mercoledì 27 febbraio 2013

La poesia epica come antecedente della storia


Un breve tratto della II lezione del mio seminario. martedì 12 febbraio. Aula Guglielmi 17-19.
La poesia epica come antecedente della storia. L’Odissea di Omero e le varie riapparizioni di Ulisse. Lettura dei primi versi del poema omerico.
Il poema di Apollonio Rodio. Virgilio e Ovidio.

Aspetti dell'uomo Ulisse.
“Ulisse è uno di quei personaggi che dalle profondità del tempo giungono fino a noi, perché è un personaggio chiave… E’ un tipo incredibilmente furbo. Possiede una qualità che i Greci chiamano métis, astuzia. Un’astuzia che gli consente di cavarsela tutte le volte che sembra ormai perduto. Ulisse ha tutto contro, combatte con forze più grandi di lui, eppure trova il modo, con astuzia, scaltrezza, bugie - dissimulando il proprio pensiero - di inventarsi qualcosa e avere, infine, la meglio”[1].
Nel I canto dell'Iliade Odisseo è già l'uomo che, molto dotato di intelligenza[2] riceve l'incarico di ricondurre Criseide al padre per ristabilire la pace tra il sacerdote di Apollo e Agamennone. Nel secondo canto del poema più antico Odisseo, simile a Zeus per intelligenza[3], riceve da Atena il compito di trattenere la fuga dell'esercito acheo da Troia con blande parole[4].
La dea per rivolgersi all'eroe utilizza un altro epiteto formulare[5], il quale lo caratterizza come uomo intelligente e capace. Capace di che cosa? Intanto notiamo questa capacità di ristabilire una situazione compromessa; infatti nel II canto dell’Iliade Odisseo riesce a fermare l'esercito in fuga alternando le blande parole con le ingiurie e facendo cadere lo scettro-bastone sul petto e le spalle dell'uomo deforme[6], l’odiosissimo[7] Tersite dalla lingua confusa[8].
“Egli lo spoglierà completamente e lo scaccerà a forza di bastonate dal posto in cui è riunito l’esercito (ajgorh'qen[9]). Non vi viene subito in mente il pharmakos o capro espiatorio, l’uomo più brutto della comunità, che veniva trasformato in vittima espiatoria e scacciato dalla città?”[10].

Odisseo dunque è un uomo stabilizzante e ristabilizzante.
Quindi egli parla all'esercito, non senza essere stato adornato con altri epiteti[11]; infine l’Itacese viene designato con una qualificazione più specificamente odissiaca[12].
Agli epiteti esornativi non bisogna dare troppa importanza poiché spesso sono stereotipati, e la loro presenza è imposta dalla necessità metrica che "nella poesia omerica è fattore determinante anche per la scelta delle espressioni e degli epiteti"[13].
Invece sono caratterizzanti le parole che Odisseo rivolge all'assemblea dopo averla ricompattata. Egli accusa i soldati di essere come bambini piccoli o come donne vedove[14] mettendo in luce una distinzione tra l'uomo compiuto[15], egli stesso, capace di riflettere, parlare, agire, e l'uomo bambino o l'uomo-comare querula, creature dalla ragione meno sviluppata. La maturità riflessiva e intelligente, indipendente dall'istinto del gregge è un aspetto distintivo dell'uomo Odisseo. E' proprio questa sua indipendenza a renderlo ajnhvr,  latinamente vir , capace appunto di virtù la quale, afferma Nietzsche, “è il vero e proprio vetitum entro ogni legislatura di gregge”[16]. Di tale virtù fa parte la capacità di opporre resistenza ai mali e alle minacce di cui è piena la vita, di sopportale. Un'esortazione che Ulisse rivolge più volte a se stesso e ai suoi compagni di avventura a cominciare da questo discorso dell'Iliade dove esorta i soldati dicendo: “tenete duro cari e aspettate del tempo”[17].

