PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA
Ieri
sera, poco prima che si concludesse la festa provinciale dell’Unità di Bologna,
è venuto alla Casa dei pensieri Vito Mancuso per presentare il suo libro Il principio passione edito dalla
Garzanti.
Ha
detto, tra l’altro che ci sono due forze contrastanti : il cavo~ e il
il lovgo~ che
prevale nel cosmo dando luogo al pavqo~.
Da
umile grecista qual sono, in un brevissimo intervenuto ho replicato, citando il
v. 177 dell’Agamennone di Eschilo (Tw/' pavqei
mavqo"),
che il punto d’arrivo è piuttosto il mavqo~ che il pavqo~.
Mancuso
ha risposto che secondo lui il mavqo~ è solo un limitato sapere
intellettuale. Mi avevano avvisato che il mio era l’ultimo intervento concesso
e non ho potuto replicare. Lo faccio con questa scheda che spero arrivi anche a
lui. Il mavqo~ non è
illogico ma non è solo lovgo~. E’ comprensione anche morale,
soprattutto morale.
Mancuso
è giovane, beato lui, e può imparare ancora molte cose. Del resto lo faccio
anche io che giovane non sono più. Ma, come Solone “ghravskw d jaijei; polla; didaskovmeno"”[1],
invecchio imparando sempre molte cose.
Il
coro di vecchi argivi nella Parodo dell’Agamennone
di Eschilo (v. 177) afferma: tw/' pavqei mavqo", attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[2].
Una sentenza topica che ha avuto un lungo seguito nella letteratura europea: da
Euripide, a Menandro, a Proust, a Hermann Hesse.
Vediamone alcune espressioni
Un tovpo" etico e psicologico diffuso è quello del tw/' pavqei mavqo" [3], attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[4]. Voglio darne un ampio quadro.
Un tovpo" etico e psicologico diffuso è quello del tw/' pavqei mavqo" [3], attraverso la sofferenza si giunge alla comprensione[4]. Voglio darne un ampio quadro.
La
sofferenza che conduce alla comprensione
Esiodo.
Pavese. Sofocle. Euripide. Menandro. Polibio. Nietzsche. Virgilio. Schiller. Dostoevskij.
H. Hesse. Proust. Wilde. D'Annunzio. Verga. Di nuovo Pavese. Ancora
Hesse. Piero Boitani
Tale legge si trova in tutte le
espressioni letterarie collegate all'oracolo delfico.
Esiodo
afferma che la giustizia, quando si giunge alla fine, supera la prepotenza e
soffrendo anche lo stolto impara (Opere e giorni, vv. 217-218).
Viceversa
Pavese: “Non bastano le disgrazie a
fare di un fesso una persona intelligente”[5].
Nell'opera
di Sofocle questa concatenazione di
delitto-castigo -riconoscimento degli errori, è messa in piena evidenza alla
fine dell'Antigone, quando Creonte
riceve la notizia del terzo suicidio provocato da lui e dichiara la propria
colpa che lo ha annichilito:"a[getev m j ejkpodwvn,-to;n oujk o[nta ma'llon h]
mhdevna",
portatemi via, io non sono più di un nessuno (vv.1324-1325). Nel poeta di
Colono questo comprendere tardivo non salva dalla catastrofe chi ha sbagliato.
Un caso di lieto fine in seguito a
resipiscenza invece possiamo trovarlo nell'Alcesti
di Euripide. Admeto, sentendo il
peso della solitudine dopo avere chiesto alla giovane moglie il sacrificio
della sua vita per salvare la propria, soffre la desolazione nella quale è
rimasto e dice: "lupro;n diavxw bivoton:
a[rti manqavnw",
condurrò una vita penosa: ora comprendo (v.940). In
seguito, come si sa, gli verrà restituita la compagna dalla possa di Eracle.
C. Del Grande in Tragw/diva afferma
che pure la commedia nuova, e particolarmente quella di Menandro mantiene un carattere paradigmatico fornendo esempi di mavqo" tragico.
E' il caso di Carisio negli jEpitrevponte" (L’arbitrato): il marito che aveva ripudiato la moglie per un
presunto errore sessuale di lei, un fallo che, senza saperlo, avevano commesso
insieme, quando si accorge dell'amore della sposa, ironizza sulla propria
innocenza di uomo attento alla reputazione:" ejgwv ti"
ajnamavrthto", eij" dovxan blevpwn"(v. 588), io uno senza
peccato, e comprende che deve perdonare quello che è stato solo un "ajkouvsion
gunaiko;" ajtuvchma", un infortunio involontario della
donna (v.594).
