Leighton, Tristan and Isolde (1902) |
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Capitolo XIX (pp. 124-133)
La cultura socratica si può anche chiamare cultura
dell’opera. Innanzitutto Nietzsche ricorda lo stile del recitativo. Il cantante
più che cantare parla accentuando il pathos. Il recitativo è la mescolanza
dell’esposizione epica e di quella lirica, una conglutinazione però del tutto
esteriore, come un mosaico. Gli inventori del recitativo credettero di svelare
con quello stilo rappresentativo il
mistero della musica antica, quello di un Orfeo o di un Anfione. Si considerò
quello stile la rinascita della musica greca. Il recitativo fu considerato il
linguaggio riscoperto dell’uomo primitivo idillicamente o eroicamente buono. Ma
la genesi di questa nuova forma d’arte è la soddisfazione di un bisogno non
estetico, ossia la volontà di concepire come buono l’uomo primitivo. L’opera è
edificata sugli stessi principi della cultura alessandrina, è un prodotto
dell’uomo teoretico, del critico profano, non dell’artista. Che si debba capire
la parola è una pretesa degli ascoltatori non musicali. E’ rozza l’opinione che
la parola debba prevalere. L’uomo colto del Rinascimento si fece ricondurre
alla tragedia greca da questa sua cultura operistica. Ma l’uomo idillico, il
pastore che eternamente canta deriva dall’ottimismo che ha come base la cultura socratica ma di lì degenera ancora
esalando un profumo dolciastro. Dall’opera dunque deriva il facile piacere per
una realtà idillica, ma si tratta di uno sciocco baloccarsi. L’opera è un
essere bamboleggiante che deriva dalla serenità alessandrina e non ha nulla a
che vedere con la terribilità della natura.
Il mondo parassitario dell’opera non è nutrito dai succhi
dell’arte vera. L’uomo eschileo sta alla serenità alessandrina, come l’opera
moderna alla tragedia. Eppure nell’epoca attuale sta risvegliandosi lo spirito
dionisiaco. Eracle non è rimasto per sempre infiacchito nella voluttuosa
soggezione a Onfale (cfr. Trachinie,
v. 70).
Nelle Trachinie di
Sofocle, Illo dice alla madre Deianira che Eracle, padre e marito dei due,” la
scorsa stagione per tutto il tempo ha faticato al servizio di una donna di
Lidia-Ludh`/ gunaikiv fasiv nin lavtrin
ponei`n (v. 70).
Dal fondo dionisiaco dello spirito tedesco è uscita una
forza terribile e inesplicabile per la cultura socratica: la musica tedesca dal
potente corso solare: da Bach a Beethoven a Wagner. E’ un demone che scaturisce
da insondabili profondità e il socratismo non può batterlo partendo dai
merletti e dagli arabeschi della melodia operistica. Dalla stessa sorgente
della musica tedesca deriva la filosofia di Kant e di Schopehauer che è la
sapienza dionisiaca espressa in concetti
Ora sembra che procediamo in ordine inverso rispetto ai Greci: dall’età
Alessandrina al periodo della tragedia. Lo spirito tedesco ora può presentarsi
davanti ai popoli ardito e libero senza la briglia di una civiltà romanza,
purché sia disposto a imparare dai Greci, imparare dai quali è già un’alta
gloria e una rarità che distingue (p. 133).
Goethe, Schiller e Winckelmann hanno condotto una nobilissima
lotta per la cultura. Eppure gli sforzi di molti per giungere al nocciolo della
cultura greca non sono efficaci. Si sente una retorica priva di effetto
sull’armonia greca, la bellezza greca, la serenità greca.
La cultura degli istituti superiori va scemando ed è il
giornalista il cartaceo schiavo del giorno che riporta la vittoria
sull’insegnante superiore il quale oramai si muove anch’egli nell’eloquio
giornalistico.
Una cultura così debole odia la vera arte poiché da essa
vede la sua fine . Eppure la debole e gracile cultura attuale è l’esaurimento
di quella socratico-alessandrina.
