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martedì 15 maggio 2018

Edipo a Colono. Parte 1

Per Gabriel Wickenberg, Oedipus e Antigone


Edipo a Colono

La doppia natura di Edipo: attiva e passiva.
L' Edipo di Sofocle insomma è doppio: tiranno e benefattore.
Secondo Nietzsche i due momenti e aspetti cruciali di Edipo sono quelli dell'attività (negativa) e della passività (positiva): "La figura più dolorosa della scena greca, lo sventurato Edipo, è stata concepita da Sofocle come l'uomo nobile che è destinato all'errore e alla miseria nonostante la sua saggezza, ma che alla fine, in virtù del suo immenso soffrire, esercita intorno a sé un'azione magica e benefica, che è ancora efficace dopo la sua dipartita… Nell'Edipo a Colono incontriamo questa stessa serenità, ma elevata sino a una infinita trasfigurazione; contrapposta al vecchio che è oppresso da un eccesso di miseria ed è abbandonato soltanto come sofferente a tutto ciò che lo colpisce-sta la serenità ultraterrena che s'irradia dalla sfera divina e ci accenna come l'eroe possa raggiungere, con il suo comportamento puramente passivo, la sua più alta attività, che si estende molto al di là della sua vita, mentre tutti i suoi sforzi consapevoli nella vita precedente l'avevano condotto solo alla passivita...Nella tragedia antica si era potuta sentire alla fine la consolazione metafisica... nel modo più puro l'accento di una conciliazione proveniente da un altro mondo risuona forse nell'Edipo a Colono"[1]. Lì infatti Ismene dice al padre: nu'n ga;r qeoiv s j ojrqou'si, provsqe d j w[llusan (v. 394), ora ti raddrizzano gli dèi, prima invece ti abbattevano.
L'Edipo di Sofocle attraverso la passività consegue la seconda, non precaria e definitiva apoteosi:"La prima apoteosi consiste nell'abbattimento della Sfinge e nell'ascesa al trono.
La seconda apoteosi nell'inghiottimento del martire da parte della terra e nella sua deificazione. E' caratteristico però per l'antica, sana Grecia il fatto che come divinità egli non sia il difensore dei sofferenti, ma diventi il difensore della città dai pericoli militari. La parte che possederà il suo cadavere riporterà la vittoria"[2].
La propria passività viene proclamata da Edipo ai vecchi di Colono: "ejpei; tav e[rga mou-peponqovt j i[sqi ejsti; ma'llon h] dedrakovta" (Edipo a Colono, vv. 266-267), poiché le mie azioni sono state subite piuttosto che fatte. Lo stesso afferma "the lunatic King "[3] di Shakespeare: "I am a man/more sinned against than sinning" (King Lear, III, 2), sono uno contro cui si è peccato più di quanto io abbia peccato.

Nell’Edipo a Colono di Sofocle (vv. 621-622) c’è “un’immagine quasi vampiresca…: un cadavere freddo e addormentato si vivifica d’improvviso per succhiare il sangue dei nemici. E’ quanto succede alle ombre dei morti in Omero, Od. XI 34-50 che si rianimano solo dopo aver bevuto il sangue fresco delle vittime”[4].
Il termine turanniv~ in particolare allude a un potere malvagio, tipico di una città malata, ossia di Tebe. Ad Atene non c’è il potere assoluto e senza controllo del despota. Nell’Edipo a Colono di Sofocle in particolare si nota questa distanza politica e morale tra le due città. Ma io credo che anche le Baccanti dopo tutto costituiscano un manifesto antitebano.
Sentiamo Guidorizzi sull’Edipo a Colono.
“La natura del potere di Teseo è descritta in vari modi nel corso del dramma: oltre che basileuv~, parola che esprime una generica regalità, anche kuvrio~ (v. 288), hJgemwvn (v. 289), kraivnwn (v. 862), koivrano~ (vv. 1287, 1759); in nessun momento viene designato come tuvranno~, termine riservato invece a Creonte e agli altri Tebani, esponenti di una città “malata” in cui il potere è esercitato non solo dispoticamente e contro giustizia ma anche nel disordine delle guerre civili…Creonte e Polinice appaiono, ciascuno a suo modo, come esponenti di una politica corrotta e infatti solo in relazione a loro si adoperano i termini “tiranno” e “tirannia”. Atene e Tebe, con i loro rispettivi ordinamenti politici, si configurano come due universi politici contrapposti, in cui la convivenza sociale è in un caso giusta e civile, nell’altro oppressiva e illegittima. Questo tema costituisce un motivo forte del dramma, che si sviluppa con coerenza lungo tutta la trama ed è del resto un elemento strutturale dell’ideologia politica simboleggiata nel dramma attico, dove Tebe costituisce per eccellenza l’anti-città, dove la vita civile assume aspetti patologici rispetto a quella di Atene”[5].
L'ira di Edipo continuerà a colpire i nemici anche dopo la morte: nell' Edipo a Colono Ismene dice al padre che un giorno il suo cadavere sarà un grave peso (bavro" , v. 409) per i Cadmei, quindi la ragazza precisa: "th'" sh'" uJp ' ojrgh'", soi'" o{tan stw'sin tavfoi" " (v. 411), a causa della tua ira, quando staranno presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413).