“Nella commedia più
delicata e più bella di Menandro, gli Epitrepontes,
il cui intreccio può essere in qualche modo ricostruito, tutto si svolge in
modo che infine un giovane si renda conto del misfatto che ha commesso.
Ubriaco, ha usato violenza a una fanciulla che poi sposa senza sapere di averla
già incontrata. Quando nasce un figlio prima del tempo, com’egli crede, si
adira contro la moglie finché deve scoprire che l’unica persona meritevole
della sua indignazione morale è lui stesso. Come Admeto in Euripide, acquista
coscienza della propria situazione e riconosce che le sue grosse parole non
erano altro che parole. Così osserva a suo modo l’antico ammonimento delfico:
conosci te stesso. Ma non è un Tantalo che nella sua hybris selvaggia ha ignorato il confine tra potere umano e divino,
né un Edipo, che nelle sue oneste aspirazioni confidava nel proprio sapere, e
neppure un Admeto, che non riconosceva un imperativo a lui posto: è un giovane
borghese innocuo che senza un proposito, senza un’idea, a anzi senza vera
coscienza, essendo ubriaco, è caduto vittima della debolezza umana. La grandezza
di Menandro sta nello sviluppare caratteri umani, con le loro reazioni
psicologiche, da temi così inconsistenti…i poeti più antichi erano spinti a
comporre da motivi di contenuto: conservare vivo il ricordo di grandi gesta,
scoprire una verità, indagare la virtù ecc…Dopo l’intermezzo democratico, con
la fioritura ateniese della tragedia e della commedia, i poeti dovevano di
nuovo dimostrare il loro talento alle corti dei monarchi…E come Menandro essi
rinunciano al pathos, ai programmi morali, all’impegno politico, e osservano
con sorridente comprensione il comportamento degli uomini”[6].
Sulla
medesima linea si trova il Duvskolo" : il
vecchio Cnemone solitario e misantropo, in seguito a una caduta nel pozzo,
comprende che nessuno è tanto autosufficiente da potere vivere senza l'aiuto
del prossimo, e deve ammettere:" e{n d j i[sw" h{marton o{sti~ tw'n aJpavntwn
wj/ovmhn-aujto;" aujtavrkh" ti" ei\nai kai; dehvsesq j
oujdenov""
(vv.713-714), in una cosa probabilmente ho sbagliato: a credere di essere il
solo autosufficiente tra tutti, e di non avere bisogno di nessuno. In Menandro
dunque rimane vigente la legge tragica per la quale attraverso le proprie
sofferenze si impara e si diventa più comprensivi:"non si può dire che mavqo" non ci
sia stato...Il paradigma in funzione esemplare è evidente"[8].
Del
resto già nel Prologo il dio Pan aveva detto a proposito di Gorgia: “ oJ pai`~ uJpe;r th;n
hJlikivan to;n nou`n e[cwn:/ proavgei ga;r hj tw'n pragmavtwn ejmpeiriva, vv.
28- 29, è un ragazzo che ha cervello al di sopra della sua età:/infatti
l'esperienza delle difficoltà fa crescere.
Anche
il "pragmatico" e "universale" Polibio riconosce valore educativo alla
sofferenza: al cambiamento in meglio si giunge attraverso due vie: quella dei
patimenti propri e quella dei patimenti altrui (tou' te dia; tw'n ijdivwn sumptwmavtwn kai; dia;
tw'n ajllotrivwn);
la prima è più efficace ("ejnargevsteron"), la seconda meno dannosa
("ajblabevsteron",
Storie , I, 35, 7).
Dal dolore dei Greci
si sviluppa non solo la comprensione ma anche la bellezza, una sorta di tw/'
pavqei kavllo"
:"Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore…la
questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di
feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppata dalla mancanza,
dalla privazione, dalla malinconia e dal dolore…quanto dovette soffrire questo popolo, per poter diventare così bello!"[9].
La
"Classicità non è chiarezza sin dall'inizio, bensì contesa giunta ad
unità, discordia conciliata, angoscia risanata".[10]
Sulla sofferenza positiva Nietzsche si esprime in Di là dal
bene e dal male[11]:"il
grado gerarchico di un uomo è quasi determinato dal grado di profondità
cui è capace di giungere la sofferenza degli uomini,-la sua raccapricciante
certezza…di sapere di più grazie alle sue sofferenze" (p. 200).
