastro, è dilaniata da un conflitto
interno che le suggerisce questa
considerazione: " il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo
costruiamo nella fatica, alcuni per infingardaggine,/alcuni anteponendogli
qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe
conversazioni, l'ozio , diletto cattivo, e l'irrisolutezza"(vv. 380-385).
Capitolo XIII (pp. 89-93)
Diogene Laerzio II, V, 18 scrive: “Si credeva che Socrate
avesse collaborato con Euripide nella composizione delle tragedie”
Dai partigiani del “buon tempo antico” i due nomi venivano
pronunciati insieme quando si trattava di enumerare i corruttori del popolo:
l’influsso del loro dubbio razionalismo aveva minato l’antica e quadrata
valentia di corpo e d’anima dei tempi di Maratona e aveva intristito le forze
fisiche e spirituali.
Nelle commedie di Aristofane ci sono questi due personaggi:
Euripide è il misogino (le Tesmoforiazuse)
corruttore del popolo (cfr. le Rane) ;
Socrate è il primo e supremo sofista (Nuvole)
Del resto lo dice anche Leopardi nello Zibaldone
Socrate nei dialoghi platonici dà sempre scacco matto ai
sofisti.
Infatti Leopardi lo considera il più sofista di tutti.
E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto
parlatore, l'odiator de' calamistri[10]
e de' fuchi[11]
e d'ogni ornamento ascitizio[12]
e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente
meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone,
3474).
Nietzsche conferma la connessione aristofanesca tra Euripide e Socrate.
Socrate disse che aveva scoperto di essere l’unico di sapere
di non sapere niente, mentre negli altri trovava la presunzione del sapere.
Vide che gli altri facevano i loro compiti solo per istinto.
Cherefonte andato a Delfi chiese se esistesse qualcuno più
sapiente di Socrate. La Pizia
rispose nessuno ( ajnei`len hJ Puqiva
mhdevna, Apologia, 21 a ). E aveva ragione perché
interrogando diversi politici e uomini che avevano fama di essere sapienti,
vedevo che non lo erano e nemmeno se ne rendevano conto.
Tali sono i poeti e gli indovini che non fanno ciò che fanno
per sapienza ma per doti naturali e ispirazione ouj
sofiva/ , ajlla; fuvsei tini; kai; ejnqousiavzonte~ (22c). Gli artigiani
conoscevano il loro mestiere ma avevano la presunzione di essere sapienti anche
in altre cose e questa presunzione occultava la loro competenza. Dunque ne
sapevano tutti meno di me. Del resto davvero sapiente è solo il dio, e la Pizia ci dice che la
sapienza umana vale poco o nulla (Apologia
di Socrate, 23a).
Vide che quegli uomini non avevano un’idea giusta e sicura
nemmeno della loro professione e che la esercitavano solo per istinto.
“Solo per istinto. Con questa espressione tocchiamo il cuore
e il centro della tendenza socratica” (p. 90)
Socrate procede con disprezzo e con aria di superiorità
quale precursore di una cultura e di un’arte di altra specie. Costui osa
rinnegare la cultura greca di Omero, Pindaro, Eschilo, Fidia, Pericle. Quale
forza demoniaca era la sua? A lui il coro
degli spiriti più nobili deve gridare:
“Ahi, Ahi,
col tuo pugno potente
tu hai distrutto il mondo bello e possente
che precipita nella rovina”
E’ il coro imvisibile degli spiriti della prima parte del Faust, nello Studio dove Faust parla con Mefistofele, il figlio
del Caos che serra maligno il pugno di ghiaccio.
Socrate è visto da Nietzsche come il nemico dell’istinto, o
come un individuo dall’istinto rovesciato: “Mentre in tutti gli uomini
produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza
si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma
in un critico, la coscienza in una creatrice-una vera mostruosità per defectum! Più precisamente noi
scorgiamo qui un mostruoso defectus
di ogni disposizione mistica, sicché Socrate sarebbe da definire come
l’individuo specificamente non mistico,
in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata in modo tanto
eccessivo quanto lo è quella sapienza istintiva nel mistico”[13].
Quest’idea non verrà rinnegata più avanti da Nietzsche come
altri aspetti[14]
di questo scritto giovanile. In Ecce homo[15]
il filosofo ne rivendica le due “ innovazioni decisive: intanto la comprensione
del fenomeno dionisiaco fra i
Greci-il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di
tutta l’arte greca.
L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come
strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come
tipico décadent. “Razionalità” contro istinto. La “razionalità” a ogni
costo come violenza pericolosa che mina la vita!”[16].
In Ecce homo
“quasi alla fine della sua vita lucida, Nietzsche scrive: “Io non sono un uomo, sono dinamite”[17].
Una chiave per spiegare la natura di Socrate ci viene
spiegata dal fenomeno del suo demone, una voce che lo dissuadeva sempre. Cfr. Apologia 31 dove Socrate dice che in lui c’è qei`ovn ti kai; daimovnion , una voce –fwnhv ti~- che quando si manifesta ajei; ajpotrevpei me, mi distoglie sempre
da quello che sto per fare, protrevpei de;
ou[pote, mentre non mi spinge mai.
Questo mi impedisce di occuparmi di politica.
Negli uomini produttivi l’istinto è la forza creativa e
affermativa e la coscienza è la parte
critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la
coscienza in creatrice, una vera mostruosità per defectum!
L’influenza di Socrate dissolveva gli istinti. Socrate volle
la sua condanna a morte e le andò incontro con quella stessa calma con cui si
allontanò dal simposio per ultimo (Simposio
223 c-d).
Platone si gettò ai piedi dell’immagine di Socrate morente.
continua
[1]
Un cugino di Penteo, figlio di Autonoe,
figlia di Cadmo e sorella di Semele.
[2]
B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 189.
[3] Euripide, fr. 783 Nauck.
[4] Aezio Plac. II 20, 4.
[5]
Di Anassagora ndr.
[6] La filosofia
nell'età tragica dei Greci p 1O9.
[7]A.
Taylor, Platone , p. 475.
[8]
C'è da notare che maivnomai,
"sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti"
, profeta, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
[9]
Del 428 a .
C.
[10]
Da calamistrum, “ferro per arricciare
i capelli” (ndr).
[11]
Da fucus, “tintura rossa” (ndr).
[12]
Da ascisco, “annetto” (ndr).
[13]
La
nascita della tragedia
, p. 92.
[14]
Hegeliani e schopenhaueriani
[15]
Del 1888.
[16]
F. Nietzsche, Ecce homo, La nascita
della tragedia, p. 49.
[17]
Ecce homo, “Perché sono un destino”,
1
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