Nell'Iliade si trova anche qualche indicazione sull'aspetto fisico di Odisseo. Nella lezione precedente avevo ricordato che Ulisse non era bello (non formosus erat), ma sapeva parlare (sed erat facundus Ulixes) e, pur non essendo un Adone, fece torcere d’amore le dee dell’acqua, Circe e Calipso (et tamen aequoreas torsit amore deas)[18] . Vediamo dunque se e quanto era poco bello.
Nel terzo canto dell’Iliade Priamo chiede a Elena di identificare i capi dei guerrieri Achei visibili dalla torre presso le porte Scee;  uno gli parve più piccolo della testa di Agamennone Atride, ma più largo di spalle e di petto a vedersi[19].
La maliarda rispose che quello era Odisseo esperto di ogni sorta di inganni e di fitti pensieri (v. 202). Quindi Antenore aggiunge che anche lui l’aveva visto una volta a Troia, in ambasciata con Menelao, e quando i due erano seduti, era più maestoso Odisseo, ma quando stavano in piedi, Menelao lo sovrastava delle larghe spalle[20].
Ulisse dunque, levatosi in piedi, se stava zitto, sembrava un uomo ignorante o addirittura uno furente e pazzo, ma, quando parlava, dal petto mandava fuori parole simili a fiocchi di neve d'inverno (v. 222),  e allora non si provava più meraviglia per l'aspetto.
Plinio il Giovane dà una spiegazione di questo stile oratorio affermando di preferire fra tutte “illam orationem similem nivibus hibernis, id est, crebram et assiduam, sed et largam, postremo divinam et caelestem” (Ep. I, 20), quell'eloquenza simile alle nevi invernali, cioè densa e serrata, ma anche copiosa, dopo tutto divina e scesa dal cielo.
Leopardi che era difettoso nel corpo, e lo sopravvalutava, non ammette la bruttezza nell’eroe epico: “La perfettibilità dell’uomo, come altrove ho detto, non ha che fare col corpo. E con tutto ciò la perfezione del corpo, che non dipende dagli uomini, né è opera della ragione, si è la principal condizione che si ricerca in un eroe del poema ec. (o si dee supporre, perché ogni menoma imperfezione corporale suppostagli guasterebbe ogni effetto) e la più efficace, supponendolo ancora perfetto nello spirito. Questa circostanza non si può tacere; quando anche si taccia, la supplirà il lettore; ma fare espressamente un protagonista brutto è lo stesso che rinunziare a qualsivoglia effetto”[21].

Ma, abbiamo ribadito, la bellezza di Odisseo sta nelle sue parole. Ulisse è un artista della parola.


Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice a Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte, come quello di un aedo (vv. 367-368).
“Il mondo sopra il quale Ulisse regna come un sovrano onnipotente è quello del racconto… Nessuno conosce, quanto lui, l’arte di appropriarsi le più diverse esperienze: nessuno ha una memoria così incessante, e una mente equivoca come il destino, insolubile come i nodi di Circe, colorata come Ermes, multiforme come Proteo, menzognera come quella dei ciarlatani di strada. Sia Agamennone sia le Sirene lo chiamano “colui che conosce molte storie”[22]. Così Ulisse diventò il simbolo dell’arte di raccontare. Tutti i romanzieri sono andati alla sua scuola, cercando di possedere i suoi doni… Esiodo affermava che le Muse sanno “dire molte menzogne simili al vero”, ma sanno anche, quando vogliono, “cantare cose vere”… Nell’Odissea, la teoria del racconto, è, per questo aspetto, identica alla teoria proclamata da Esiodo. Ci sono racconti falsi, come le storie che, giunto a Itaca, Ulisse narra a Eumeo, ai Proci, a Penelope, per ingannare amici e nemici e divertire sé stesso. Ma ci sono anche quelli veri”[23].
Ulisse dunque non è bello ma è l'eroe e l'esteta della parola.
Sotto questo aspetto egli prefigura il capo della povli" democratica nella quale la forza della parola sarà decisiva per il successo dell'uomo politico. “Il sistema della polis implica prima di tutto una straordinaria preminenza della parola su tutti gli altri strumenti del potere. Essa diventa lo strumento politico per eccellenza, la chiave di ogni autorità nello Stato, il mezzo di comando e di dominio su altri. Questa potenza del linguaggio - di cui i Greci fecero una divinità: Peitho, la forza di persuasione - ricorda l'efficacia delle parole e delle formule in certi rituali religiosi, o il valore attribuito ai “detti” del re quando egli pronuncia sovranamente la themis; in realtà, tuttavia, si tratta di una cosa affatto diversa. Il linguaggio non è più la parola rituale, la formula giusta, ma il dibattito contraddittorio, la discussione, l'argomentazione. Presuppone un pubblico al quale esso si rivolge come a un giudice che decide in ultima istanza, per alzata di mano, tra i due partiti che gli sono presentati: è questa la scelta puramente umana che misura la forza di persuasione rispettiva dei due discorsi, assicurando la vittoria di uno degli oratori sul suo avversario... Tra la politica e il logos c'è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L'arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio"[24].
Sulla scorta di Esiodo aggiungerei che anche l'arte erotica e diverse altre consistono in buona parte nel maneggiare il linguaggio.   

