Euhemerus |
Anche i benefattori dell’umanità sono stati divinizzati. L’evemerismo vedeva negli dèi degli uomini alzati a onori
divini.
Evemero da Messina (Εὐήμερος,
'felice', 'prospero', in latino: Euhemerus; Messina,
330 a.C.
circa – Alessandria d'Egitto, 250 a.C.
circa) è stato un filosofo, mitografo e storico greco antico, presso la corte di Cassandro I,
re di Macedonia.
La Storia
Sacra
L'opera ci è giunta solo in frammenti di tradizione indiretta, dei quali quelli più
cospicui sono riportati da Diodoro
Siculo e dalla traduzione dell'opera in latino
compiuta da Ennio e giunta a noi in un ampio frammento tramandatoci
a sua volta da Lattanzio: il testo di
Evemero, comunque, era originariamente strutturato in tre libri.
È, dunque, presente in Evemero un'interpretazione
razionalistica della natura degli dèi, secondo la quale essi erano stati in
origine uomini molto potenti che si erano successivamente guadagnati la
venerazione dei concittadini; da qui il termine evemerismo
per descrivere questa teoria. Evemero divenne famoso rapidamente proprio per la
sua teoria, l'evemerismo, cioè la spiegazione razionalistica della genesi
degli dei. Se la sua opera, come quella degli altri storici a lui
contemporanei, fu rapidamente eclissata dal Romanzo di Alessandro, le sue idee
ebbero vasta eco e grazie all’Euhemerus
di Ennio
esse furono integrate nella teologia dei Romani del periodo
Augusteo.
Evemero non è l'unico e men che meno il più noto degli storici "utopistici" o romanzeschi. I suoi interessi etnografici lo avvicinano al suo contemporaneo Ecateo di Abdera, autore di una monografia sugli Egiziani divenuta anch'essa fonte citata da Diodoro Siculo. Da Ecateo egli ricava anche il gusto per la commistione di dati etnografici e la sua ottica di storico, coerente con il profilo dei memorialisti di età ellenistica, non è particolarmente interessata a riferire un resoconto veritiero, quanto a suscitare nel lettore le emozioni che nel secolo precedente erano richieste nelle rappresentazioni drammatiche, soffermandosi su particolari esotici e romanzeschi.
Evemero non è l'unico e men che meno il più noto degli storici "utopistici" o romanzeschi. I suoi interessi etnografici lo avvicinano al suo contemporaneo Ecateo di Abdera, autore di una monografia sugli Egiziani divenuta anch'essa fonte citata da Diodoro Siculo. Da Ecateo egli ricava anche il gusto per la commistione di dati etnografici e la sua ottica di storico, coerente con il profilo dei memorialisti di età ellenistica, non è particolarmente interessata a riferire un resoconto veritiero, quanto a suscitare nel lettore le emozioni che nel secolo precedente erano richieste nelle rappresentazioni drammatiche, soffermandosi su particolari esotici e romanzeschi.
Per gli Stoici la religione popolare contiene un nocciolo di
verità: il popolo ha adorato molti dèi siccome la divinità unica dispiega le
sue forze nell’aria (Hera), nel mare (Poseidone) nella terra (Demetra) nel
fuoco (Efesto).
Nelle parole dei poeti si deve cercare il senso nascosto, la ujpovnoia, il senso allegorico. Già Platone nel
Cratilo (404) fa derivare
{Hra da ajhvr. Gli Stoici fecero dell’allegoria un metodo fisso di
lavoro.
L’allegorismo dagli Stoici acquistò il carattere di un
metodo scientifico impiegato poi da Ebrei e da Cristiani. Gli stoici, come
aveva fatto Eschilo, usarono il nome di Zeus per la loro divinità universale.
La Provvidenza
(p. 193)
Per gli Stoici la divinità è sollecita nei confronti degli
uomini. La provnoia
inerisce all’essenza divina come il bianco alla neve. La natura provvidente non
fa nulla senza uno scopo. Ogni cosa è concatenata con un’altra e ha una sua
destinazione. Né manca lo scopo della bellezza. Il pavone è stato creato dalla
natura a motivo della sua coda. Le forme di vita inferiori esistono in funzione
di quelle superiori. L’uomo è l’usufruttuario di tutte le cose. Sofocle nel I
Stasimo dell’Antigone vede questo predominio dell’uomo sulla natura in
modo problematico.
L’antica grecità
non pensava che il mondo fosse stato creato
per l’uomo. Si trova invece nell’Antico Testamento. Zenone portò
questa idea dalla propria cultura semitica.