Per
non limitarci alla letteratura greca e ai suoi interpreti, aggiungiamo autori
successivi.
Nell'Eneide di Virgilio Didone incoraggia i Troiani giunti naufraghi sulle coste
della Libia ricordando che anche lei è esperta di sventure le quali l'hanno
resa non solo attenta e diffidente, ma pure compassionevole verso i
disgraziati:"non ignara mali miseris
succurrere disco "(I, 630), non ignara del male imparo a soccorrere gli sventurati. Tanta humanitas
non verrà contraccambiata da Enea. Eppure questo è uno degli insegnamenti
massimi dei nostri autori e dovrebbe esserlo nella scuola :"E infine,
possiamo imparare la lezione fondamentale della vita, la compassione per le
sofferenze di tutti gli umiliati, e la comprensione autentica"[12].
“Virgilio insiste,
com’è ben noto, sull’umanità del personaggio, che, avendo sofferto, è
particolarmente sensibile al dolore degli altri”[13].
Friederich Schiller impiega la norma del tw'/ pavqei mavqo~ in molte delle sue tragedie, particolarmente
nella Maria Stuarda (1802):
“il personaggio della infelice regina cattolica sembra tra tutti il più adatto
ad essere il fulcro d’una tragedia di ispirazione euripidea…secondo quelle
leggi drammatiche già prospettate nel saggio Vom Erhabenen [14],
1793, per le quali “Se la prima legge dell’arte tragica è rappresentare la
natura sofferente, la seconda legge è rappresentare la resistenza morale a
quelle sofferenze”[15].
Maria muore non solo rassegnata ma felice del proprio matirio: “La prigione si
apre,/e lieta la mia anima vola/verso l’eterna libertà…ora/ benefica e dolce mi
si affianca/la morte come una severa amica…Sento/di nuovo sul mio capo la
corona/e l’antica dignità rivive/nell’animo lavato dal dolore” (V, 4).
F. Dostoevskij
in Ricordi del sottosuolo (del 1864) scrive:" io sono
convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza, e cioè
alla distruzione e al caos. Giacché la sofferenza è la vera origine della
coscienza… In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos'è meglio,
una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos'è
meglio?" (p. 234 e p. 320).
Lo
stariez Zossima nei Fratelli Karamazov dice le sue ultime volontà ad Alioscia:
“Avrai molto da fare. Ma non dubito di te, e perciò ti mando nel mondo. Cristo
sarà sempre con te. ConservaLo nel tuo cuore, ed anche Lui ti conserverà.
Conoscerai grandi sofferenze, e nel dolore troverai la felicità. Eccoti il mio
testamento: nelle sofferenze cerca la felicità. E lavora, lavora senza tregua”[16].
H. Hesse, in Siddharta (p.135) esprime con altre parole
l'antica legge eschilea del tw/' pavqei mavqo":"Profondamente sentì in
cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la
ferita non gli era stata data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché
fiorisse in tanta luce".
Dalla donna che ci fa soffrire si impara
anche.
Su questo possiamo
sentire Proust: "Perché
solo la felicità è salutare al corpo, ma è il dolore a sviluppare le energie
dello spirito… Una donna di cui abbiamo bisogno, che ci fa soffrire, trae da noi
serie di sentimenti ben più profondi, ben altrimenti vitali di quanto possa
fare un uomo superiore che ci interessi. Resta da sapere, secondo il piano su
cui viviamo, se davvero ci sembra che il tradimento col quale ci ha fatto
soffrire una donna sia ben poca cosa in confronto delle verità che ci ha
rivelate, verità che la donna, paga d'aver fatto soffrire, non avrebbe potuto
comprendere...Facendomi perdere il
mio tempo, facendomi soffrire, forse Albertine mi era stata più utile, anche
sotto l'aspetto letterario, di un segretario che avesse messo in ordine le mie
"scartoffie". Tuttavia, allorché un essere è così mal conformato (e
può darsi che nella natura un tal essere sia proprio l'uomo) da non poter amare
senza soffrire, e da aver bisogno di soffrire per imparare certe verità, la
vita d'un tale essere finisce col riuscire ben spossante!"[17].
La
sofferenza si confà alla chiarezza della visione e pure all'arte:"Spesso
solo per mancanza d'ingegno creativo non ci spingiamo abbastanza oltre nella
sofferenza. E la realtà più atroce suol dare, insieme con la sofferenza, la
gioia d'una bella scoperta, perché non fa che dare una forma nuova e chiara a
quello che andavamo rimuginando da un pezzo senza rendercene conto"[18].