Nemmeno Goethe e Schiller riuscirono a forzare la porta stregata che
conduce alla montagna incantata ellenica, non sono andati oltre il nostalgico
sguardo che l’Ifigenia goethiana manda dalla barbarica Tauride alla patria
oltre il mare. Ma la musica tragica è risorta. Solo nella rinascita
dell’antichità ellenica troviamo la speranza per un rinnovamento e una
purificazione dello spirito tedesco attraverso la magia di fuoco della musica
(p. 136)
Nella cultura attuale c’è solo polvere, sabbia,
irrigidimento. Schopenhauer, cui mancò ogni speranza, che volle la verità. è paragonabile al Cavaliere con la morte e il diavolo di Dürer
(incisione a bulino del 1513) imperturbato dai suoi orrendi compagni solo col
destriero e il cane.
La magia dionisiaca però afferra come un turbine tutto ciò
che è spento, marcio, rotto, appassito, e come un avvoltoio lo porta in alto.
In mezzo a questa sovrabbondanza di vita, di dolore, di piacere, c’è la
tragedia che narra delle Madri dell’essere.
Il tempo dell’uomo socratico è finito: inghirlandatevi di
edera, prendete in mano il tirso e non meravigliatevi se la tigre e la pantera
si accovacciano carezzevolmente ai vostri piedi.
Su Kant, Nietzsche cambierà idea: “Del resto Solone può fare
parte dei “veri filosofi che sono dominatori e legislatori”. I vari Kant e
Hegel sono “operai della filosofia” i quali “ hanno il compito di accertare e
ridurre in formule una vasta gamma di valutazioni”[1].
In Crepuscolo degli
idoli o come si filosofa col martello (del 1888), Nietzsche scrive: “La
mancanza di realismo, la fuga dalla realtà è decadenza:"Separare in un
mondo "vero" e in un mondo "apparente", sia alla maniera
del cristianesimo, sia alla maniera di Kant (in ultima analisi, uno scaltro
cristiano), è soltanto una suggestione della décadence - un sintomo di
vita declinante…L'artista tragico non è pessimista-egli dice
precisamente sì anche a tutto quanto è problematico e orrido, egli è dionisiaco"[2].
Quindi: “Eraclito avrà eternamente ragione in
questo, che l’essere è una vuota finzione. Il mondo “apparente” è l’unico: il
“mondo vero” è soltanto un’aggiunta menzognera” (p. 19).
Capitolo XXI (pp. 137-145)
Solo dai Greci dunque si può imparare. Il popolo delle
guerre persiane è anche quello dei misteri tragici. Il dionisiaco può portare
all’indifferenza verso la politica, ma Apollo è il formatore di Stati e il
genio del principium individuationis.
Ebbene lo Stato e il senso della patria non possono vivere senza l’affermazione
della personalità individuale. Dallo stato orgiastico parte la strada che porta
al buddismo indiano che è tollerato poiché aspira al nulla.
Dove invece gli istinti politici hanno un valore assoluto si
prende una stradadi estrema mondanizzazione la cui espressione più grandiosa e
spaventosa è l’imperium romano.
I Greci posti tra l’India e Roma riuscirono a trovare in
classica purezza una terza forma (p. 138), non per un lungo uso proprio, ma per
l’immortalità. I beniamini degli dèi muoiono giovani, ma poi vivono in eterno
con gli dèi. I Greci ebbero istinti dionisiaci e politici molto forti, eppure
non si esaurirono né in una meditazione estatica, né in una logorante caccia
alla potenza del mondo. Raggiunsero invece quella magnifica mescolanza quale
può avere un nobile vino che infiammi e disponga insieme alla contemplazione.
Una mikth; paideiva
potrei dire (ndr).
La tragedia è il
compendio di tutte le salutari forze profilattiche di un popolo.
Mito e musica portano a un presentimento di gioia suprema
attraverso la rovina e la negazione (cfr. Edipo
a Colono). Lo spettatore crede di
sentire l’intimo abisso delle cose che gli parla.
La musica, come p. e. quella del terzo atto di Tristano e Isotta, può condurre a negare
l’esistenza individuale in quanto dà voce alla volontà universale. Ma la forza
apollinea ripristina l’individuo quasi frantumato e quello che sembrava un roco
sospiro del centro dell’essere ci appare invece come Tristano che dice: “Oed’ und leer das Meer”, deserto e vuoto
è il mare (Cfr. The Waste Land, 42
che cita anche Tristan und Isolde I,
5-8)
Vediamo l’eroe quando il mondo apollineo ci strappa
all’universalità dionisiaca e ci affascina per gli individui cui incatena il nostro sentimento di pietà e
ci solleva dall’orgiastico annullamento do sé. La musica anzi dà l’illusione di
poter vedere meglio. La musica è la vera idea del mondo, il dramma solo un
riflesso di questa idea.
