NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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sabato 26 agosto 2017

Max Pohlenz, "La Stoa". Lettura commentata. X parte

Euhemerus

Anche i benefattori dell’umanità sono stati divinizzati. L’evemerismo vedeva negli dèi degli uomini alzati a onori divini. 
Evemero da Messina (Εήμερος, 'felice', 'prospero', in latino: Euhemerus; Messina, 330 a.C. circa – Alessandria d'Egitto, 250 a.C. circa) è stato un filosofo, mitografo e storico greco antico, presso la corte di Cassandro I, re di Macedonia.

La Storia Sacra

L'opera ci è giunta solo in frammenti di tradizione indiretta, dei quali quelli più cospicui sono riportati da Diodoro Siculo e dalla traduzione dell'opera in latino compiuta da Ennio e giunta a noi in un ampio frammento tramandatoci a sua volta da Lattanzio: il testo di Evemero, comunque, era originariamente strutturato in tre libri.
È, dunque, presente in Evemero un'interpretazione razionalistica della natura degli dèi, secondo la quale essi erano stati in origine uomini molto potenti che si erano successivamente guadagnati la venerazione dei concittadini; da qui il termine evemerismo per descrivere questa teoria. Evemero divenne famoso rapidamente proprio per la sua teoria, l'evemerismo, cioè la spiegazione razionalistica della genesi degli dei. Se la sua opera, come quella degli altri storici a lui contemporanei, fu rapidamente eclissata dal Romanzo di Alessandro, le sue idee ebbero vasta eco e grazie all’Euhemerus di Ennio esse furono integrate nella teologia dei Romani del periodo Augusteo.
Evemero non è l'unico e men che meno il più noto degli storici "utopistici" o romanzeschi. I suoi interessi etnografici lo avvicinano al suo contemporaneo Ecateo di Abdera, autore di una monografia sugli Egiziani divenuta anch'essa fonte citata da Diodoro Siculo. Da Ecateo egli ricava anche il gusto per la commistione di dati etnografici e la sua ottica di storico, coerente con il profilo dei memorialisti di età ellenistica, non è particolarmente interessata a riferire un resoconto veritiero, quanto a suscitare nel lettore le emozioni che nel secolo precedente erano richieste nelle rappresentazioni drammatiche, soffermandosi su particolari esotici e romanzeschi.

Per gli Stoici la religione popolare contiene un nocciolo di verità: il popolo ha adorato molti dèi siccome la divinità unica dispiega le sue forze nell’aria (Hera), nel mare (Poseidone) nella terra (Demetra) nel fuoco (Efesto).
Nelle parole dei poeti si deve cercare il senso nascosto, la ujpovnoia, il senso allegorico. Già Platone nel Cratilo (404) fa derivare
{Hra da ajhvr. Gli Stoici fecero dell’allegoria un metodo fisso di lavoro.
L’allegorismo dagli Stoici acquistò il carattere di un metodo scientifico impiegato poi da Ebrei e da Cristiani. Gli stoici, come aveva fatto Eschilo, usarono il nome di Zeus per la loro divinità universale.

La Provvidenza (p. 193)
Per gli Stoici la divinità è sollecita nei confronti degli uomini. La provnoia inerisce all’essenza divina come il bianco alla neve. La natura provvidente non fa nulla senza uno scopo. Ogni cosa è concatenata con un’altra e ha una sua destinazione. Né manca lo scopo della bellezza. Il pavone è stato creato dalla natura a motivo della sua coda. Le forme di vita inferiori esistono in funzione di quelle superiori. L’uomo è l’usufruttuario di tutte le cose. Sofocle nel I Stasimo dell’Antigone vede questo predominio dell’uomo sulla natura in modo problematico.
L’antica grecità non pensava che il mondo fosse stato creato per l’uomo. Si trova invece nell’Antico Testamento. Zenone portò questa idea dalla propria cultura semitica.
Crisippo scrisse che le cimici provvedono a che non dormiamo troppo. La debolezza del corpo ci spinge a sviluppare il logos. Malattie e grandinate non sono in origine (prohgoumevnw") nei piani della provvidenza ma sono fenomeni concomitanti (kat j ejpakolouvqhn). La luce non c’è senza le tenebre, né il bene senza il male. Il male è un’emanazione del libero arbitrio. I mali fisici mettono alla prova e temprano la forza morale dell’uomo. Del resto noi non possiamo sempre pretendere di leggere nelle intenzioni di Dio. Terremoti sono punizioni e purificazioni: dobbiamo sempre pensare al tutto e alla sua grandezza, allora la critica meschina sarà ridottaal silenzio. Seneca Epist. 95, 49: gli dèi operano opera solo il bene.
La causa del fare del bene è la loro natura: “Quae causa est dis bene faciendi? Natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt
 Panezio scrisse il Peri; pronoiva".