La bellezza e la forza della parola costituiscono la potenza decisiva per un greco.
Il principe della retorica del IV secolo, Isocrate, celebrerà la facoltà di parlare con queste parole: “mevgiston ga;r ejn ejlacivstw/, nou'" ajgaqo;" ejn ajnqrwvpou swvmati” (A Demonico, 40), un'entità grandissima in una cosa piccolissima, è una buona mente in un corpo umano[25].
In effetti “il padroneggiamento della parola vale qual segno della sovranità della mente”[26].
Odisseo del resto non è solo intelligente ma  anche coraggioso.
Ne un elogio in questo senso Diomede quando vuole scegliersi un compagno per entrare nel campo dei nemici, e, tra quanti si offrono, sceglie appunto l'Itacese il cui cuore è pronto e l'animo coraggioso[27] e per giunta è molto bravo a pensare[28] .

Non  luminosa però è la fama della sua schiettezza.
Nell'Ippia minore di Platone il sofista eponimo del dialogo sostiene che mentre Achille è veritiero e semplice (“ajlhqhvv" te kai; aJplou'"”, 365b) Odisseo è  invece “poluvtropov" te kai; yeudhv"”, versatile e menzognero.
Sono i luoghi comuni della letterarura successiva a Omero la quale contrappone spesso lo schietto Pelide al subdolo Odisseo: Achille nell’Ifigenia in Aulide chiarisce a Clitennestra che lo educò Chirone: “perché non imparasse gli usi degli uomini malvagi”[29].
Più avanti il figlio di Peleo riconosce tale capacità paideutica all'uomo piissimo che l'ha allevato dal quale: “ha imparato ad avere semplici i costumi”[30]. L’antitesi del semplice, onesto Achille in questa tragedia, e non solo, è Odisseo del quale Agamennone dice: “è molteplice per natura e sempre dalla parte della massa[31]. Cioè un demagogo. Oggi si direbbe un “populista””.
Nel dialogo Platonico Ippia riceve una confutazione da Socrate.
Il sofista ricava la distinzione tra i due capi achei dal IX libro dell'Iliade dove Fenice Aiace e Odisseo vanno in ambasceria da Achille che irato non combatteva ma faceva l'aedo, ossia cantava glorie di eroi accompagnandosi con la cetra (“fovrmiggi..a[eide kleva ajndrw'n", vv.186 e189). Dopo l'accoglienza cordiale, il cibo e la bevanda, Odisseo parlò ("Aiace - nota Jaeger - personifica piuttosto l'azione, Odisseo la parola”[32]) scongiurando Achille di tornare in battaglia e promettendogli donne mari e monti da parte di Agamennone. Ebbene Achille risponde che gli è odioso come le porte dell'Ade chi una cosa tiene nascosta e un'altra ne dice[33].
L' Ippia di Platone sostiene che non a caso Omero fa indirizzare queste parole a Odisseo.
Socrate risponde opponendosi a  questa opinione comune della schiettezza di Achille e affermando che il Pelide mente non meno di Odisseo, poiché ha detto all’Itacese che sarebbe partito[34], e invece ad Aiace che non si sarebbe mosso fino all’arrivo di Ettore davanti alla sua tenda[35]. Ippia sostiene che Achille non mente di proposito. Socrate invece afferma che Achille ha mentito deliberatamente a Odisseo per superarlo anche nell’arte del raggiro e aggiunge che coloro i quali danneggiano, gli altri, e commettono ingiustizia e mentono e ingannano ed errano volontariamente (eJkovnte~) [36] sono migliori di quelli che lo fanno involontariamente (a[konte~)[37]. Infatti chi fa del male volontariamente, se vuole fa del bene, chi lo fa involontariamente non sa fare altro. E’ molto peggio zoppicare per necessità che per gioco.
Socrate nei dialoghi platonici dà sempre scacco matto ai sofisti.
Infatti Leopardi lo considera il più sofista di tutti.
E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, “l'odiator de' calamistri[38] e de' fuchi[39] e d'ogni ornamento ascitizio[40] e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).

