Andai a bere un caffè. Ci misi lo zucchero. Mi rinfrancai
pur pensando che ancora una volta occupavo il tempo con quella specie di droga.
“L’alcol è peggio - pensai - prima ti eccita, poi ti stordisce e ti fa
invecchiare. Rende equivoca la lussuria e tante altre cose - ricordai[1].
Citare gli auctores accrescitori,
agli altri e a me stesso, mi ha sempre aiutato. Finita la pausa, tornai a
rimuginare su Ifigenia, equivoca-equivocatrice pure lei. Anche se mi ingannava,
e chissà cosa diavolo voleva da me poiché regali non gliene facevo, io non
dovevo perdere lo stile, il ritmo e l’aspetto acquistati con anni di sacrifici:
avevo raggiunto una discreta cultura, avevo carisma con i ragazzi e potevo educarli
al bello e al bene. Dovevo accrescere le mie forze e le capacità educative. Lo
studio e l’educazione erano i compiti della mia vita. Cominciavo a capirlo.
Erano i fini. Gli eventi amorosi erano mezzi. Potevo perfino utilizzare le
emozioni cattive per potenziare la mia forza di educatore. Questa anzi doveva
arrivare a sublimarsi nell’arte, nelle forme eterne della bellezza, elevarsi
fino all’educazione di un popolo intero. Ifigenia mi faceva crescere non solo e
non tanto con la gioia, ma anche, e in quel momento soprattutto, con il dolore.
Me lo sarei lasciato infliggere finché non ne avessi trovato il significato.
Allora sopra le lacrime avrei sorriso per l’intelligenza della pena e ne avrei
tratto frutti gustosi. Mi stavo avvicinando al centro, al compito della mia
vita. Entrai nel Museo. Era dal 1966, quando ci portarono i professori di
allora, che non mettevo piede là dentro. Quello era il tempo della feccia della
mia vita. L’avevo bevuta tutta, poi avevo cominciato a estrarre intelligenza
dal dolore non nascondendolo a me stesso né agli altri. Lo superai comprendendo
che se non lo smaltivo mi avrebbe impedito di compiere quanto costituiva la
ragione della mia esistenza terrena. Infine avevo capito che è stolto chi vive
per soffrire. Quella mattina lontana avevo notato, per la ridicula iunctura, una Debreceni
Venus, Venere di Debrecen, non bella per giunta. Come dire lo Zeus di Osimo
o di Castelfidardo. Da allora erano passati tredici anni nei quali gli autori e
le amanti avevano risvegliato il mio senso del bello. Vidi e notai i quadri di
Munkácsy che mostrano alcuni aspetti e significati dell’Ungheria e del popolo
magiaro: il pittore aveva evidenziato i caratteri peculiari, la malinconia
della sua terra e lo zingaresco romanticismo della sua gente. Altri dipinti mostrano
donne sole, oppure con cani e bambini. Osservando questi, scattò il nesso con
la donna che mi stava mentendo e facendo soffrire. Pensai che sarebbe rimasta
sola lei pure, siccome voleva usare gli uomini e finiva che veniva usata poiché
mirava a gente più forte e ancora meno buona di lei poveretta.
Uscii nella luce del sole un poco rasserenato poiché
cominciavo a capire. Girai a lungo finché venne l’ora di cena. Tornai in
collegio, entrai nella mensa sonora delle voci contente dei giovani che a
coppie o a piccoli gruppi prendevano accordi per passare in compagnia la bella
notte estiva. All’epoca i ragazzi e le ragazze si guardavano in faccia e si
parlavano. Ora fissano orrendi aggeggi pigiando dei tasti con mani frenetiche.
Non sanno più osservare, riflettere, nemmeno parlare. Avrei dovuto mangiare, ma
il cibo pur buono non mi attirava. Prima dovevo smaltire del tutto la pena. Mi
ero seduto a un tavolo di vietnamiti. Avevo simpatia per quel popolo. Ricordai
quando cantavamo “il Vietnam è comunista, giù le mani dal Vietnam”. Avrei voluto
parlare con loro, ma non capivano l’inglese. Mi alzai e andai a sdraiarmi nel
prato fra i due collegi: era luminoso di luna. Alcuni giovani cantavano con
garbo e con allegria. Uno suonava la chitarra. Osservarli, ascoltarli e
guardare il cielo era un ottimo antidoto al veleno dell’angoscia iniettata nel
pomeriggio. Cantavano in coro al lume della luna alta sul prato sentendosi
uniti: mi facevano tornare in mente il meglio della mia vita, dalle Elene, a
Kaisa, a Päivi a Ifigenia dell’ultimo inverno. Le avevo perse ma c’erano state.
Grandi doni avevo avuto, grandissimi. Dovevo essere grato.
“Tredici anni sono passati. - pensavo - La mia faccia si è
segnata di rughe, i capelli un po’ diradati, delle speranze sono svanite, ma
solo perché non erano ragionevolmente fondate. Ora saranno questi nuovi giovani
ad avere illusioni ed è bene così. Debrecen è sempre piena di mito e poesia, un
luogo dove si studia, si parla, si canta, si fa l’amore. Tutto il meglio della
vita”. Ricordai che uno studente di Parma anni prima aveva detto: “la stranezza
di questo luogo è che qui la gente non si odia, qui anzi le persone sono
benevolmente curiose le une delle altre”.
“Che stranezza, che stranezza santa. - pensai - Questo era
il vero significato della nostra università estiva”.
Guardavo i giovani e continuavo a pensare.
giovanni ghiselli
Mi piace. Giovanna Tocco
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