La contrapposizione anima-corpo è falsa, mentre quella vera è
tra apparenza e cosa in sé. Nel complesso della tragedia, Dioniso ha il
sopravvento, eppure il risultato è la fratellanza tra le due divinità. Lo
spettatore vede l’eroe tragico in epica chiarezza e bellezza, e tuttavia gode
del suo annientamento. Mentre rabbrividisce per i dolori dell’eroe, presagisce
una gioia suprema. Il mondo dell’apparenza giunge agli estremi limiti poi si
rifugia in grembo alla vera e unica realtà. N. cita ancora Tristano e Isotta (atto III) dove, secondo il metafisico canto del
cigno, la gioia suprema è annegare e sprofondare nel flutto.
Lo spettatore veramente estetico immagina che l’artista
tragico simile alla divinità dell’individuatio,
crea le sue figure, poi però con il suo enorme istinto dionisiaco ingoia tutto
questo mondo di apparenze, per fare intuire attraverso la sua distruzione una
gioia primigenia in grembo all’uno originario. I cultori di estetica non sanno
dire nulla di questo ritorno alla patria originaria, e invece dicono che il
vero elemento tragico è la lotta dell’eroe con il destino (cfr. A. W.
Schlegel), la vittoria dell’ordinamento morale del mondo o lo scaricarsi di
affetti prodotto dalla tragedia (cfr. Aristotele, Poetica). Questi non sono uomini esteticamente eccitabili (p. 147).
Al massimo sono esseri morali davanti alla tragedia
Schlegel: “Gli antichi vedevano nel Destino una divinità
tetraeimplacabile, abitatrice d’una sfera inaccessibile e mnolto al di sopra a
quella degli Dei ( Corso di letteratura
drammatica, p 57)
Nessuno ha spiegato invece l’attività estetica degli
spettatori.
La catarsi di Aristotele sembra una scarica patologica di
cui non è chiaro se sia da annoverare tra i fenomeni della medicina o quelli
della morale (p. 148). Questo dubbio richiama una singolare intuizione di
Goethe il quale scrisse a Schiller (9 dicembre 1797) di non riuscire a
elaborare una situazione tragica senza un vivo interesse patologico; ed era un
altro privilegio degli antichi “che per loro anche le cose più patetiche
fossero solo un gioco estetico”, Nella tragedia musicale appunto le cose più
patetiche diventano un gioco estetico.
L’ascoltatore estetico non è il critico “con pretese a metà
morali a metà erudite”. Il critico è un essere pretenziosamente arido e
incapace di godimento. I giornali predispongono il pubblico a questo
atteggiamento. Gli autori dovettero adeguarsi a tale pubblico invocando
l’ordine morale del mondo. Oppure l’autore presentava nel dramma l’attualità
politica e sociale, in modo che lo spettatore provasse passioni simili a quelle
che si provano davanti alla tribuna oratoria del parlamento o del tribunale.
Schiller volle impiegare il teatro come istituto per la
formazione morale del popolo, ma questa tendenza è superata.
Il critico prendeva il sopravvento nel teatro, il
giornalista nella scuola, la stampa nella società, e l’arte degenerava mentre
la critica estetica veniva utilizzata come tessuto connettivo di una
socievolezza egoistica il cui senso viene fatto capire dalla parabola dei
porcospini di Schopenhauer , sicché si chiacchiera dell’arte e non la si
considera.
In Parerga e Paralipomena
II, p. 884 i porcospini trovarono una moderata distanza reciproca per non
sentire freddo e non pungersi.
Così gli uomini provano bisogno di compagnia per il vuoto
della loro interiorità e disgusto del prossimo. La distanza media con la
cortesia e le buone maniere rende possibile la coesistenza.
“Colui però che possiede molto calore interno preferisce
rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli”.
continua
Condivido pienamente;infatti la musica contemporanea è dissonante,brutta,dissacrante,ripetitiva. Giovanna Tocco
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