La questione di Ulisse menzognero comunque esiste.
“Pindaro non amava il carattere di Ulisse. L'Aiace e il Filottete di Sofocle testimoniano che accanto all'ammirazione convenzionale per il grande eroe esisteva anche un'opinione meno favorevole. Anche l'Ippia minore di Platone esprime per bocca del sofista gli stessi dubbi sul carattere di Ulisse, ma Platone ci fa intendere che Ippia non fa che seguire, su questo punto, una tendenza generale... In ultima analisi questa disposizione verso Ulisse risale all'Iliade che lo mette a contrasto come poluvtropo" con lo schietto carattere di Achille. Anzi nell'Odissea (q 75[41]) si ritrova l'antica tradizione intorno a questo contrasto dei due grandi eroi nel canto di Demodoco sulla contesa di Ulisse e Achille"[42].
Vediamo alcune testimonianze decisamente contrarie a Odisseo
Nel Filottete di Sofocle, Neottolemo lamenta di essere stato espropriato dei suoi beni, ossia delle armi del padre dal peggiore di tutti, nato da malvagi[43], Odisseo .
Pindaro nell’Istmica IV denuncia l’oscurità del destino (v. 31), che fece cadere Aiace, puvrgo~[44] la torre, con gli artifici di chi valeva meno di lui, ma Omero gli ha reso onore tra gli uomini, all jOmhrov~ toi tetivmaken di j ajnqrwvpwn (v. 37).
Nella Nemea VIII il poeta tebano ricorda il torto subito da Aiace a[glwsso~ (v. 24), privo di eloquenza: sicché l’invidia poté mordere il suo valore e prevalse l’odioso discorso ingannevole di Odisseo. Tuttavia alla fine Aiace ebbe giustizia: “a’ generosi/giusta di glorie dispensiera è morte;/né senno astuto, né favor di regi/all’Itaco le spoglie ardue serbava,/ché alla poppa raminga le ritolse/l’onda incitata dagl’inferni Dei”[45].
Nella parodo dell’Ecuba di Euripide, il coro delle prigioniere troiane presenta Odisseo come «lo scaltro (oJ poikilovfrwn) furfante dal dolce eloquio, adulatore del popolo» (vv. 131-132) che convince l'esercito a mettere a morte Polissena. In questa tragedia il figlio di Laerte è un freddo politico per cui vale solo la ragion di stato che calpesta tante vite innocenti. Nel primo episodio la vecchia regina esautorata, la madre dolente, scaglia un’invettiva contro la genìa dannata dei demagoghi: «Razza di ingrati è la vostra, di quanti cercate il favore popolare: non voglio che vi facciate conoscere da me: non vi curate di danneggiare gli amici, pur di dire qualche cosa per piacere alla folla. Ma quale trovata pensano di avere fatto con il votare la morte di questa ragazza? Forse il dovere li spinse a immolare un essere umano presso una tomba, dove sarebbe più giusto ammazzare un bue?» (Ecuba, vv. 254-261). Poco più avanti Ecuba supplica Odisseo di non ammazzare la figlia con un verso che è un'alta espressione di umanesimo in favore della vita: “mhde; ktavnhte: tw'n teqnhkovtwn a{li"" (v. 278), non ammazzatela: ce ne sono stati abbastanza di morti.
Nel dramma satiresco Ciclope, di Euripide, quando Odisseo entra in scena definendosi Itacese, signore dei Cefalleni, Sileno replica: “oi\d j a[ndra, krovtalon drimuv, Sisuvfou gevno~” (vv. 103-104), conosco quel tipo, un sonaglio petulante, razza di Sisifo[46].
Nell'Eneide Ulisse è malfamato: "sic notus Ulixes?" (II, 44) non conoscete Ulisse? domanda Laocoonte, e più avanti Sinone, per convincere i Troiani, ne denuncia la trama criminale contro Palamede morto "invidia pellacis Ulixi" (II, 90) per l'invidia del perfido Ulisse e lo definisce "scelerum inventor" (II, 164) ideatore di crimini. Durante il viaggio dei Troiani profughi verso l’Italia, racconta Enea: “Effugimus scopulos Itacae, Laërtia regna, et terram altricem saevi exsecramur Ulixi ”[47], evitiamo gli scogli di Itaca, regno di Laerte, e malediciamo la terra del crudele Ulisse. Nel VI canto Deifobo raccontando la sua fine definisce Ulisse, l’Eolide[48], hortator scelerum (v. 529), istigatore di scelleratezze.
