martedì 12 febbraio 2013

In lode di Ratzinger


Scrivo questo pezzo per onorare la scelta nobile e cristiana di Joseph Ratzinger che si è tolto di dosso il potere, eJkwvn, di sua volontà, rivelandosi quale vero vicario di Cristo. Ci sono stati papi come Alessandro Borgia, come Karol Woytila o come Giovanni XXIII, ebbene nessuno di loro ha capito in tempo, nel tempo di loro vita mortale che il potere è una sorgente di male, inconciliabile con chi è chiamato a essere successore e imitatore di Cristo. Bisogna risalire a Francesco di Assisi quale imitator Christi, per trovare il rifiuto del denaro e del potere.
Il Vangelo di Matteo  denuncia il potere come nucleo di male: Satana mostra a Gesù Cristo omnia regna mundi (pavsa~ ta;~ basileiva~, 4, 4, 8), tutti i regni del mondo e glieli offre: “Haec omnia tibi dabo, si cadens adoraveris” (tau`tav soi pavnta dwvsw)  , te li darò tutti, se tu prostrandoti mi adorerai.
Ebbene, come avrebbe potuto fare tale offerta il diavolo, se tutti i regni del mondo non fossero stati suoi? 
Seneca nel De brevitate vitae traccia l’immagine di Augusto che, come altri potenti, desidererebbe discendere dalla sua sommità: “cupiunt interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere; nam, ut nihil extra lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit " (4, 1, 2), desiderano talora discendere da quel culmine, se fosse possibile farlo senza pericolo; infatti posto che nulla dall'esterno la minacci o scuota, la fortuna implode da sola.
Papa Benedetto è stato capace di descendere ex illo fastigio prima di precipitarvi come succedeva agli antichi tiranni che, saliti magari su quell’alto seggio legittimamente e con il consenso del popolo, dopo una permanenza più o meno lunga, perdono il senso della misura e della propria umanità e si macchiano di u{bri~.
 il secondo stasimo dell’Edipo re canta : "la prepotenza fa crescere il tiranno (u{bri~ futeuvei tuvrannon), la prepotenza/ se si è riempita invano di molti orpelli/ che non sono opportuni e non convengono/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede"(vv. 873-879).
L’uomo di potere infatti prima o poi si azzoppa e diventa come Edipo-Piedone o come il lamely Riccardo III[1].
“Sono rari i sovrani che apprendono la saggezza nella sovranità. Al contrario, l’occupazione del potere suscita un delirio di potenza, e la sete di potere suscita il più delle volte ambizioni smisurate. Così intorno al potere si moltiplicano colpi di stato, assassini, fratricidi, patricidi, così ben descritti da Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare, mentre la follia insita nel potere è stata mirabilmente mostrata da Calderón de la Barca ne La vita è sogno. Minacciati da rivali o da pretendenti, i despoti diventano patologicamente diffidenti di tutto”[2].

Più di ogni altro, il vicario di Cristo deve escludersi dal potere la cui logica esclude la pietas.
Lo dichiara Agamennone nell’Aiace di Sofocle: “tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rJa/dion” (v. 1350), non è facile che un tiranno sia anche una persona pia.
Tra gli scrittori latini, Seneca, il fallito educatore di Nerone, maledice costantemente il potere. Ne sapeva qualcosa.
Il regnum  secondo il filosofo è un fallax bonum del quale non c'è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente:" Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis"(Oedipus,vv.7-8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera! Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l'infuriare della pestilenza nella sua terra.
Il tema fondamentale di tutto il teatro senecano è che potere e regno oincidono con la frode, con l'Erinni familiare, con il furor mentre l'unica salvezza è la obscura quies [3], la serenità del proprio cantuccio, l'esser parte indistinguibile della folla. L'avversione al regno ha come aspetto complementare l'esaltazione della tranquillità di ogni piccolo uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix mediae quisquis turbae, come canta un coro dell' Agamennone (v. 103). Liceat in media mihi/latere turba (Thy. 533 sg,) afferma Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella trappola tesagli da Atreo.
Il secondo coro del Thyestes formato da vecchi micenei contrappone al tiranno crudele e avido un'immagine della regalità interiore:"rex est qui posuit metus/et diri mala pectoris,/quem non ambitio impotens/et numquam stabilis favor/vulgi praecipitis movet,/non quidquid fodit Occidens,/aut unda Tagus aurea/claro devehit alveo" (vv. 348-355), è re chi ha deposto le paure e le cattive passioni dell'animo crudele, quello che l'ambizione sfrenata non tocca e l'instabile favore del volgo precipitoso, né tutto quello che l'Occidente scava, o il Tago trasporta nel letto lucente con l'onda ricca d'oro.

Manzoni riprende il tovpo" del disvalore del potere nell' Adelchi  quando il protagonista ferito consola il padre, il re longobardo  sconfitto e detronizzato :"Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto.." (V, 8). E' il diritto del più forte.
Utilizzerei questi versi per dire a Ratzinger, se ce ne fosse bisogno: “godi che papa non sei!”

Manzoni presenta come vero cristiano il cardinale Federigo Borromeo che cercava di scansare “le dignità”:" egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle" ( I Promessi Sposi, cap. XXII).
Ratzinger è stato più bravo: è riuscito a scansarle acquistando con la sua rinuncia al potere una dignità più alta.
Alla fine del dibattito costituzionale raccontato da Erodoto, il nobile persiano Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell'antisadismo:"ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw" (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato[4].
Credo di avere riconosciuto un’eco di questa  splendida affermazione nel film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore, deve fare un discorso che legittimi ed esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla  come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il barbiere non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice: “I’m sorry, but I don’t want to be an emperor. That’s not my business. I don’t want tu rule or conquer anyone”, mi dispiace, ma io non voglio essere imperatore, non è il mio mestiere, io non voglio governare o conquistare nessuno.
E continua: “I should like to help everyone…greed has poisoned mens’s souls”, mi piacerebbe aiutare tutti…l’avidità ha avvelenato le anime umane. 

Sia onore dunque a Joseph Ratzinger il quale ha fatto la scelta più bella, cristiana e umana nello stersso tempo, dando un esempio ai miserabili e pezzenti mentali che intrallazzano, brigano, talora rubano e uccidono per una poltrona o anche una poltroncina situata spesso in ambienti simili alla corte di Macbeth dove ci sono pugnali perfino nei sorrisi degli uomini[5].

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it 



[1] The bloody king  (IV, 3), il re sanguinario di Shakespeare, Riccardo III    si presenta dicendo di essere:"so lamely and unfashionable/That dogs bark at me, as I halt by them "(I, 1), così claudicante e goffo che i cani mi latrano contro quando gli passo vicino arrancando
[2] E. Morin, L’identità umana, p. 164.
[3] Fedra 1127.
[4] Diodoro Siculo  racconta una cosa del genere a proposito degli Indiani: essi hanno una bella usanza introdotto dai filosofi: non ci sono schiavi e rispettano in tutti l’uguaglianza: “tou;~ ga;r maqovnta~ mhvq  j uJperevcein mhvq  j uJpopivptein a[lloi~  kravtiston e{xein bivon pro;~ aJpavsa~ ta;~ peristavsei~” (Biblioteca storica, 2, 39, 5), poiché quelli che hanno imparato a non prevalere e a non sottomettersi ad altri avranno una vita migliore in tutte le circostanze.

[5] There’s daggers in men’s smile  ( Macbeth, 2, 3).

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