Per Gabriel Wickenberg, Oedipus e Antigone |
Edipo a Colono
La
doppia natura di Edipo: attiva e passiva.
L'
Edipo di Sofocle insomma è doppio: tiranno e benefattore.
Secondo
Nietzsche i due momenti e aspetti cruciali di Edipo sono quelli dell'attività
(negativa) e della passività (positiva): "La figura più dolorosa della
scena greca, lo sventurato Edipo, è stata concepita da Sofocle come
l'uomo nobile che è destinato all'errore e alla miseria nonostante la sua
saggezza, ma che alla fine, in virtù del suo immenso soffrire, esercita intorno
a sé un'azione magica e benefica, che è ancora efficace dopo la sua dipartita… Nell'Edipo
a Colono incontriamo questa stessa serenità, ma elevata sino a una
infinita trasfigurazione; contrapposta al vecchio che è oppresso da un eccesso
di miseria ed è abbandonato soltanto come sofferente a tutto ciò che lo
colpisce-sta la serenità ultraterrena che s'irradia dalla sfera divina e ci
accenna come l'eroe possa raggiungere, con il suo comportamento puramente
passivo, la sua più alta attività, che si estende molto al di là della sua
vita, mentre tutti i suoi sforzi consapevoli nella vita precedente l'avevano
condotto solo alla passivita...Nella tragedia antica si era potuta sentire alla
fine la consolazione metafisica... nel modo più puro l'accento di una
conciliazione proveniente da un altro mondo risuona forse nell'Edipo a
Colono"[1]. Lì infatti Ismene dice al
padre: nu'n ga;r qeoiv s j
ojrqou'si, provsqe d j w[llusan
(v. 394), ora ti raddrizzano gli dèi, prima invece ti abbattevano.
L'Edipo
di Sofocle attraverso la passività consegue la seconda, non precaria e
definitiva apoteosi:"La prima apoteosi consiste nell'abbattimento della
Sfinge e nell'ascesa al trono.
La
seconda apoteosi nell'inghiottimento del martire da parte della terra e nella sua deificazione. E' caratteristico
però per l'antica, sana Grecia il fatto che come divinità egli non sia il
difensore dei sofferenti, ma diventi il difensore della città dai pericoli
militari. La parte che possederà il suo cadavere riporterà la
vittoria"[2].
La
propria passività viene proclamata da Edipo ai vecchi di Colono: "ejpei; tav e[rga mou-peponqovt j i[sqi ejsti;
ma'llon h] dedrakovta"
(Edipo a Colono, vv. 266-267), poiché le mie azioni sono state
subite piuttosto che fatte. Lo stesso afferma "the lunatic King "[3] di Shakespeare: "I am a
man/more sinned against than sinning" (King Lear, III, 2), sono
uno contro cui si è peccato più di quanto io abbia peccato.
Nell’Edipo a Colono
di Sofocle (vv. 621-622) c’è “un’immagine quasi vampiresca…: un cadavere freddo
e addormentato si vivifica d’improvviso per succhiare il sangue dei nemici. E’
quanto succede alle ombre dei morti in Omero, Od. XI 34-50 che si rianimano solo dopo aver bevuto il sangue
fresco delle vittime”[4].
Il termine turanniv~
in particolare allude a un potere malvagio, tipico di una città malata, ossia
di Tebe. Ad Atene non c’è il potere assoluto e senza controllo del despota.
Nell’Edipo a Colono di Sofocle in
particolare si nota questa distanza politica e morale tra le due città. Ma io
credo che anche le Baccanti dopo
tutto costituiscano un manifesto antitebano.
Sentiamo
Guidorizzi sull’Edipo a Colono.
“La natura del
potere di Teseo è descritta in vari
modi nel corso del dramma: oltre che basileuv~, parola che esprime una generica
regalità, anche kuvrio~ (v. 288), hJgemwvn
(v. 289), kraivnwn
(v. 862), koivrano~ (vv. 1287, 1759); in nessun momento
viene designato come tuvranno~, termine riservato invece
a Creonte e agli altri
Tebani, esponenti di una città “malata” in cui il potere è esercitato non solo
dispoticamente e contro giustizia ma anche nel disordine delle guerre
civili…Creonte e Polinice appaiono, ciascuno a suo modo, come esponenti di una
politica corrotta e infatti solo in relazione a loro si adoperano i termini
“tiranno” e “tirannia”. Atene e Tebe, con i loro rispettivi ordinamenti
politici, si configurano come due universi politici contrapposti, in cui la
convivenza sociale è in un caso giusta e civile, nell’altro oppressiva e
illegittima. Questo tema costituisce un motivo forte del dramma, che si sviluppa
con coerenza lungo tutta la trama ed è del resto un elemento strutturale
dell’ideologia politica simboleggiata nel dramma attico, dove Tebe costituisce per eccellenza l’anti-città, dove la vita
civile assume aspetti patologici rispetto a quella di Atene”[5].
L'ira di Edipo
continuerà a colpire i nemici anche dopo la morte: nell' Edipo a Colono Ismene dice al padre che un giorno il suo
cadavere sarà un grave peso (bavro" , v. 409) per i Cadmei,
quindi la ragazza precisa: "th'"
sh'" uJp ' ojrgh'",
soi'" o{tan stw'sin tavfoi" " (v. 411), a causa della tua ira, quando staranno
presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413).