Nelle Troiane di Seneca, Andromaca annuncia l'arrivo di Ulisse con queste parole: “Adest Ulixes, et quidem dubio gradu vultuque:/nectit pectore astus callidos" (vv. 521-522), ecco qua Ulisse e certamente con un incedere e un'espressione equivoca: intreccia nel petto astuzie scaltre. Più avanti la vedova di Ettore lo apostrofa in questo modo: "O machinator fraudis et scelerum artifex,/virtute cuius bellicā nemo occĭdit,/dolis et astu maleficae mentis iacent/etiam Pelasgi, vatem et insontes deos praetendis? Hoc est pectoris facinus tui" (vv. 750-754) o tessitore di frodi e artefice di inganni, per il cui valore in battaglia nessuno è morto, mentre per i tuoi inganni e l'astuzia della mente malefica giacciono morti anche i Pelasgi, ora metti avanti l'indovino e gli dèi incolpevoli? Questo è un delitto dell'animo tuo. Ulisse vuole la morte del piccolo Astianatte pensando ai lutti che il bambino se divenisse grande procurerebbe alle madri greche. Come quelli che nel 2004 approvavano i bombardamenti sui bambini iracheni.
Nella I delle Heroides  di Ovidio, Penelope scrive a Ulisse, qualificandolo come ferreus (v. 58), e immaginando che peregrino captus amore (76), sia preso dall’amore  per una straniera cui “Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx,/quae tantum lanas non sinat esse rudes” (77-78), forse racconti quanto sia rozza tua moglie, che sa soltanto cardare la lana.
“Al Dante che voleva narrare di Ulisse, si presentavano tre tradizioni mitiche e letterarie di grande autorevolezza. Nella prima, l’eroe greco è un imbroglione, un ingannatore, un inventore di storie false, un oratore illusionista. Tale appare a Virgilio nell’Eneide, a Ovidio nelle Metamorfosi, a Stazio nell’Achilleide, e a tutta una serie di scrittori posteriori come Ditti, Benoît de Sainte Maure, Guido delle Colonne e così via. E non c’è alcun dubbio sul fatto che Dante condanni Ulisse all’inferno per le sue frodi: come chiarisce Virgilio nella sua presentazione della fiamma cornuta, per “l’agguato del caval”, e per gli stratagemmi con cui riuscì, assieme a Diomede, a strappare Achille a Deidamia e a rubare il Palladio… D’altro canto, le ali della fazione avversa, come i remi di Ulisse, sorvolano la proibizione mitico-ontologica (antica e medievale) delle Colonne d’Ercole e, in spirito ultra-umanistico e romantico, usano una seconda tradizione. In essa, Ulisse rappresenta il modello della virtù e della saggezza, il vincitore del vizio, il nobile ricercatore della conoscenza: in una parola, l’ideale dell’uomo ‘classico’… Cicerone, Orazio, Seneca, ma anche Fulgenzio e, nel Medioevo stesso, Bernardo Silvestre e Giovanni del Virgilio, contemporaneo e amico di Dante, parlano di Ulisse in questi termini”[49].
Dante apre il Convivio con la memorabile frase aristotelica, “tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”, e Ulisse è il prototipo dell’uomo affamato di conoscenza. Egli rischia la vita molte volte per il desiderio di imparare. Le Sirene per attirarlo gli dicono che chi si ferma da loro riparte pieno di gioia e conoscendo più cose[50] Dante-personaggio della Commedia si sente  attratto verso Ulisse da un desiderio intensissimo (“vedi che del desio ver’ lei mi piego”, dice a Virgilio); eppure il poeta fiorentino avverte il pericolo estremo che Ulisse rappresenta per lui
“Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio:
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ‘ngegno affreno ch’io non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi”[51]
Infine, Dante-poeta fa affondare il suo eroe da Dio; Dante il giudice lo condanna all’Inferno; e perfino dal Paradiso il personaggio-autore ribadirà che il “varco” di Ulisse è stato “folle”.
Dante è uno di quei poeti che, come Sofocle tra i Greci, considerano limitata l’intelligenza umana e colpevole l’uomo che non tiene imbrigliata la propria. Il che non toglie che entrambi sappiano trarre bellezza dalle parole.

