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domenica 22 settembre 2013

Sacro GRA





Recensione del film Sacro GRA di Gianfranco Rosi

Ieri ho visto il film di Rosi che ha vinto il leone d’oro all’ultima mostra del cinema di Venezia.
Questo Sacro GRA fa vedere un anello stradale che cinge Roma come  la palude  dello Stige circonda la dantesca città infernale di Dite.
Nel cerchio che avvolge l’Urbe vanno e vengono continuamente infinite automobili che molto spesso bloccano il loro stesso flusso riducendolo a una “morta gora”[1]. Tra le macchine viene seguita in particolare un’autoambulanza che cerca di soccorrere i feriti rimasti offesi e privi di altro aiuto in quel pantano[2].
Questi infermieri sembrano angeli mandati in quel caos di cose indistinte, nel  guazzabuglio lordo dove si perde l'identità umana.
Il documentario di Rosi mostra il primo dei soccorritori anche dopo il lavoro quando conduce una vita anacoretica, davanti al computer, o mentre fa una visita alla mamma assai vecchia che lui vezzeggia amorevolmente e che lo contraccambia, come si fa con i bambini infanti.
Nella triste contrada limitrofa al "grande raccordo anulare" compaiono altre figure, spiriti bizzarri[3], osservati talora con triste meraviglia, a volte con ironia, ma comunque, quasi sempre, con pietà.

 Rosi sembra ricordare le parole di Enea che, vedendo raffigurate nel tempio di Giunone, a Cartagine, le pene e le glorie della guerra di Troia, esclama:"sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462), ci sono lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.

Il personaggio forse più penoso è un travestito che vive con un altro, o una donna che sia, in un’automobile scassata impiegata probabilmente come fornix, dove si guadagna da vivere, da vivere male assai. Lo vediamo mentre sproloquia in un linguaggio quasi incomprensibile, tra il dispiacimento della propria vita grama e il compiacimento di sé, della fluente chioma bionda che gli adorna la testa, suo malgrado mascolina, e fiero del  seno prosperoso che amplia il petto, nonostante tutto virile.
In questa terra dolente si aggira anche un vecchio pazzo che controlla, con zelo certosino, la salute di alcune palme polverose, insidiate da eserciti di insetti, da lui  valutati  quali invincibili armate condotte con strategia inoppugnabile, non meno vincente di quella  scipionica. Questo strano personaggio affronta la battaglia, questa sua fiera antropo-entomo[4]-machia,  con aria sconsolata.

Nel cupo ambiente sorge un casermone sorvolato ogni momento da aerei che piovono dal cielo, con  strepito assordante, per atterrare lì vicino.
Il regista ci fa vedere alcune famiglie attraverso le finestre che rispondono alla terra desolata. In una stanzetta con due letti a castello si vedono un vecchio che parla con pacatezza, eppure non senza qualche sprazzo di follia, a una ragazza, forse sua figlia, seduta senza interruzione davanti a un computer.
 L’uomo ha una pronuncia da Italia settentrionale, e forse rappresenta l’immigrazione non solo extracomunitaria, o meridionale, confluita nella grande città dove molti trovano  miseria e basta.
Tra queste anime distrutte[5] non manca un erede di Trimalchione. Costui, un individuo grottesco, vive in un ambiente arcikitsch, in mezzo a oggetti e persone di una volgarità sperticata.
Il film non è brutto, anzi a tratti è bello, ma è angosciante e in certi momenti lento e noioso. Io sono logocentrico e ho sofferto la mancanza delle parole, di parole dotate di senso. L’uomo, se non  è animale linguistico, è animale senz’ altro.
Personaggio positivo, che forse allude a un riscatto, sembra essere un anziano allevatore di anguille. Percorre il Tevere con una barchetta e dialoga serenamente, cordialmente con un paio di donne sue collaboratrici, una forse pure sua amante.   
Probabilmente è lui, ancor più dell’autista infermiere, il messo inviato dal cielo[6]. Mentre la strada anulare è una palude “ch’ha nome Stige”, un nome che evoca l’odio[7], il fiume scorre in mezzo al verde, sotto un cielo luminoso, e l’uomo ha un’aria sana, serena, addirittura contenta. Parla senza stizza, senza risentimenti né incongruenze.
Il  vecchio che vive sull’acqua corrente ha il sorriso di Siddharta.  
Il fiume è un maestro di vita: “Prima di tutto apprese da lui ad ascoltare, a porger l’orecchio con animo tranquillo, con l’anima aperta”[8].
L’acqua che scorre è “la voce della vita, la voce di ciò che è e eternamente diviene”[9].

Giovanni Ghiselli


[1] Cfr. Dante, Inferno, VIII, 31.
[2] Cfr. “E io, che di mirare stava inteso, / vidi genti fangose in quel pantano, / ignude tutte, con sembiante offeso” (Dante, Inferno, VII, 109-111)
[3] Cfr. Dante, Inferno, VIII, 62.
[4] Cfr. ta: e[ntoma, insetti in Aristotele. Storia degli animali, 487a33.
[5] Cfr. Dante, Inferno, IX, 79.
[6] Cfr. Dante, Inferno, IX, 85
[7] In greco stuvx-stugov~.
[8] H. Hesse,  Siddharta, p. 119
[9] H. Hesse,  Siddharta, p.155.

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