Crisippo scrisse che le cimici provvedono a che non dormiamo
troppo. La debolezza del corpo ci spinge a sviluppare il logos. Malattie e
grandinate non sono in origine (prohgoumevnw") nei piani della provvidenza ma sono
fenomeni concomitanti (kat j ejpakolouvqhn). La luce non c’è senza le tenebre, né il
bene senza il male. Il male è un’emanazione del libero arbitrio. I mali fisici
mettono alla prova e temprano la forza morale dell’uomo. Del resto noi non
possiamo sempre pretendere di leggere nelle intenzioni di Dio. Terremoti sono
punizioni e purificazioni: dobbiamo sempre pensare al tutto e alla sua
grandezza, allora la critica meschina sarà ridottaal silenzio. Seneca Epist.
95, 49: gli dèi operano opera solo il bene.
La causa del fare del bene è la loro natura: “Quae causa
est dis bene faciendi? Natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non
possunt”
Panezio scrisse il Peri;
pronoiva".
La Heimarmene
(p. 201)
La Provvidenza si rivela come eiJmarmevnh ù (hJ eiJmarmevnh (moi'ra)
destino p. p. da meivromai,
ricevo la mia parte (lat. mereo e mereor, merito).
Tutto ha una causa e gli Stoici rimproveravano agli Epicurei
in particolare il clinamen incausato. C’è una catena di cause, un
ininterrotto nesso causale.
Con un’etimologia inammissibile gli Stoici interpretarono eiJmarmevnh come
eiJrmo;"
aijtiw'n, series causarum, concatenazione di cause (cfr. ei[rw,
annodo). Il caso non esiste.
La tuvch è invero un’ aijtiva a[dhlo" ajnqrwpivnw/ logismw'/.
Tutto ciò che accade, accade necessariamente.
Gli avversari replicavano che questo determinismo rigido
condanna l’uomo all’inazione (p. 204)
Se è prederminato che il malato guarirà non è inutile curarsi
perché è prestabilito pure che la guarigione dipende dalla cura.
Omero usa ei[marto quando un uomo prende coscienza della parte assegnatagli.
L’Eteocle di Eschilo accetta il proprio destino e lo impiega
per la salvezza della patria (Sept. 281, 264)
Nell’Agamennone di Eschilo, Clitennestra vuole
scaricare la colpa sul demone ma il coro le rinfaccia le sue responsabilità (Agamennone
1488 e 1505)
Platone nelle Leggi (904cd) circoscrive l’ambito
della eiJmarmevnh.
Nel mito di Er della Repubblica Lachesi figlia di
Ananche dice che la virtù non ha padrone e la responsabilità è dell’uomo che fa
la scelta (617d - e)
Le Moire
Sedevano in trono tre persone diverse dalla folla: le figlie
di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei serti (stevmmata, 617c) sul capo.
Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che cantavano
sull’armonia delle sirene.
Lachesi cantava ta; gegonovta,
il passato, Cloto ta;
o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.
Le tre Moire[1]
accompagnavano con la mano i moti del fuso.
Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le
sorti.
Quindi un portavoce (profhvth~) dispose in fila la folla, poi
prese delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.
Infine il profhvth~, salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero
di Lachesi, la vergine figlia di Ananche (jAnagkh" qugatro;" kovrh"
Lacevsew" lovgo~).
Disse: “Questo è
l’inizio di un altro ciclo di mortalità della razza mortale, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi
sceglierete il demone"
(“ oujc uJma'"
daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617
e).
Chi è sorteggiato a scegliere per primo, prenda per primo la
vita cui sarà congiunto”.
La parola di Lachesi
aggiunge che la virtù è senza padrone (ajreth; de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno
ne avrà di più o di meno, a seconda che la apprezzi o la disprezzi.
Responsabile è chi ha fatto la scelta[2], non
la divinità” (aijtiva
eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~ (617 e).
Epicuro crede nel libero arbitrio che ha il suo correlativo
cosmico nella parevgklisi"
degli atomi, la deviazione dalla linearetta nella caduta. La deviazione del
resto deve essere minima (cfr. Lucrezio II, 44)
Per gli Stoici la sugkatavqesi" è un atto libero.
L’uomo ha il compito di educare il proprio logos ed è colpa sua se lo lascia
indebolire.
Epicuro sostenne che l’eiJmarmevnh fa dell’uomo uno schiavo.
Altri avversari la chiamavano hJmidouleiva, una mezza schiavitù.
Crisippo pone la libertà nella accettazione del destino.
Cleante scrive seguirò pronto il destino e{yomai aokno", poiché
se non voglio, divenuto vile, nondimeno dovrò seguirlo h]n dev ge mh; qevlw, kako;" genovmeno"
oujde;n h|tton e{yomai (fr. 527).
Siamo come cani legati a un carro.
CONTINUA
[1] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj - privativo, quindi l’inflessibile.
[2] E’ l’afferrmazione della responsabilità degli uomini,
già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi
essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino.
Giovanna Tocco
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