La Heimarmene (p. 201)
La Provvidenza si rivela come eiJmarmevnh ù (hJ eiJmarmevnh (moi'ra) destino p. p. da meivromai, ricevo la mia parte (lat. mereo e mereor, merito).
Tutto ha una causa e gli Stoici rimproveravano agli Epicurei in particolare il clinamen incausato. C’è una catena di cause, un ininterrotto nesso causale.
Con un’etimologia inammissibile gli Stoici interpretarono eiJmarmevnh come eiJrmo;" aijtiw'n, series causarum, concatenazione di cause (cfr. ei[rw, annodo). Il caso non esiste.
La tuvch è invero un’ aijtiva a[dhlo" ajnqrwpivnw/ logismw'/.
Tutto ciò che accade, accade necessariamente.
Gli avversari replicavano che questo determinismo rigido condanna l’uomo all’inazione (p. 204)
Se è prederminato che il malato guarirà non è inutile curarsi perché è prestabilito pure che la guarigione dipende dalla cura.
Omero usa ei[marto quando un uomo prende coscienza della parte assegnatagli.
L’Eteocle di Eschilo accetta il proprio destino e lo impiega per la salvezza della patria (Sept. 281, 264)
Nell’Agamennone di Eschilo, Clitennestra vuole scaricare la colpa sul demone ma il coro le rinfaccia le sue responsabilità (Agamennone 1488 e 1505)
Platone nelle Leggi (904cd) circoscrive l’ambito della eiJmarmevnh.
Nel mito di Er della Repubblica Lachesi figlia di Ananche dice che la virtù non ha padrone e la responsabilità è dell’uomo che fa la scelta (617d - e)
Le Moire
Sedevano in trono tre persone diverse dalla folla: le figlie di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei serti (stevmmata, 617c) sul capo.
Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che cantavano sull’armonia delle sirene.
 Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.
Le tre Moire[1] accompagnavano con la mano i moti del fuso.
Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le sorti.
Quindi un portavoce (profhvth~) dispose in fila la folla, poi prese delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.
Infine il profhvth~, salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine figlia di Ananche (jAnagkh" qugatro;" kovrh" Lacevsew" lovgo~).
Disse: “Questo è l’inizio di un altro ciclo di mortalità della razza mortale, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi sceglierete il demone"
 (“ oujc uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617 e).
Chi è sorteggiato a scegliere per primo, prenda per primo la vita cui sarà congiunto”.
 La parola di Lachesi aggiunge che la virtù è senza padrone (ajreth; de; ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda che la apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[2], non la divinità” (aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~ (617 e).

Epicuro crede nel libero arbitrio che ha il suo correlativo cosmico nella parevgklisi" degli atomi, la deviazione dalla linearetta nella caduta. La deviazione del resto deve essere minima (cfr. Lucrezio II, 44)
Per gli Stoici la sugkatavqesi" è un atto libero. L’uomo ha il compito di educare il proprio logos ed è colpa sua se lo lascia indebolire.
Epicuro sostenne che l’eiJmarmevnh fa dell’uomo uno schiavo. Altri avversari la chiamavano hJmidouleiva, una mezza schiavitù.
Crisippo pone la libertà nella accettazione del destino.
Cleante scrive seguirò pronto il destino e{yomai aokno", poiché se non voglio, divenuto vile, nondimeno dovrò seguirlo h]n dev ge mh; qevlw, kako;" genovmeno" oujde;n h|tton e{yomai (fr. 527).
Siamo come cani legati a un carro.


CONTINUA



[1] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj - privativo, quindi l’inflessibile.
[2] E’ l’afferrmazione della responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino.  

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