Nell' Edipo a Colono il cieco ha imparato ad ascoltare:"Egli chiede informazioni sul luogo in cui si trova, sulla natura e gli usi che sono propri di tale luogo, nonché sui modi di adeguarsi ad essi. "Nascondimi nel bosco, finché abbia sentito che cosa diranno" (vv. 114-115), dice ad Antigone. E il coro si rivolge a lui per la prima volta con queste parole:"Odi, o infelice errante? (v. 165). Antigone lo avverte:"E' meglio che entriamo ora, e che li ascoltiamo (v. 171). "Alla voce, vedo"[6] (v. 138). Essere vivi è ascoltare: il Coro descrive la morte come "senza imenei senza lira senza cori" (v. 1222). Edipo impara la preghiera dal Coro ascoltando (ajkou'sai bouvlomai[7], v. 485). Se nel Tyrannos non riusciva a smascherare con lo sguardo l'inganno di Creonte, nell' Epi Kolonoi ci riesce con l'udito (ajkouveq ', v. 881)"[8].
Anche re Lear suggerisce di vedere dalla voce quando dice al cieco Gloster:"A man may see how this world goes, with no eyes. Look with thine ears- lat. – auris -is femm-orecchio " (King Lear, IV, 6), un uomo può vedere come va il mondo anche senza occhi. Guarda con gli orecchi. cfr. Edipo a Colono: “ fwnh'/ ga;r oJrw,-to; fatizovmenon ” (vv. 139-140), dalla voce infatti vedo, come suol dirsi.

Il riso dei nemici
Nell’Edipo a Colono, Teseo chiama a raccolta fanti e cavalieri contro Creonte e i Tebani che hanno rapito le figlie di Edipo: “wJ~ mh; parevlqws j aiJ kovrai , gevlw~ d’ ejgw;-xevnw/ gevnwmai tw`/de ceirwqei;~ biva/ (vv. 902-903), perché le ragazze non spariscano, ed io non divenga oggetto di riso per lo straniero cedendo a questa prepotenza.
“la rabbia di diventare oggetto della derisione dei nemici trionfanti è un elemento tipico della morale binaria arcaica ( che consiste nell’odiare i nemici e amare gli amici) e forma un nesso che si potrebbe dire quasi formulare, ved. p. es. Euripide, Her. Fur. 285 ejcqroi`si gevlwn didovnta~.ù
Megara dice: non dobbiamo morire consumati dal fuoco dando motivo di riso ai nemici (ejcqroi'sin gevlwn-didovnta", 285-286), cosa che per me è più grave della morte (ouJmoi; tou' qanei'n mei'zoin kakovn).

Il riso dei nemici è un’ossessione dell’eroe sofocleo, un residuo della civiltà di vergogna che condiziona l’agire dei personaggi: è un’offesa al loro senso dell’onore, uno sfregio intollerabile inferto pubblicamente che è il segno di una sconfitta, ved. p. es. Ai. 367 oi[moi gevlwto~, Ant. 839 oi[moi gelw`mai, Phil. 1125 gela`/ mou (Filottete a proposito di Odisseo). Nell’ Edipo re (v. 1445) Creonte si rivolge al cieco Edipo dicendogli di essere venuto oujc wJ~ gelasthv~ (ved. anche Knox, pp. 30-1)[9].
Quando Alessandro Magno si apprestava a fondare Alessandria jEscavth, l’ultima, sul fiume Tanai, gli Sciti d’Asia al di là del fiume lanciavano insolenze barbariche “barbarikw`~ ejqrasuvnanto[10] contro il comandante macedone per offenderlo, gridando che non avrebbe osato attaccarli. Quindi Alessandro ordinò dei sacrifici che però non venivano bene; li fece ripetere e l’indovino Aristandro spiegò che essi indicavano un pericolo per lui. Il condottiero macedone allora disse che era meglio affrontare l’estremo pericolo[11] (krei'sson e[fh ej" e[scaton kinduvnon ejlqei'n) piuttosto che, dopo avere sottomesso quasi tutta l’Asia, gevlwta ei\nai Skuvqai~ (4, 4, 3), essere oggetto di riso per gli Sciti, come era stato una volta Dario, il padre di Serse[12]. Questi re persiani sono due contromodelli.


CONTINUA



[1]La nascita della tragedia , p. 65 e p. 117.
[2] V. Propp, Edipo alla luce del folclore, p. 134.
[3] Il re matto (Re Lear, III, 7)
[4] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 280.
[5] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 218.
[6] fwnh'/ ga;r oJrw' , dalla voce infatti vedo.
[7] Ascoltare voglio.
[8] J. Hillman, Variazioni su Edipo , p. 129.
[9] Avezzù-Guidorizzi, Op. cit., p. 317.
[10] Arriano, Anabasi di Alessandro, 4, 4, 2.
[11] Il maestro che spinge alle imprese pericolose è Pindaro la cui casa venne risparmiata da Alessandro Magno quando (335 a. C.) distrusse Tebe che si era ribellata.
Nell’Olimpica VI si legge :“ ajkivndunoi d j ajretaiv-ou[te par j ajndravsin ou[t j ejn nausi; koivlai"-tivmiai” ( vv. 9-11), virtù senza pericolo non hanno onore tra gli uomini, né sulle concave navi.
[12] Erodoto nel IV libro racconta che gli Sciti schierati davanti ai Persiani si misero a inseguire una lepre. Allora Dario capì che quegli uomini lo disprezzavano e comprese il significato del dono simbolico che aveva ricevuto : un uccello, un topo, una rana e cinque frecce. Era giusta l’interpretazione di Gobria: se diventati uccelli non volerete in cielo, o topi non andrete sotto terra, o rane non salterete nelle paludi, sarete trafitti da queste frecce(4, 132). Gobria, sentito della lepre, disse che vedeva che quegli uomini si prendevano gioco dei Persiani: “oJrw'n ejmpaivzonta" hJmi'n” (4, 134, 3).

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