domenica 24 febbraio 2013

La costituzione dell'Atene di Pericle e la nostra



Nel secondo libro della sua Storia, Tucidide  racconta l'inizio delle ostilità, le operazioni del primo anno[1] della guerra del Peloponneso, quindi ricostruisce il famoso lovgo"  ejpitavfio", il secondo discorso di Pericle (II, 35-46), quello sui caduti. Lo statista ateniese presenta la sua città come il luogo politico esemplare e la costituzione della sua polis come paradigmatica.

Sentiamo come Tucidide ricorda le sue parole:
In effetti ci avvaliamo di una costituzione (crwvmevqa ga;r politeiva/) che non cerca di emulare le leggi dei vicini, ma siamo noi di esempio (paravdeigma) a qualcuno piuttosto che imitare gli altri. E di nome, per il fatto di essere amministrata non per pochi ma per la maggioranza, essa è chiamata democrazia, però secondo le leggi, riguardo alle controversie private, c’è una condizione di uguaglianza per tutti (pa`si to; i[son), mentre secondo la reputazione, per come ciascuno ciascuno viene stimato in qualche campo, non per il partito di provenienza più che per il suo valore, viene preferito alle cariche pubbliche, né, d’altra parte secondo il criterio della povertà, se uno può fare qualche cosa di buono per la città, ne è mai stato impedito per l’oscurità della sua posizione sociale (II, 37, 1).
Politevia  è la parola chiave di questa orazione e non solo.
La Costituzione  influisce sulla vita dello Stato e dei suoi cittadini.
Isocrate scriverà che la costituzione è l’anima dello Stato: “infatti la costituzione non è altro che l’anima della città (yuch; povlewς), in quanto ha un potere tanto grande quanto la mente sul corpo. Essa infatti è decisiva su tutto e conserva i beni mentre evita i mali. (Areopagitico[2], 14).

Il principio di uguaglianza (pa`si to; i[son), o almeno di partenza alla pari per tutti, viene attribuito, in termini più chiari, al personaggio di Aspasia da Platone il quale, attraverso Socrate, sostiene che il discorso di Pericle sarebbe stato in realtà ispirato o addirittura composto dalla sua amante. Leggiamone alcune parole: “Nessuno è stato escluso per debolezza né per povertà né per l’oscurità dei padri, né per condizioni opposte è stato ritenuto degno di onore, come nelle altre città, ma c’è un solo limite, chi ha la reputazione di essere saggio e onesto ottiene potere e cariche. Causa di questa forma di governo è il nascere uguali (hJ ejx i[sou gevnesi~) (Menesseno, 238d-e).

Dove voglio arrivare con questo articolo breve?
Alla Costituzione nostra, quella di noi Italiani.
 Art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

In conclusione io spero che chiunque vincerà le elezioni, rimuova davvero gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana e attui queste sante parole della Legge fondamentale del nostro Stato, parole che i padri costituenti hanno scritto sicuramente conoscendo il lovgo~ ejpitavfio~ di Tucidide.
Una volta infatti gli uomini politici leggevano, studiavano, conoscevano la storia, la letteratura, la filosofia, parlavano esprimendo idee. Adesso vige la chiacchiera insignificante che versa  suoni  vuoti nel nulla.
Spero che tali cialtroni e imbonitori da baraccone vengano smascherati, confutati e respinti per sempre.

Giovanni Ghiselli g.ghiselli@tin.it

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[1] 431 a. C.
[2] Il principale scritto di politica interna di Isocrate,  del 356 a. C. Propone di restituire all’Areopago i poteri di tutela sulla vita politica che aveva prima della riforma di Efialte (461 a. C.). Ne abbiamo una traduzione di Leopardi

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