Gli Stoici paragonarono la
filosofia a un frutteto: la logica al muro, la fisica agli alberi e l’etica ai
frutti. La logica deve dunque difendere il giardino dagli assalti esterni. La
fisica, come un albero che tende i suoi rami verso il cielo, culminava nella
teologia.
Epitteto (50-130) sostiene che la
filosofia deve chiarire in che cosa consista l’ordine del mondo tiv" ejstin hJ tou' kovsmou dioivkhsi" e quale posto vi abbia
l’essere razionale kai; poivan cwvran ejn
aujtw'/ e[cei to; logiko;n zw'/on, Diatribe, I, 10, 10.
Il lovgo"
è il concetto centrale. Il nou'"
è diverso: non dipende dal mondo esterno. In Parmenide il nou'" coglie l’essere
indipendentemente dall’esperienza esterna. In Platone il nou'" arriva alle idee immateriali.
In Aristotele c’è il nou'"
divino volto verso se stesso. Come
fa allora a essere origine e motore del mondo sensibile?
Il lovgo"
invece connette l’uomo con il mondo esterno. Raccoglie (levgei) e racconta (levgei),
con un discorso organizzato razionalmente.
Eraclito, diversamente da Parmenide
partiva dall’esperienza dei sensi che vengono rielaborate dal lovgo" il quale regna sia nell’uomo
sia nel cosmo e guida tanto il divenire fenomenico quanto il pensiero. Questo
pensiero suggestionò gli Stoici.
Il lovgo"
per Zenone è il principio spirituale che dà forma a tutto l’universo e fissa a
ogni singola creatura la sua destinazione. Esso regna tanto nel cosmo quanto
nell’uomo, come già per Eraclito. La logica indaga il logos.
La parola logos indica la
connessione tra il pensare e il parlare.
Zenone si occupa del linguaggio,
della retorica e della dialettica che affonda le sue radici nel dialogo
socratico.
La retorica riguarda il parlare bene. Stoicei'a sono le lettere, elementa. La linguistica greca fu
fondata da uomini la cui lingua materna non era il greco. Zenone scrisse un Peri; levxewn, sulle forme del dire, e
sostenne che nella parola si manifesta il logos.
Zenone divise la dialettica in due
parti: la prima si occupa dei significanti shmaivnonta,
i suoni della parola, la seconda dei significati shmainovmena,
il contenuto[1].
Tugcavnonta
sono gli oggetti reali, a] tuvgcavnei o[nta.
La voce (fwnhv) è ajh;r peplhgmevno",
aria spinta fuori.
Omero distingueva aujdhv, la favella umana da h\co",
qualunque suono.
La voce umana è voce articolata
proveniente dal pensiero e designa le cose. Gli Stoici tendono sempre a fissare
confini precisi tra l’uomo e l’animale. Il linguaggio è un prodotto del logos.
Varrone[2] segue
Cratete e scrive che i vocaboli sono stati trovati utilitatis causa (VIII,
27-32) e la flessione è stata creata utili
et necessaria de causa, con lo scopo di alleggerire la memoria. Anche la
Stoà sostiene che ogni tevcnh
procede prov" ti tevlo"
eu[crhston tw'n ejn tw'/ bivw/, verso un fine utile tra quelli nella
vita
Cfr. Quintiliano sostiene che il bene dicere è un’arte, se, come ha
voluto Cleante, ars est potestas viā id
est, ordine efficiens, l’arte è una potenza che opera con metodo e ordine,
e nemo dubitaverit nessuno potrebbe
dubitare esse certe viam et ordinem in
bene dicendo; e del resto l’arte consiste di cognizioni che si accordano e
si mettono in pratica ad finem utilem vitae (Institutio oratoria II, 17, 41).
Coloro che imposero i nomi alle
cose si fecero guidare dalla natura: le cose vengono nominate in base a certe
somiglianze che agiscono sul logos.