Nell’Odissea invece il protagonista eponimo è un uomo la cui intelligenza è favorevole alla vita. Magris lo considera l’archetipo dell’uomo occidentale: “L'io occidentale è simboleggiato da Odisseo, che costruisce faticosamente la propria identità ed il proprio dominio - su Itaca, sul suo equipaggio e su se stesso - rinunciando alle sirene, a Calipso e al fiore del loto ossia resistendo alla tentazione di abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura"[52]. L'inversione di questo processo cui tende Nietzsche, continua Magris, è "lo scioglimento dionisiaco dell'io".
Tale tendenza alla “dispersione dionisiaca dell'io nel fluire sensibile” veramente è ben più antica di Nietzsche, però è condivisibile anzi è ineccepibile la collocazione dell'uomo Odisseo nella categoria dell'apollineo: egli è l'uomo che si individua nella conoscenza e nel dolore, quindi difende e mantiene il principium individuationis davanti a tutte le lusinghe e contro tutti gli assalti. L'Odissea  è dunque "hjqikhv", fatta di caratteri, come la definiva già Aristotele[53], oltre che complessa per via dei numerosi riconoscimenti, a partire dall'ajnagnwvrisi" che di se stesso compie Odisseo. E attraverso la sua lettura tutti noi possiamo riconoscere qualche cosa di quello che siamo, arrivando alla scienza suprema, quella prescritta dall'oracolo delfico. "Conosci te stesso" è tutta la scienza. Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l'uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto i limiti dell'uomo"[54].

Giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it

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[1] J.Pierre Vernant, C’era una volta Ulisse, p.5.
[2] poluvmhti", vv. 311 e 440
[3] Dii; mh'tin ajtavlanton, v. 169
[4] ajganoi'" ejpevessin", v. 180
[5] polumhvcano~,  v. 173 ricco di risorse
[6] ai[scisto" ajnhvr, Iliade II 216
[7] e[cqisto~, Iliade II, 220.
[8] Iliade II, 246.
[9] Iliade II, 264 ndr
[10] G. Murray, Le origini dell’Epica greca, p. 269.
[11] di'o", v. 244, splendido, molto generico invero: attribuito in XIV, 3 dell'Odissea anche al porcaro il quale del resto ha un comportamento nobile,; poi ptolivporqo", v 278 distruttore di rocche, anche questo generico e attribuito pure, a maggior ragione, ad Ares Achille e Oileo
[12] eϋfronevwn, Iliade II, v. 283, assennato
[13]Cantarella-Scarpat, Breve introduzione a Omero, p. 151.
[14] w{" te ga;r  h] pai'de" nearoi; ch'raiv te gunai'ke", Iliade  II, v. 289
[15] l'a[ndra del primo verso dell'Odissea
[16] Scelta di frammenti postumi 1887-1888 , p. 324.
[17] tlh'te, fivloi, kai; meivnat j ejpi; crovnon (II, v. 299)
[18] S. Kierkegaard, Diario del seduttore, p. 75. La citazione è tratta da Ovidio, Ars Amatoria, II, 123-124.
[19] meivwn me;n kefalh'/  jAgamevmnono"  jAtreΐdao,/ eujruvtero" d&w[moisin ijde; stevrnoisin ijdevsqai (vv. 193-194)
[20] stavntwn me;n Menevlao" uJpeivrecen eujreva" w{mou", v. 210.
[21] Zibaldone, 1692.
[22] Poluvain j (XII, 184). Nel Satyricon Circe offre amore a Encolpio dicendo: “nec sine causa Polyaenon Circe amat: semper inter haec nomina magna fax surgit. sume ergo amplexum, si placet” (127, 7), non senza motivo Circe ama Polieno: sempre tra questi nomi guizza una grande fiamma. Prendimi dunque tra le braccia, se ti va. La donna vuole facilitare l'unione con l'espediente scaramantico del nomen omen. “Quando, infatti, Encolpio a Crotone prenderà il nome di Polieno e s'imbatterà in una matrona di nome Circe, diverrà inevitabile l'incontro fra lui e Circe sul terreno amoroso proprio perché così è accaduto al polyvainos Odisseo” (P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, vol I, p. 356.). Ndr.
[23] P. Citati, La mente colorata, p. 163.
[24] J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, pp. 47-48.
[25] mevgiston ga;r ejn ejlacivstw/, nou'" ajgaqo;" ejn ajnqrwvpou swvmati" (A Demonico, 40)
[26] W. Jaeger, Paideia 1, p. 38.
[27] ou| pevri me;n provfrwn kradivh kai; qumo;" ajghvnwr", Iliade  X, v. 244
[28] perivoide noh'sai", v. 247.
[29] i{n j h[qh mh; mavqoi kakw'n brotw'n” (v. 709),
[30] ejgw; d  j, ejn ajndro;" eujsebestavtou trafei;"-Ceivrwno", e[maqon tou;" trovpou" aJplou'" e[cein" (vv. 926-927)
[31] Poikivlo~ ajei; pevfuke tou' t j o[clou mevta” (v. 526)
[32] Padeia 1, p. 69.
[33] o{" c j e{teron me;n keuvqh/ ejni; fresivn, a[llo de; ei[ph/", Iliade IX, v. 313.
[34] Iliade IX, 682-683
[35] Iliade, IX, 650-655.
[36] Si pensi alla rivendicazione di Prometeo nei confronti della propria tasgressione: “eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai, (Prometeo incatenato, 266) “di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò”. Queste parole del Titano ribelle forniscono una legittimazione all'ira di Zeus e argomenti a Nietzsche in La nascita della tragedia per nobilitare "la concezione ariana" del peccato attivo: “La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità conferita  al crimine, stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come vera virtù prometeica” F. Nietzsche. La nascita della tragedia, p. 69.
[37] Ippia  minore, 372 d
[38] Da calamistrum, “ferro per arricciare i capelli” (ndr).
[39] Da fucus, “tintura rossa” (ndr).
[40] Da ascisco, “annetto” (ndr).
[41] Nell'VIII dell'Odissea Demodoco canta tra l'altro: “nei'ko" jOdussh'o" kai; Phleïvdew jAcilh'o"”, la lite tra Odisseo e Achille Pelide.
[42] W. Jaeger, Paideia  1, p. 61 n. 16.
[43] pro;~ tou' kakivstou kajk kakw'n jOdusseuv~ (384)
[44] Cfr. Odissea, XI, 556.
[45] Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 221-225.
[46] Secondo una leggenda Anticlea, la madre di Odisseo, prima delle nozze con Laerte, avrebbe avuto una tresca con Sisifo, famoso per i suoi inganni,  e da questa relazione sarebbe nato Odisseo
[47] Eneide III, 272-273
[48] “Qui, come annota Servio, si segue la leggenda secondo cui Anticlea, la madre di Odisseo, prima delle nozze con Laerte, avrebbe giaciuto con Sisifo, figlio di Eolo, e “vasel d’ogni froda”, dal quale avrebbe avuto Odisseo” (E Paratore (a cura di), Virgilio, Eneide, vol. III, libri V-VI, p. 292)
[49] P. Boitani, L’ombra di Ulisse, p. 54.
[50] kai; pleivona eijdwv", Odissea,  XII, 188.
[51] Inferno,  XXVI, 19-22
[52] L'anello di Clarisse, p. 6.
[53] Poetica, 1459b.
[54] Nietzsche, Aurora, p. 40.

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