sabato 23 febbraio 2013

L’amore d’estate. E la putredine diventi vitale


 Mercoledì 6 giugno  la terra era ancora fiorita e odorosa come la mia bella compagna, sebbene la vegetale  materia dei fiori cominciasse a illanguidirsi nell’aria canicolare, bianchiccia, e tutti i profumi, incendiati dal caldo violento del meriggio estivo, tendessero a degenerare in un alito acre, denso, quasi eccitante, e, nello stesso tempo, angoscioso.
Il grano maturo, muovendosi con fatica nell’afa dolciastra, sembrava aspettare la falce che gli avrebbe tagliato le spighe, e l’aratro che  avrebbe maciullato i gambi tra i solchi, come succede sempre con il declinare dei mesi più belli e luminosi, perché la successiva putredine diventi vitale e torni a generare la vita.
Cominciammo a scendere per la solitudine  di un pendio del tutto deserto di essere umani ma brulicante di insetti, sonoro di versi trillanti di uccelli, del gorgogliare di  rane lontane, nascoste nelle poche pozze rimaste a corto di acqua. Dagli alberi veniva il  grande frastuono  di grigie cicale che, pazze di sole [1], strepitavano strane preghiere al dio onnipotente.   
L’erba alta ci rendeva difficile camminare abbracciati giù per la ripida china, sicché ci fermammo a metà del colle dove c’era una casa colonica abbandonata che ci offrì la spianata dell’aia deserta.
Ci fermammo a osservare il luogo dove volevamo restare, forse anche fare l’amore. Nel calore potente di quel meriggio in cui sembrava culminare anzitempo l’estate, il cielo era quasi canuto per l’afa, il verde dell’erba stava trascolorando nel giallo, i papaveri erano stinti e afflosciati, il grano era albino piuttosto che biondo. I profumi, invece, erano tutti esaltati e salivano su dalla terra bruciando, clamorosi e invadenti come le voci degli animali che preannunciavano l’olocausto odoroso del mondo nell’ardore  della canicola.
“Ricordi?” domandò Ifigenia, “Ricordi quando in autunno la bruma scoloriva il sole, ammutoliva gli uccelli, uccideva o faceva fuggire gli insetti, e tu esitavi a darmi la mano? Ora che ci fidiamo a vicenda, e siamo quasi svestiti, possiamo congiungerci come vogliamo. Io ne sento la voglia. L’attrazione e la fiducia mi uniscono a te con nodi inesrtricabili”.
Pensai a quello non risolvibile di Gordio che purtuttavia venne annientato con un colpo di spada, poi guardai il sole che stava riducendo le ombre a piccole isole nel mare di luce.
“Dai facciamo l’amore” dissi “Ne ho tanta voglia anche io. Ti prego, ti prego, ti prego”, aggiunsi, parodiando le sue preghiere erotiche, infantili e maliziose.
“Sì, ma facciamolo in piedi, come non l’abbiamo  fatto mai ancora,  una vergogna !” propose tutta contenta la ragazza. La stuzzicava la novità della postura e la spaventava il pensiero di stendere la schiena morbida, liscia, quasi a contatto con le scabrosità del terreno riarso, ché i nostri indumenti minuti potevano costituire un diaframma assai inefficace.
Oltretutto Ifigenia aveva le mestruazioni. Si levò i calzoncini, poi, come sempre quando aveva il flusso, mi chiese di non guardarla mentre si toglieva ogni altro impedimento a fare l’amore. Girai il viso in alto, verso il primo fra tutti gli dèi[2] che era arrivato a infuocare completamente anche l’aia semi-infossata dove eravamo lontani da umame presenze, da altre case, da strade. Doveva essere il tocco[3]: l’ora dei raggi più dritti e potenti. Mentre li contemplavo, aspettando che Ifigenia mi permettesse di rivolgerle ancora lo sguardo, mi venne in mente il tramonto del 28 ottobre dell’anno prima, quando la splendidissima ventenne, conosciuta da poco, mi aveva chiesto di non guardarla finché si cambiava la maglietta sudata e io avevo visto il suo petto fiorente riflettersi nel pallido sole rosaceo, accrescendone luce e calore. Il 6 giugno invece, pensando a quel giorno lontano e alle sue mestruazioni presenti, vidi la fiamma che nutre la vita striarsi di gocce scarlatte che, percorsa la sfera infuocata, si adunavano intorno al bordo inferiore e lo orlavano con uno strano ricamo di luce liquida, ardente, pronta a stillare sul suolo terrestre per rigenerarne la vita.