“La
sofferenza, per quanto ti possa apparire strano, è il nostro modo di esistere,
poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della
vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la
garanzia, la testimonianza della nostra identità”[19].
Sentiamo
ancora qualche testimonianza.
D'Annunzio
attribuisce al piacere maggiore efficacia pedagogica che al dolore :"Ella[20]
ci persuade ogni giorno l'atto che è la genesi stessa di nostra specie[21]:
lo sforzo di sorpassar sé medesimo, senza tregua; ella ci mostra la possibilità
di un dolore trasmutato nella più efficace energia stimolatrice; ella c'insegna
che il piacere è il più certo mezzo di conoscimento offertoci dalla Natura e
che colui il quale molto ha sofferto è men sapiente di colui il quale molto ha
gioito"[22].
Ora
sentiamo il vecchio Malavoglia:
“Hanno imparato presto perché hanno visti guai assai!-diceva padron jNtoni:-il
giudizio viene colle disgrazie”[23].
Torniamo
a Cesare Pavese:" la grande, la tremenda verità è
questa: soffrire non serve a niente"[24].
“Soffrire non serve
a niente (26 novembre ‘37).
Soffrire limita
l’efficienza spirituale (17 giugno ‘ 38).
Soffrire è sempre
colpa nostra (29 settembre ’38)
Soffrire è una
debolezza (13 ottobre ’38)
Almeno un’obiezione
c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle sentenze”[25].
“Qualunque
sofferenza che non sia anche conoscenza è
inutile”[26].
Mi avvio alla
conclusione con un un personaggio, Boppi, di un romanzo giovanile di H. Hesse:" mi capitò di diventare
l’allievo meravigliato e riconoscente di un misero storpio. Se un giorno
arriverò davvero a compiere il poema iniziato da gran tempo e a pubblicarlo, vi
si troverà ben poco di buono che io non abbia imparato da Boppi. Incominciò per
me un periodo buono e piacevole nel quale troverò da nutrirmi per tutta la
vita. Mi fu concesso di vedere addentro una magnifica anima umana sulla quale
malattia, solitudine, povertà e maltrattamenti erano passati soltanto come
nuvole leggere e vaganti. Tutti i piccoli vizi coi quali ci amareggiamo e
guastiamo la vita bella e breve, l’ira, l’impazienza, la menzogna, tutte queste
odiose e luride piaghe che ci deformano erano state cauterizzate in quell’uomo
da lunghi e profondi dolori. Non era un saggio, né un angelo, ma un uomo pieno
di comprensione e di affetto che, a furia di tremende sofferenze e di gravi
privazioni aveva imparato a sentirsi debole senza vergognarsi, e ad affidarsi
nelle mani di Dio"[27].
Concludo
questo argomento citando Piero Boitani,
professore di Letterature comparate nell’Università di Roma “La Sapienza”: “La vita è
fatta della nostra relazione con gli altri, non solo di contemplazione della
natura o di noi stessi. Penso che per sopravvivere con gli altri sia necessario
compatire: non soltanto nel senso di avere pietà nei loro confronti, di
guardare alle loro e alle nostre sventure con umana pietas, ma di “soffrire con”, “com-patire”. Se soffriamo con gli
altri, se prendiamo su di noi i loro dolori, riconosciamo l’essere umano che è
in loro, e in noi, in maniera assai più profonda di quanto non ci consenta il
semplice conoscere…Leggere la compassione nell’Elettra di Sofocle, ma poi cercarne le variazioni in Omero, in
Proust, in Guerra e Pace. Temi e
tradizioni. La letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le
medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita”[28].
E
più avanti, specificamente sul tw/' pavqei maqo~: “La sofferenza, allora, è un
prerequisito del riconoscimento. Se la Genesi ebraica postula che il prezzo del sapere
sia la morte[29],
i Greci sapevano perfettamente che la conoscenza si può acquisire soltanto
attraverso il dolore. Era saggezza comune fin dai tempi di Omero ed Esiodo[30],
ma è stato Eschilo, all’inizio della tragedia, ad esprimerla in maniera
memorabile nell’Agamennone, quando il
coro intona il famos “Inno a Zeus”[31]
Zeus,
chiunque egli sia, se è questo il nome
Con
cui gli è caro essere invocato,
così
a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo,
pur
tutto attentamente vagliando,
tranne
Zeus, se veramente si deve gettar via
il
vano peso dal proprio pensiero.
(….)