Nell' Edipo a
Colono il cieco ha imparato ad ascoltare:"Egli chiede
informazioni sul luogo in cui si trova, sulla natura e gli usi che sono propri
di tale luogo, nonché sui modi di adeguarsi ad essi. "Nascondimi nel
bosco, finché abbia sentito che cosa diranno" (vv. 114-115), dice ad
Antigone. E il coro si rivolge a lui per la prima volta con queste parole:"Odi,
o infelice errante? (v. 165). Antigone lo avverte:"E' meglio che entriamo
ora, e che li ascoltiamo (v. 171). "Alla voce, vedo"[6] (v. 138). Essere
vivi è ascoltare: il Coro descrive la morte come "senza imenei senza lira
senza cori" (v. 1222). Edipo impara la preghiera dal Coro ascoltando (ajkou'sai bouvlomai[7], v.
485). Se nel Tyrannos non riusciva a smascherare con lo sguardo
l'inganno di Creonte, nell' Epi Kolonoi ci riesce con l'udito (ajkouveq ', v. 881)"[8].
Anche re Lear suggerisce di vedere dalla voce quando dice al
cieco Gloster:"A man may see how
this world goes, with no eyes. Look with thine ears- lat. – auris -is femm-orecchio " (King Lear, IV, 6), un uomo può
vedere come va il mondo anche senza occhi. Guarda con gli orecchi. cfr. Edipo a Colono: “ fwnh'/ ga;r oJrw,-to; fatizovmenon ” (vv.
139-140), dalla voce infatti vedo, come suol dirsi.
Il riso dei nemici
Nell’Edipo a Colono,
Teseo chiama a raccolta fanti e cavalieri contro Creonte e i Tebani che hanno
rapito le figlie di Edipo: “wJ~ mh;
parevlqws j aiJ kovrai , gevlw~ d’ ejgw;-xevnw/ gevnwmai tw`/de ceirwqei;~
biva/ (vv. 902-903), perché le ragazze non spariscano, ed io non divenga
oggetto di riso per lo straniero cedendo a questa prepotenza.
“la rabbia di diventare oggetto della derisione dei nemici
trionfanti è un elemento tipico della morale binaria arcaica ( che consiste
nell’odiare i nemici e amare gli amici) e forma un nesso che si potrebbe dire
quasi formulare, ved. p. es. Euripide, Her. Fur. 285 ejcqroi`si gevlwn didovnta~.ù
Megara dice: non dobbiamo morire consumati dal fuoco dando
motivo di riso ai nemici (ejcqroi'sin
gevlwn-didovnta", 285-286), cosa che per me è più grave della morte
(ouJmoi; tou' qanei'n mei'zoin kakovn).
Il riso dei nemici è un’ossessione dell’eroe sofocleo, un
residuo della civiltà di vergogna che condiziona l’agire dei personaggi: è
un’offesa al loro senso dell’onore, uno sfregio intollerabile inferto
pubblicamente che è il segno di una sconfitta, ved. p. es. Ai. 367 oi[moi gevlwto~,
Ant. 839 oi[moi gelw`mai, Phil.
1125 gela`/ mou (Filottete a
proposito di Odisseo). Nell’ Edipo re
(v. 1445) Creonte si rivolge al cieco Edipo dicendogli di essere venuto oujc wJ~ gelasthv~ (ved. anche Knox, pp.
30-1)[9].
Quando Alessandro Magno si apprestava a fondare Alessandria jEscavth, l’ultima, sul fiume Tanai, gli
Sciti d’Asia al di là del fiume lanciavano insolenze barbariche “barbarikw`~ ejqrasuvnanto”[10]
contro il comandante macedone per offenderlo, gridando che non avrebbe osato
attaccarli. Quindi Alessandro ordinò dei sacrifici che però non venivano bene;
li fece ripetere e l’indovino Aristandro spiegò che essi indicavano un pericolo
per lui. Il condottiero macedone allora disse che era meglio affrontare
l’estremo pericolo[11] (krei'sson e[fh ej" e[scaton kinduvnon
ejlqei'n) piuttosto che, dopo avere sottomesso quasi tutta l’Asia, gevlwta ei\nai Skuvqai~ (4, 4, 3), essere
oggetto di riso per gli Sciti, come era stato una volta Dario, il padre di
Serse[12].
Questi re persiani sono due contromodelli.
CONTINUA
[1]La nascita della
tragedia , p. 65 e p. 117.
[2] V. Propp, Edipo alla
luce del folclore, p. 134.
[3] Il re matto (Re Lear,
III, 7)
[4] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a
Colono, p. 280.
[5] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 218.
[6] fwnh'/ ga;r oJrw' , dalla voce infatti vedo.
[7] Ascoltare voglio.
[8] J. Hillman, Variazioni
su Edipo , p. 129.
[9] Avezzù-Guidorizzi, Op.
cit., p. 317.
[10] Arriano, Anabasi di Alessandro, 4, 4, 2.
[11] Il maestro che spinge alle imprese pericolose è
Pindaro la cui casa venne risparmiata da Alessandro Magno quando (335 a . C.) distrusse Tebe che
si era ribellata.
Nell’Olimpica VI si legge :“ ajkivndunoi d j ajretaiv-ou[te par j ajndravsin ou[t j
ejn nausi; koivlai"-tivmiai” ( vv.
9-11), virtù senza pericolo non hanno onore tra gli uomini, né sulle concave
navi.
[12] Erodoto nel IV libro racconta che gli Sciti schierati
davanti ai Persiani si misero a inseguire una lepre. Allora Dario capì che
quegli uomini lo disprezzavano e comprese il significato del dono simbolico che
aveva ricevuto : un uccello, un topo, una rana e cinque frecce. Era giusta
l’interpretazione di Gobria: se diventati uccelli non volerete in cielo, o topi
non andrete sotto terra, o rane non salterete nelle paludi, sarete trafitti da
queste frecce(4, 132). Gobria,
sentito della lepre, disse che vedeva che quegli uomini si prendevano gioco dei
Persiani: “oJrw'n
ejmpaivzonta" hJmi'n”
(4, 134, 3).
Giovanna Tocco
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