Catullo |
Odi et amo
La amavo e la odiavo, ancora una volta, come mi accadeva da
bambino con la madre mia. Dai sentimenti contraddittori e rigurgitati da oscuri
fondi antichi cercavo di ricavare pensieri nuovi e chiari.
Dai fatti dolorosi dovevo risalire alle cause, o addirittura
alle ajrcaiv, ai princìpi primi,
come ero riuscito a passare dalle noiose tevcnai
grammaticali del greco e del latino al pensiero degli autori, a sentire e
assorbire la bellezza, la carne sempre viva dei loro testi.
“Sai quanto potresti crescere meglio se avessi una compagna
che ti infondesse stati d’animo buoni e coerenti! Ifigenia che cosa è? Una
ragazza geniale e pura, un angelo venuto a elevarmi beandomi, oppure una donna
corrotta da vizi turpi che la faranno precipitare nell’abisso del caos
traendomi con sé?
O perfino l’una e l’altra cosa?"
Mi venne in mente che pochi giorni prima della mia partenza
per Debrecen mi aveva detto di essere stata corteggiata e fatta oggetto di
proposte poco belle da un cavaliere del lavoro con tanto di Ferrari e yacht, un
uomo attempato cui aveva replicato ridendo sonoramente.
“Una risata - avevo pensato - può significare anche consenso o almeno
un prendere tempo, soprattutto se è seguita da un sorriso. Insomma non è un
rifiuto deciso”. Mi vennero in mente alcune parole e note del Don Giovanni di
Mozart-Da Ponte: “Resta, resta! E’ una cosa molto onesta: faccia il nostro
cavaliere cavaliera ancora te”. Poi però mi era venuto in mente che alcuni anni
prima, nel tempo di Kaisa, la figura del seduttore di donne altrui, di tutte le
donne, era il mio ideale e il mio modello. Forse la conversione all’amore serio
e monogamico non mi si confaceva. E probabilmente mi meritavo le corna secondo
la legge del contrappasso: "rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/ che
chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"[1],
ricordai
Questi pensieri provocavano nuove emozioni dalle quali
nascevano nuovi pensieri. E coì via per tutto quel pomeriggio remoto.
Se Ifigenia era tanto pericolante, e io ero davvero convinto
che un rapporto di fedeltà fosse una cosa buona, non potevo aiutarla? Non
dovevo indurla a correggere i giri viziosi della sua testa secondo le
circolazioni e le armonie belle del cielo?
In fondo non si era rivolta a me perché dirozzassi la sua
natura tellurica, fatta di terra vulcanica e sismica per giunta?
Ma come potevo aiutarla se mi faceva soffrire?
Se inebetito dal dolore mi fermavo a fissare il suo abisso,
potevo caderci anche io. Dovevo essere lucido.
Mi vennero in mente di nuovo i dolori provati da bambino
quando non mi sentivo amato dalla madre mia, non tanto quanto pensavo di
meritarmi.
Eppure mia madre mi aveva fatto il più grande dei doni,
pensavo anche, mi aveva dato la vita senza la quale non avrei sofferto molto ma
nemmeno goduto e gioito tanto, e l’anno prima in autunno quella ragazza che
tacciavo di infamia mi aveva ricaricato di vita in una fase difficile del mio
lavoro, perseguitato com’ero da un preside fascista, ignorante e assecondato da
colleghi servili.
Mi avevano aiutato gli allievi di una terza liceo persino
con manifestazioni pubbliche, ma soprattutto mi aveva risollevato Ifigenia, la
bella supplente che, appena arrivata, si schierò coraggiosamente con i pochi
che mi sostenevano. Anche lei, con l’offerta del suo amore, mi aveva arricchito
di vita. Senza tali due donne benedette non ci sarebbe stato niente per me: né
male, né bene, né dolore né piacere, perché non ci sarebbe stata la vita. Non
potevo farne a meno.
Pensavo con simpatia alla vita in generale, a come si era
manifestata in me, quanto l’avevano potenziata le mie donne, e sorridevo
pensando alla vita della madre terra che nutre noi, gli animali, le piante, o a
quella del mare il quale ci fa capire, con il moto ondoso, che respira,
aspirando ed espirando come gli uomini e gli animali. L’angoscia mi stava
passando. Riuscivo a redimere i sentimenti cattivi scaturiti dalla telefonata,
in amore per la vita e in gratitudine per chi me l’aveva donata e accresciuta
via via. Molta riconoscenza dovevo alla madre mia, e non poca alle mie amanti:
dalle due Elene, a Kaisa, a Päivi, a Faina, a Jousiane, di cui ho già
raccontato, e ultimamente a Ifigenia anche se mi stava tradendo. Camminavo nel
bosco fitto di alberi antichi; li ascoltavo mentre parlavano al vento con
fronde vocali, e osservavo l’acqua del laghetto che sorrideva immillando i
raggi del sole con le sue increspature. Non faccio metafore: le fronde parlavano
davvero e l’acqua sorrideva davvero.
Sussurravo e sorridevo
anche io pensando alle donne, al solco del loro corpo che ci mette nella luce, in luminis oras, come gli arati solchi
della terra fanno nascere grano, pensavo agli amici, ringraziavo l’artista
creatore di questo mondo vivo, bello e variopinto. Io volevo contribuire alla
stabilità, se possibile all’accrescimento di tanta bellezza e non dovevo
rabbuiarmi spandendo tenebra e malumore per la sceneggiata napoletana che avevo
immaginato nella casetta di Rimini. Dovevo prenderla appunto come una farsa
messa in scena per divertirmi e farmi pensare, forse creare. Vedevo una
relazione di simpatia tra tutte le parti del mondo e io non dovevo “nelle fata
dar di cozzo”[2], andare contro l’ordine
dell’universo, se non volevo innescare l’esplosione che mi avrebbe fatto
precipitare nell’inferno del caos. Capire dovevo, redimere il dolore in
comprensione e bellezza. Capire quello che ci voleva per la conservazione e
l’accrescimento della vita. Ero naturalmente connesso con il cosmo e non dovevo
recidere questo legame, anzi.
giovanni ghiselli . 7 agosto 2017. Il blog è arrivato a 557951
visite tutte gradite.
Mi piace . Giovanna Tocco
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