Ma
chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio
Coglierà
pienamente la saggezza-
A
Zeus che ha avviato i mortali
A
essere saggi, che ha posto come valida legge
“saggezza
attraverso la sofferenza”.
Invece
del sonno (oppure: “anche nel sonno”) stilla davanti al cuore
un’angoscia
memore di dolori:
anche
a chi non vuole arriva saggezza.
Pathei
mathos:
questa è l’indicazione di Zeus per il phronein
umano, la “prudenza” che è saggezza”[32].
Aggiungo
i due versi dell’Agamennone
opportunamente indicati da Boitani in nota: “Divka de; toi'~ me;n paqou'-sin maqei'n
ejpirrevpei”
(Agamennone, vv. 250-251), Giustizia
fa pendere comprensione verso quelli che hanno sofferto.
Giovanni
Ghiselli
[1] fr. 28 Gentili-Prato
[2] Si
veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude",
attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La
testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[3] Eschilo, Agamennone, 177.
E, poco più avanti :"goccia
invece del sonno davanti al cuore/il penoso rimorso, memore delle pene
inflitte; e anche/sui recalcitranti arriva il momento della saggezza" ( kai; par j
a[-konta" h\lqe swfronei'n
, Agamennone, vv. 179-181).
[4] Si
veda la massima beethoveniana "Durch Leiden Freude",
attraverso la sofferenza la gioia. Ricavo il suggerimento da E. Morin, La
testa ben fatta, p. 43 n. 7.
[5] Il mestiere di
vivere, 2 novembre 1938.
[6]
B. Snell, Poesia e società, pp.
156-157.
[7]Tragw/diva , p. 209.
[9]
F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1872), p. 7 e p. 163.
[10]B.
Snell, Eschilo e l'azione drammatica
, p. 141.
[11]
Del 1875
[12]
E. Morin, La testa ben fatta, p. 49.
[13]
A. La Penna, Prima lezione di letteratura latina, p.
150.
[14]
Sul sublime ndr.
[15]
Schiller Tutto il teatro 3,
Introduzione di Paolo Chiarini, p. 108.
[16]
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov,
p. 123.
[17]M.
Proust, Il tempo ritrovato , pp 238,
239 e 242.
[18]
M. Proust, Sodoma e Gomorra, p. 549.
[19] O. Wilde, De Profundis, in Oscar Wilde
Opere, p. 653.
[20]
La vita.
[21]
" Se il chiavare non
fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comincerebbe di lì" (C. Pavese, Il mestiere di vivere , 25 dicembre,
1937). Ndr.
[22]
Il fuoco (del 1900) p. 95.
[23]
G. Verga, I Malavoglia, p. 221.
[24]
C. Pavese, Il mestiere di vivere, 25 novembre 1937.
[25]
Il mestiere di vivere, 27 ottobre
1938.
[26]
Il mestiere di vivere, 19 gennaio
1939.
[27]H.
Hesse, Peter Camezind (del 1904), p.
117.
[28]
P. Boitani, Prima lezione sulla
letteratura, pp. X ss.
[29]
Genesi 2. 17 riporta l’ordine di Dio ad Adamo: “ma dell’albero della conoscenza
del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi,
certamente moriresti”…Nella tradizione occidentale c’è anche un legame costante
tra l’anagnorisis e la cecità (o la
morte: Edipo e Lear) e tra l’anagnorisis
e il ragionamento, di cui ho scritto Il
genio di migliorare un’invenzione, cit.
[30]
Per l’importanza del pathei mathos
nella tragedia, si veda Kuhn Die wahre Tragödie,
cit., pp. 254-255. I loci più
importanti della tradizione soo Omero, Iliade,
XVII, 32; Esiodo, Opere e giorni,
218; Erodoto, I, 207, 1; Sofocle, Edipo
re, 402; Sofocle, Antigone, 1190;
Platone, Simposio, 222b. Per un elenco generale e una discussione
si veda H. Dorrie, Leid und Erfahrung,
in “Abhandlunen der Akademie der Wissenschaft und der Literatur”, Mainz, 5,
1956.
[31]
Eschilo, Agamennone, 160-180 (e si vedano anche i vv. 250-252). L’edizione
usata è quella curata da V. Di Benedetto, Mondadori, Milano 1995. Si veda anche
E. Severino, Il giogo. Alle origini della
ragione: Eschilo, Adelphi, Milano, 1989.
[32]
Piero Boitani, Prima lezione sulla
letteratura, pp. 109-110.
congratulazioni per il superamento dei 100.000
RispondiEliminaalessandro