Ifigenia mi distolse dalla visione estatica. “Vieni Gianni, facciamo l’amore”. Fu assai faticoso. Senza sdraiarci, non l’avevamo proprio mai fatto. Dopo, eravamo più esausti che soddisfatti. Mi scostai un poco e sedetti sulla terra bruciata. Ifigenia rimase in piedi con le belle gambe divaricate davanti ai miei occhi: era seria, muta, e mi guardava con l’espressione del desiderio non appagato. Quindi disse: “alzati. Facciamolo ancora”.
“Aspetta un momento” risposi, “rimani così come stai ora. Voglio guardarti”. Mi interessava osservare quello stranissimo aspetto della vita trionfante, una sembianza che forse non avrei visto mai più: l’immagine di una donna giovanissima, nuda, bella come un’opera d’arte, una statua viva, illuminata dal sole di giugno mentre il sangue mensile le scorreva giù per le cosce.
Guardavo ora i suoi occhi fissi nei miei, ora le gambe un poco aperte davanti al mio volto. Il sangue colava verso le ginocchia in rivoli ostacolati dal sole rovente che, disseccando una parte del liquido, dell’altra frenava la corsa in discesa lungo il pur ripido e liscio pendio. La coscia sinistra era percorsa da due rigagnoli rossi, la destra da uno. Quel sangue, fluente non senza fatica, mi fece pensare: “Ifigenia nelle belle membra non si discosta troppo da mia mamma, da mia sorella e da me: se fosse mia figlia, e tra noi ci fosse un legame di sangue, saremmo incestuosi ma certi dell’eternità del legame”. Le volli comunicare il pensiero che, ne ero sicuro, le sarebbe piaciuto.
“Tesoro, ti piacerebbe se fossi davvero il padre tuo?” Di fatto era appena possibile, poiché Ifigenia aveva quindici meno di me, però a volte ci presentavamo, per gioco, come parenti di vario grado. Io potevo esserle quasi padre, o più plausibilmente zio, o cugino, o fratello maggiore e così via.
“S’, Gianni”. Rispose. “Sì tanto. Adesso facciamo l’amore però”.
Continuava a fissarmi immobile e muta, come se fosse davvero una statua immobile e senza pensiero. Le abbracciai la coscia sinistra. I due rivoli bagnarono la mia guancia destra senza contaminarla, anzi purificandola: sentivo di amare quella creatura mirabile come amo la giovinezza, la natura, la vita; come amo i ricordi della mia adolescenza; come amo mia madre, come amo il mare di Pesaro dove entro di giorno e di notte perché mi fido di lui; come amo Moena con i monti antropomorfi cui parlavo quando ero bambino ed essi, per loro umanità mi rispondevano, un’umanità che più avanti non ho trovato in tanti sedicenti esseri umani; come amo il Ghisallo e lo Stelvio, o il Taigeto, o il Parnaso quando li scalo con la bicicletta; come amo il grande bosco di Debrecen, quando nelle notti serene di luglio e di agosto, when the living is easy, così cantava la dolce, forte, matura Elena Sarjantola, lo attraversavo guardando il cielo stellato e la luna che appariva e spariva tra gli alberi antichi e  sorridevo di gioia per la stupefacente bellezza di questo creato mirabile dove avevo la buona ventura di vivere amando, riamato dalla donna bella e fine che amavo. Elena, Kaisa, Päivi.
Mi scostai per guardare di nuovo Ifigenia, il dono più recente, più nuovo che la sorte benigna, generosa, mi aveva elargito.
I rivoletti sanguigni, ostruiti e schiacciati dalla mia faccia,  avevano formato una macchia: un piccolo lago vermiglio, appiccicoso, incollato a una parete di carne. Una composizione nuova della daedala tellus[4], artistica madre natura.
