La seconda, tragica telefonata. Attraverso la sofferenza, la
comprensione
Lunedì 30 luglio 1979 fu una giornata dura assai, tuttavia
si concluse con speranze e propositi buoni. Ricordo tale superamento delle
difficoltà, a me stesso e a voi lettori, siccome non dimenticare la via dei
progressi è un metodo buono per
rinvenirla quando ci troviamo a percorrere una strada che sembra condurre in
precipitosi burroni o addirittura a quell’abisso orrido e immenso dove in ogni
caso ci tocca cadere. Il più tardi possibile però, e dopo avere imparato il
massimo .
Exinde quid agi oporteat
bonis successibus instruendi[1],
quindi dovremo farci insegnare dai buoni successi quello che dobbiamo fare.
Quel giorno imparai una volta per tutte a redimere il dolore
con l’intelligenza dello stesso dolore. Ne avrei avuto una conferma molto
autorevole dalla parodo dell’Agamennone di Eschilo: tw'/
pavqei mavqo" (v. 177), attraverso la sofferenza, la comprensione.
Quel giorno, dopo le ore di lingua ungherese ascoltate distracta mente, salii sul tram numero
uno per cercare un altro contatto almeno telefonico con Ifigenia. La sua posta
non era arrivata. Me l’avevano preannunziato con malignità dissimulata e
compiaciuta Alfredo e Stefania, poi l’avevo constatato io stesso, ego ipse oculis meis[2] scrutando meticolosamente e trepidamente ogni
scompartimento della cassetta profonda, divisa per nazioni. Niente di niente
per me. Nemmeno una cartolina. Da bambino, quando ero Moena con la zia Giulia,, nelle estati dei
primi anni Cinquanta le aspettavo da mia madre, invano, con dolore e rimpianto
della mamma, del mare mio, del caldo di Pesaro.
Avevo bisogno di sentire la voce di lei per trarne qualche
conforto più o meno sicuro, oppure un’indubitata disperazione che mi consentisse di cercarmi un altro amore mensile
lì a Debrecen, dove Eros aveva riunito tanti ragazzi e ragazze di educazione accademica
proprio perché si conoscessero a vicenda e pure ciascuno se stesso, come era
accaduto a me in estati felici e lontane.
Entrai nella posta centrale piena, come sempre, di gente non
lieta e chiesi la linea. Tra una cosa e l’altra si era fatta l’ora di pranzo,
quando Ifigenia probabilmente era in casa a desinare con la madre, il padre e e
la sorella minore.
Rispose la padrona
della casetta data in affitto alla famiglia bolognese.
Mi chiese di aspettare un momento, ma tornò dopo un tempo
non breve.
Disse che gli ospiti non c’erano più: erano partiti la sera
prima.
“E’ sicura? - domandai - Sapevo che sarebbero rimasti almeno
fino a Ferragosto”.
“Certo - rispose - qui non c’è più nessuno, sono andati via
tutti”.
Uscii con la testa che mi girava.
Pensavo: “la padrona di casa è andata a chiedere della
ragazza ai genitori; questi per non farle rispondere che la figlia era fuori,
chissà dove e con chi, l’hanno pregata di dire che erano andati via tutti. Se
fossero partiti davvero, l’affittuaria, che viveva nello stesso edificio, me
l’avrebbe detto subito, o quasi subito.
Se l’assenza fosse stata presentabile decentemente, mi
sarebbe stato detto dove era la mia compagna. Dunque colei era uscita con un
uomo che sicuramente ci stava provando, o già ci aveva provato, non senza
successo. Per essere bella era bella. Per consolarmi pensai: “formonsa est: et pavones”[3].
Ricorro ancora al soccorso dei classici .
Dopo tale batosta non mi sentii di andare a desinare.
Camminavo per il centro di Debrecen in balia di emozioni violente e di pensieri
confusi.
La odiavo e amavo come mi succedeva da piccolo con mia
madre.
Dai sentimenti contraddittori cercavo di ricavare pensieri
utili a minimizzare la pena.
giovanni ghiselli.
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