Eracle di Euripide (416
circa)
Prologo (1-106)
Nel prologo Amfitrione si presenta come figlio di Alceo, nipote di Perseo e
padre di Eracle. Il vecchio che è Argivo, si trova a Tebe , la città degli Sparti
dove regnava Creonte figlio di Meneceo e padre di Megara che Eracle sposò. Poi
però Eracle è andato ad Argo da dove Anfitrione è dovuto andare in esilio per
avere ucciso il suocero Elettrione, padre di Alcmena. Eracle per potere
rimanere ad Argo e portarci i suoi, ha offerto a Euristeo misqo;n mevgan (19), un alto prezzo del
ritorno (kaqovdou): ejxhmerw'sai gai'an (20), bonificare la
terra, liberarla dai mostri (h{mero",
domestico, mite, mansueto). L’eroe è domato dagli sproni di Era oppure agisce
secondo la necessità (tou' crew;n mevta).
La necessità è la potenza superiore a tutte già nell’Alcesti del 438 e ancor prima nel Prometeo incatenato di Eschilo.
Prometeo sopporta di sapere il
suo destino senza venirne schiacciato, ma sa che gli uomini non sarebbero
capaci di reggere una simile tensione (v. 514): “ tevcnh d j ajnavgkh" ajsqenestevra makrw'/”, la
conoscenza pratica è molto più debole della necessità.
Cfr. a questo proposito Curzio Rufo: “Ceterum, efficacior omni arte, necessitas non usitata modo praesidia, sed quaedam
etiam nova adnovit”( Historiae
Alexandri Magni, IV, 3, 24), del resto la necessità più potente di ogni
tecnica, suggerì loro non solo i soliti mezzi di difesa ma anche dei nuovi.
Sono i Tirii che si difendono dall’assedio di Alessandro Magno nel 332 a. C.
Avanzando nella Sogdiana Al. si
trovò in difficoltà per il freddo e incendiò un bosco: “efficacior in adversis necessitas
quam ratio, frigoris remedium
invenit” (8, 4, 11). Ancora la necessità che prevale sulla ratio (cfr. 7, 7, 10: necessitas ante rationem est).
Il potere assoluto dell' jjjjAnavgkh verrà apertamente affermato da
Euripide nell'Alcesti. Nel terzo
Stasimo della tragedia più antica ( è del 438) tra le diciassette a noi
pervenute, il Coro eleva un inno alla Necessità vista come la divinità massima,
quella che vincola e subordina tutti, compresi gli dèi:
"Io attraverso le muse/mi
lanciai nelle altezze, e/ho toccato moltissimi ragionamenti (pleivstwn aJyavmeno" lovgwn),/ma non ho trovato niente più forte/della
Necessità né alcun rimedio (krei'sson oujde;n jAnavgka"-hu|ron oujdev ti
favrmakon)/nelle tavolette tracie che scrisse la voce di/Orfeo, né
tra quanti rimedi/diede agli Asclepiadi Febo/dopo averli ricavati dalle erbe
come antidoti/per i mortali afflitti dalle malattie"(vv. 962-972). Da
questi versi si vede che la
Necessità è più forte del lovgo"
, della poesia, dell'arte medica.
Alcuni versi prima, nel terzo
episodio, Eracle aveva affermato l’impotenza della tevcnh nei confronti della tuvch:
“non è chiaro dove procederà il passo della sorte (to; th'" tuvch"), e non è insegnabile (ouj didaktovn) e non si lascia prendere
dalla tecnica (oujd j aJlivsketai tevcnh/
)” (vv. 785-786)
La fatica in corso è quella
relativa a Cerbero: Eracle è andato nell’Ade Tainavrou
dia; stovma, attraverso la bocca del Tenaro e di là non è tornato.
Nelle Rane di Aristofane,
Dioniso chiede a Eracle di insegnargli la strada che fece quando andò a
prendere Cerbero. Indicargli i porti (livmenaς)
le panetterie (ajrtopwvlia) i
bordelli pornei'a, le fermate, i
crocicchi, le fontane (krhvnaς),
strade, città. E gli alloggi dove ci sono meno cimici (vv. 112-114). C’è
specularità tra il mondo terreno e quello infero.
La via più breve, dice Eracle è
il suicidio: corda e sgabello per impiccati. Poi c’è to; kwvneion, la cicuta
Quindi Eracle racconta il suo viaggio. Si
arriva a un grande lago, poi si sale su una barchetta dove un gevrwn nauvthς,
un vecchio barcaiolo, ti traghetterà per due oboli (cfr. la Morte a Venezia e il ramo d’oro dell’Eneide). Due oboli era il compenso medio degli Ateniesi, quindi Eracle
dice che laggiù li portò Teseo.