Cfr, Dionigi di Alicarnasso[3]:
scrive che la natura è la maestra che ci fa imitatori e dispositori delle
parole.
Gli Stoici dunque conciliano l’origine naturale e quella
logica del linguaggio: l’uomo impone i nomi con il lovgo" e con un atto di volontà (qevsei) e dà nomi corrispondenti alla fuvsi" delle cose nominate.
La voce parlando imita i gesti che usiamo per indicare le
cose senza parlare. Crisippo scrive che parliamo della nostra persona indicando
il cuore, così dicendo ejgwv
muoviamo la mascella inferiore verso il basso (SVF. II 895). (Cfr. I inglese).
C’è la tendenza a
nominare gli oggetti imitandoli. Si vede nelle parole onomatopeiche.
Il gradevole, molle, liscio si esprime con lettere molli e
scorrevoli come l e m (mevli);
mentre per il ruvido e l’aspro si usa la r.
Una somiglianza esteriore produce nomi simili, ma anche
un’affinità interna può portare a un trasferimento nella nomenclatura.
I nomenclatori vollero limitare il numero delle parole da
imprimere nella memoria (Varrone L. Lat.
VIII 3 e 5).
CONTINUA
[1] Cfr. Il Saussure (Corso
di linguistica generale, uscito postumo nel 1916) e lo strutturalismo di
moda nel ’68 quando feci l’ultimo esame, quello di glottologia. Ci facevano
studiare tutto a memoria senza che nessuno all’Università avesse mai indicato
questo collegamento con gli Stoici quando ripetevano che la doppia
articolazione costituisce una proprietà fondamentale del linguaggio verbale
umano.
[2] Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti (o in alta Sabina) nel 116 a.C.:
per tale motivo è detto Reatino (attributo che lo distingue da Varrone
Atacino, vissuto nello stesso periodo). Allo scoppio della guerra
civile nel 49
a.C. fu propretore in Spagna:
in una guerra che vedeva i romani contro i romani, tentò un'incerta difesa del
suo territorio che si concluse in una resa che Gaio Giulio Cesare, nei Commentarii de bello civili, definì
poco gloriosa. Dopo la disfatta dei pompeiani, si avvicinò, comunque, a Cesare,
che apprezzò il Reatino soprattutto sul piano culturale, affidandogli la
costituzione di due biblioteche, una di testi latini l'altra di testi greci, ma
che, dopo le idi di Marzo, furono sospese. Dopo la morte del
dittatore, anzi, fu inserito nelle liste di proscrizione sia di Antonio che di
Ottaviano (interessati più alle sue ricchezze che a punire i congiuranti), da
cui si salvò grazie all'intervento di Fufio Caleno per poi avvicinarsi a Ottaviano a cui
dedicò il De gente populi Romani
volto alla divinizzazione della figura di Giulio
Cesare. Morì quasi novantenne nel 27 a.C. dopo
aver scritto una produzione di oltre 620 libri, suddivisi in circa settanta
opere. Di questa enorme produzione è pervenuta (quasi integra) solo un'opera,
il De re rustica, mentre del De
lingua Latina sono pervenuti solo 6 libri su 25.
[3] Dionigi d'Alicarnasso,
o Dionisio (60 a.C. circa
– 7 a.C.), è
stato uno storico
e insegnante di retorica greco
antico, vissuto durante il principato di Augusto. "Sulla disposizione delle parole" (Περὶ συνθέσεως ὀνομάτων, tratta la combinazione delle parole secondo i
diversi stili dell'oratoria. La sua opera maggiore, intitolata Ῥωμαική
ἀρχαιολογία, abbraccia la storia
romana dal periodo mitico fino all'inizio della Prima guerra punica. "Sul carattere di
Tucidide" (Περὶ Θουκυδίδου χαρακτῆρος -) è un breve saggio sull'opera di Tucidide con
una disamina dettagliata ma nel complesso ingiusta.
Giovanna Tocco-
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