Si sentivano sempre stridere le cicale pazze, gorgogliare oziosamente le rane, trillare gli uccelli con voci e voli che sembravano di ottimo auspicio.
Non è che i volatili conoscano il futuro, ma i loro canti e  voli sono guidati da dio e c’è un disegno della provvidenza persino nel cinguettare di un passero[5].
Mentre la contemplavo,  la ragazza, la figlia adottata, diventava la grande madre natura. I suoi capelli violacei erano foreste fitte, dense di ombre; gli occhi neri, due laghi montani cupi di  mai rivelati misteri nel centro profondo, circondati da rive bianche, orlati da alberi scuri; i seni erano colline  dalle cime appuntite; il crine pubico stillante quel liquido rosso era un cespuglio di lamponi maturi spremuti lì sulla pianta da mani pie e libati agli dèi, Lo stomaco teso della divina creatura era una distesa marina quando il calore meridiano senza vento spiana e addormenta la superficie lucente; la schiena abbronzata dove cadevano i folti capelli era una valle ombreggiata da grandi foreste; le braccia, promontori di terra protesa verso di me per abbracciarmi.
Sentivo che se fossi riuscito ad amarla , con gioia, senza riserve, avrei amato nello stesso modo la vita del mondo e la mia stessa vita.
“Ti amo” dissi dopo averla ammirata a lungo. “Vorrei esserti padre e che questo sangue di cui mi hai asperso benedicendomi, scorresse dentro di me”.
Non rispose. Facemmo ancora l’amore, scomodamente, poi ci rivestimmo con gli indumenti leggeri della stagione nuda e felice.
Mentre risalivamo la china per tornare alla nera Volkswagen, disse che voleva fuggire dalla casa del marito, un tanghero non più sopportabile, e che se non l’avessi aiutata io, avrebbe accettato l’offerta di un suo amico strambo, un ferroviere cuccettista che l’aveva invitata in Provenza.
La stolta minaccia mi diede l’angoscia. Io non sono incline a prendere alcuno in casa mia, poiché temo di perdere l’autonomia, e quanto al matrimonio sono contrario perfino a quello degli eterosessuali. Anzi, credo addirittura che essendo le nozze un atto contro natura, si confacciano più agli omosessuali che a quelli come me.
Ma non dissi questo, forse all’epoca nemmeno lo credevo.
Invece risposi, con giusta durezza: “”Io mi sono impegnato ad aiutare i miei allievi di terza liceo che Mortimer non è in grado di preparare per l’esame di maturità. Tu fai come vuoi”.
E pensai: “Elena Sarjantola tradiva il marito dal quale aspettava un bambino, ma con me non è mai stata tanto importuna, sciocca, volgare”.
Intanto era già pomeriggio e, sia pure di poco, cominciavano ad allungarsi tutte le ombre.

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it 




[1] Cfr. Aristofane, Uccelli, 1096.
[2] Nell'Edipo re  di Sofocle il sole è" pavntwn qew'n provmo""(660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v. 1425), la fiamma che nutre la vita. Solo uno empio e pazzo può pensare che il Sole non sia un dio, o, per lo meno, l’immagine visibile dell’Idea del Bene, ovvero di Dio, come insegna Platone. Forse nei Greci c’è il ricordo e la ripresa dell’idea religiosa del faraone “eretico” Amenophi IV.

[3] E’ un toscanismo per “l’una”. Lo uso per affetto verso mia madre Luisa, le mie zie, Rina, Giulia, Giorga e mio nonno Carlo Martelli di Borgo San Sapolcro. Il loro borgo natìo. E anche per nostalgia della mia infanzia e adolescenza quando vivevo con loro, ancora tutti vivi. C’era anche la cara nonna Margherita ma lei era nata a Pesaro dove si viveva negli anni Cinquanta. Se amo tanto le donne, lo devo alle donne di casa mia, e al caro nonno Carlo che mi ha lasciato anche l’amore per il sole e per la bicicletta.
[4] Lucrezio, De rerum natura, I, 7
[5] Cfr.  Shakespeare, Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.

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