Poi si passa tra i dannati: bovrboron, fango, to; skw'r -skatovς merda, scatologia, parlare di
escrementi.
Dentro ci sta chi offese
l’ospite xevnon hjdivkhse, o chi ha
inculato un ragazzo senza pagarlo- h}
pai'da kinw'n tajrguvrion uJfeivleto, chi ha picchiato la madre o il
padre, chi ha giurato falso ejpivorkon
o{rkon w[mosen (150) e il drammaturgo che commette plagio da Morsimo,
scadente poeta tragico.
Più avanti si trovano gli
iniziati (oiJ memuhmevnoi da muevw, inizio ai misteri) tra uno spirar
di flauti aujlw'n pnohv (154) e una
luce bellissima fw'ς kavlliston , come qui w[sper ejnqavde.
Là vedrai tiasi beati di uomini
e donne e un gran battere di mani krovton
ceirw'n poluvn (155).
Una volta su Tebe-continua Anfitrione-regnavano
Lico e Dirce, poi Anfione e Zeto, figli di Zeus e Antiope.
Questi costruirono le mura di
Tebe (cfr. Odissea, XI, 260-265 dove
Antiope però è detta figlia di Asòpo)
I due fratelli, i dioscuri tebani, uccisero
Lico e Dirce che aveva maltrattato la madre. Lico era fratello di Nitteo, il
padre di Antiope e secondo alcune versioni del mito l’aveva sposata prima di
Dirce. Anfione sposò Niobe.
Un figlio di Lico, di nome Lico
pure lui, ha ucciso Creonte e regna su Tebe dopo essere piombato sopra la città
malata per la guerra civile-stavsei
nosou'san thvnd j ejpespesw;n povlin (34).
La parentela (kh'do")
con Creonte, padre di Megara è per gli Eraclidi e la madre kako;n mevgiston (36).
Ora Lico, dopo avere ammazzato il padre e i
fratelli di Megara, vuole uccidere anche Megara e i suoi figli poiché teme la
vendetta. I perseguitati siedono sull’altare di Zeus eretto da Eracle dopo la
vittoria sui Minii.
Ercole nei Fasti di Ovidio
Nel I libro dei Fasti[1]
di Ovidio Eracle costruisce e dedica
a se stesso l’ara Maxima
Qui Caco è Aventinae timor atque infamia silvae
(I, 551) un mostro kakov"
contrapposto a Evandro, l’uomo buono. Dall’ingresso della caverna pendono
teschi e braccia inchiodate ora super
postes affixaque brachia pendent (I, 557) e il suolo squallido biancheggia
di ossa umane,
Squalidaque humanis ossibus albet humus (558).
I buoi rubati
muggirono rauco sono (560). Ercole
disse accipio revocāmen (561) accolgo
il richiamo. Il racconto è velocizzato e semplificato, il pathos è attenuato
rispetto a Virgilio.
La vicenda si conclude con l’ ai[tion
dell’ara Massima: il vincitore immola a Giove uno dei tori rubati e
costruisce a se stesso un’ara detta Massima
Constituitque sibi quae Maxima dicitur aram
Hic ubi pars Urbis de bove nomen habet (581-582).
E’ il Forum Boarium dove si trovava la statua
bronzea di un bue.
I supplici sono
bisognosi di tutto: pavntwn crei'oi,
sivtwn, potw'n ejsqh'to" di cibo, bevande e vesti (51-52) e mantengono
la posizione nel tempio con le costole stese ajstrwvtw/
pevdw/ (52) sul pavimento nudo, senza coperte. Vengono in mente i nostri
profughi.
Tra gli amici, alcuni Anfitrione li vede ouj safei'", non chiari, altri ajduvnatoi proswfelei'n (56),
impossibilitati a portare aiuti. Tale è la duspraxiva,
la sventura per gli uomini. Non auguro a nessuno di dover provare questa
verifica davvero infallibile degli amici-fivlwn
e[legcon ajyeudevstaton (59).
CONTINUA
[1] Un
calendario in distici composto fra il tre e l'otto d. C. quando fu interrotto,
dall'esilio, al sesto libro di dodici che dovevano essere. Dovevano illustrare gli antichi miti e
costumi latini.
Giovanna Tocco
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