Ananke |
La fine, quasi lieta, del rimuginare
Quei giovani contenti, festivi, e pure educati, suscitavano
la mia simpatia, oramai quasi paterna. Sentivo anche una certa malinconia
siccome non ero più capace di provare le scosse emotive che mi avevano le tre
finlandesi di cui ho raccontato le storie che mi avevano reso felice per tre
mesi negli anni di mia salvazione 1971, 72, 74; la forza dei miei sensi amorosi
era ormai tutta impiegata nel tentativo di risolvere gli enigmi di quella
sfinge lontana che mi occupava l’anima intera: le sue parole ambigue, i suoi
ostinati, misteriosi silenzi mi impedivano di interessarmi ad altre persone.
Perché mi interessava tanto colei?
Pensavo che Ifigenia equivalesse alla Necessità che ha la
forza suprema, l’Ananche sulla quale neppure Zeus può averla vinta. Senza quella donna in quel tempo mi sarei
trovato nel vuoto di pensieri concreti, di desideri forti, di impegni reali.
Gli amori mestruali con le straniere, o con le italiane in vacanza, non mi
interessavano più. Nemmeno la luce della luna che faceva brillare i capelli
odorosi delle ragazze, rischiarava le alte chiome delle querce antiche e
illuminava i rami contorti degli alberi strani mi commuovevano, né mi facevano
sentire vivo come il pensiero di Ifigenia che mi invadeva l’anima. Se lei mi
avesse spedito tre righe mi avrebbe reso felice più di una vittoria olimpica o
di un trofeo letterario. Non ero ancora abbastanza pratico della vita per avere
capito che se volevo essere privo di turbamenti non dovevo fare dipendere il mio
benessere dal favore di un’altra persona, chiunque, qualunque ella sia. Ora lo
so. Sentivo solo che in ogni maniera, spogliandosi davanti a me, certo, ma
anche non scrivendomi e non facendosi trovare in casa, quella donna mi
emozionava e disannoiava. Perciò mi sforzai di pensare che non mi stesse
tradendo, che presto, la mattina seguente, avrei ricevuto la posta agognata.
Del resto, anche se mentiva, tradiva, non mi scriveva, nell’anno di grazia
1979, era lei, solo lei, la persona che poteva farmi procedere, metodicamente,
sulla mia via[1]. Se non fosse stato così,
non ne avrei sofferto la mancanza in quella maniera.
Pensavo pure, e questo realisticamente,
che Ifigenia, anche se, come probabile, non mi amava, non mi avrebbe lasciato,
siccome nel suo opportunismo capiva che il mio bisogno di lei era anche una
necessità di darle una mano della quale aveva necessità. E ne faceva gran
conto. Con tali pensieri cercavo di smaltire la pena. Mi vennero in mente i
momenti migliori dei mesi belli passati insieme, quando la gioia incrementava e
potenziava le vite nostre, reciprocamente. Non dovevo rinnegare tanta grazia
ricevuta da quella giovane donna e da Dio, chiunque egli fosse, per una lettera
che ritardava. Non volevo, e non potevo drizzare la prua della mia vita contro
l’onda del fato.
“Sii nobile - mi dissi alla fine di tanto rimuginare - ama
il demone tuo. Tu sei il tuo destino. E lei ne fa parte. Non puoi non amare il
tuo fato se ami te stesso. A un certo punto non ci saranno più dubbi e allora
sarà tutto finito, ma ora i giochi non sono chiusi per sempre. Tu hai ancora
bisogno di lei e lei di te, altrimenti ti avrebbe già liquidato, come fece con
il suo ex quando ti ha conosciuto”.
Intanto, mentre i giovani fusi per herbam , raggruppati per lingua e nazione, cantavano a
turno le canzoni dei loro flolclori nazionali e l’amabile luna seminava una
rugiada di perle sui capelli, sulle braccia e sulle gambe abbronzate delle
fanciulle, io avevo annientato ogni
angoscia autorizzando il mio istinto con l’esperienza, con l’intelligenza e con
il doloroso amore della vita, la mia e
quella dell’universo.
giovanni ghiselli, detto gianni, il poverello di Pesaro.
Giovanna Tocco
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