Recensione del film Sacro GRA di Gianfranco Rosi
Ieri ho visto il film di Rosi che ha vinto il leone d’oro
all’ultima mostra del cinema di Venezia.
Questo Sacro GRA
fa vedere un anello stradale che cinge Roma come la palude
dello Stige circonda la dantesca città infernale di Dite.
Nel cerchio che avvolge l’Urbe vanno e vengono continuamente
infinite automobili che molto spesso bloccano il loro stesso flusso riducendolo
a una “morta gora”[1]. Tra le macchine viene
seguita in particolare un’autoambulanza che cerca di soccorrere i feriti
rimasti offesi e privi di altro aiuto in quel pantano[2].
Questi infermieri sembrano angeli mandati in quel caos di
cose indistinte, nel guazzabuglio lordo
dove si perde l'identità umana.
Il documentario di Rosi mostra il primo dei soccorritori
anche dopo il lavoro quando conduce una vita anacoretica, davanti al computer,
o mentre fa una visita alla mamma assai vecchia che lui vezzeggia amorevolmente
e che lo contraccambia, come si fa con i bambini infanti.
Nella triste contrada limitrofa al "grande raccordo
anulare" compaiono altre figure, spiriti bizzarri[3],
osservati talora con triste meraviglia, a volte con ironia, ma comunque, quasi
sempre, con pietà.
Rosi sembra ricordare
le parole di Enea che, vedendo raffigurate nel tempio di Giunone, a Cartagine,
le pene e le glorie della guerra di Troia, esclama:"sunt lacrimae rerum
et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462), ci sono lacrime
per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.
Il personaggio forse più penoso è un travestito che vive con
un altro, o una donna che sia, in un’automobile scassata impiegata
probabilmente come fornix, dove si
guadagna da vivere, da vivere male assai. Lo vediamo mentre sproloquia in un
linguaggio quasi incomprensibile, tra il dispiacimento della propria vita grama
e il compiacimento di sé, della fluente chioma bionda che gli adorna la testa,
suo malgrado mascolina, e fiero del seno
prosperoso che amplia il petto, nonostante tutto virile.
In questa terra dolente si aggira anche un vecchio pazzo che
controlla, con zelo certosino, la salute di alcune palme polverose, insidiate
da eserciti di insetti, da lui valutati quali invincibili armate condotte con
strategia inoppugnabile, non meno vincente di quella scipionica. Questo strano personaggio affronta
la battaglia, questa sua fiera antropo-entomo[4]-machia,
con aria sconsolata.
Nel cupo ambiente sorge un casermone sorvolato ogni momento
da aerei che piovono dal cielo, con
strepito assordante, per atterrare lì vicino.
Il regista ci fa vedere alcune famiglie attraverso le
finestre che rispondono alla terra desolata. In una stanzetta con due letti a
castello si vedono un vecchio che parla con pacatezza, eppure non senza qualche
sprazzo di follia, a una ragazza, forse sua figlia, seduta senza interruzione
davanti a un computer.
L’uomo ha una
pronuncia da Italia settentrionale, e forse rappresenta l’immigrazione non solo
extracomunitaria, o meridionale, confluita nella grande città dove molti
trovano miseria e basta.
Tra queste anime distrutte[5] non
manca un erede di Trimalchione. Costui, un individuo grottesco, vive in un
ambiente arcikitsch, in mezzo a oggetti e persone di una volgarità sperticata.
Il film non è brutto, anzi a tratti è bello, ma è
angosciante e in certi momenti lento e noioso. Io sono logocentrico e ho
sofferto la mancanza delle parole, di parole dotate di senso. L’uomo, se
non è animale linguistico, è animale
senz’ altro.
Personaggio positivo, che forse allude a un riscatto, sembra
essere un anziano allevatore di anguille. Percorre il Tevere con una barchetta
e dialoga serenamente, cordialmente con un paio di donne sue collaboratrici,
una forse pure sua amante.
Probabilmente è lui, ancor più dell’autista infermiere, il
messo inviato dal cielo[6].
Mentre la strada anulare è una palude “ch’ha nome Stige”, un nome che evoca
l’odio[7], il
fiume scorre in mezzo al verde, sotto un cielo luminoso, e l’uomo ha un’aria
sana, serena, addirittura contenta. Parla senza stizza, senza risentimenti né
incongruenze.
Il vecchio che vive
sull’acqua corrente ha il sorriso di Siddharta.
Il fiume è un maestro di vita: “Prima di tutto apprese da
lui ad ascoltare, a porger l’orecchio con animo tranquillo, con l’anima aperta”[8].
L’acqua che scorre è “la voce della vita, la voce di ciò che
è e eternamente diviene”[9].
Giovanni Ghiselli
[1] Cfr. Dante, Inferno, VIII, 31.
[2] Cfr. “E io, che di mirare
stava inteso, / vidi genti fangose in quel pantano, / ignude tutte, con
sembiante offeso” (Dante, Inferno,
VII, 109-111)
[3] Cfr. Dante, Inferno,
VIII, 62.
[5] Cfr. Dante, Inferno,
IX, 79.
[6] Cfr. Dante, Inferno,
IX, 85
[8] H. Hesse, Siddharta, p. 119
[9] H. Hesse, Siddharta, p.155.
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