Giuseppe Ducrot, Sileno |
Parte della lezione
che terrò a Pesaro il 9 ottobre alle 18, 30 in viale Trieste 196 (Università
dell’età libera)
E’ la triste saggezza del Sileno per il quale non essere
nati, o morire appena nati, è meglio che vivere.
Nietzsche in La nascita della tragedia si sofferma su
tale aspirazione all'annientamento e la considera caratteristica del greco
primitivo che soggiace al terrore dei mostri, all'avvoltoio di Prometeo, al
destino spaventoso di Edipo, al matricidio di Oreste, finché non trova la
giustificazione estetica dell'esistenza, e l'individuazione positiva,
nell'Apollineo che, in termini artistici, è la bellezza e la chiarezza delle
immagini omeriche, in termini culturali, mitologici e psicologici, è il
rovesciamento del caos dei Titani nel prevalere del cosmo olimpico:
“L’antica leggenda narra
che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli
cadde fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più
desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile il demone tace; finché, costretto
dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile
ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che
per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente
irraggiungibile: non essere nato, non essere,
essere niente. Ma la cosa in secondo
luogo migliore per te è morire presto’… Il Greco conobbe e sentì i terrori e le
atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a
tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza
verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su
tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Prometeo, il
destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che
costringe Oreste al matricidio, insomma la filosofia del dio silvestre con i
suoi esempi mitici, per la quale perirono i malinconici Etruschi, fu dai Greci
ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci
dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi
dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento titanico
del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo della bellezza, in
lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che
le rose spuntano da spinosi cespugli"[1].
Anche nell'arte figurativa l'apollineo ha
un'espressione sicura: si vede con chiarezza nel frontone occidentale del
tempio di Zeus a Olimpia[2], dove Febo si erge al di sopra delle
passioni malsane e violente, dominando l'ignobile zuffa dei Lapiti e dei
Centauri bimembri, e indicando con gesto sicuro la sua misura santa. E pure la
nostra vicenda individuale si travaglia in questo conflitto perpetuo tra il
caos degli istinti scatenati e il cosmo dei sentimenti forti, e pure delicati,
e costruttivi, siccome inseriti
nell'equilibrio governato dalla ragione.
Negli autori classici
troviamo varie espressioni della triste saggezza del Sileno: partiamo da
Erodoto, il quale narra la fiaba tragica di Cleobi e Bitone che la dea Era, per
ricompensare della loro devozione, fece morire ventenni mostrando come per l'uomo sia meglio essere
morto che vivere (dievdexev te ejn
touvtoisi oJ qeo;ς wJς a[meinon ei[h ajnqrwvpw/
teqnavnai h] zwvein, I, 31, 3).
Nel quinto libro lo
storiografo di Alicarnasso narra lo strano costume dei Trausi che compiangono il neonato e
seppelliscono il morto con manifestazioni di gioia: "Sedendo attorno al
neonato i parenti piangono... Enumerando tutte le sofferenze umane; invece
scherzando con gioia mettono sotto terra (paivzontev"
te kai; hJdovmenoi gh'/ kruvptousi) il morto, spiegando che si trova in
completa felicità, liberato da tanti mali"(V, 4, 2).
Traccia di questo uso
anomalo si trova in Verga: durante al visita dei compaesani alla casa del
nespolo che si era riempita di gente, Don Silvestro fece una battuta: “E tutti
si tenevano la pancia dalle risate, ché il proverbio dice: “Né visita di morto
senza riso, né sposalizio senza pianto”[3].
Un terzo momento silenico
nelle Storie di Erodoto è quello in cui
Serse, invadendo la Grecia, vede l'Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si
disse beato (oJ Xevrxh" eJwuto;n ejmakavrise,
VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta;
de; tou'to ejdavkruse) per
compassione al pensiero di quanto è breve tutta la vita umana: “wJ~ bracu;~ ei[h oJ pa'~ ajnqrwvpino~ bivo~, eij
touvtwn ge ejovntwn tosouvtwn oujdei;~ ej~ eJkatosto;n e[to~ perievstai”
(VII 46,2), dal momento che di questi che sno tanti nessuno sopravviverà al
centesimo anno. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che,
essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l'uomo
("ou{tw" oJ me;n qavnato"
mocqhrh'" ejouvsh" th'" zovh", katafugh; aiJretwtavth tw'/
ajnqrwvpw/ gevgone", VII, 46, 4).
La medesima idea del resto
viene espressa da diversi altri autori.
Facciamone una scelta.
Ricordo Teognide il quale
deplora una forma di decadenza tumultuosa e caotica che è ciclica evidentemente
poiché se ne duole anche Dante: "La gente nova e' subiti guadagni, / orgoglio
e dismisura han generata/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni"[4].
Si parva licet componere magnis
[5],
non pochi opinionisti dei nostri giorni elevano lamenti simili a questo
teognidèo: "ajllhvlou" d j
ajpatw'sin ejp j ajllhvloisi gelw'nte" / ou[te kakw'n gnwvma" eijdovte" ou[t j ajgaqw'n" (Silloge , vv.59-60), si ingannano a
vicenda, deridendosi a vicenda, senza criterio del bene e del male. Per la
ricaduta nell'oggi, cito, quasi a caso: "Ma come si potrà governare questo
meccanismo infernale tenendo i ladri, i corrotti e i corruttori al loro posto?
Andate in luogo pubblico, parco, piazza, fiume, mare, montagna il giorno dopo
un raduno di cittadini. Questi selvaggi che sporcano e avvelenano tutto...[6]"
e così via.
In tale squallore di rapporti umani la conclusione di
Teognide è silenica: "La cosa migliore di tutte per quanti vivono sulla
terra è non essere nato (mh; fu'nai)
/ e non vedere i raggi del sole abbagliante, / ma una volta nati, al più presto
varcare le porte dell'Ade, / e giacere sepolto sotto gran massa di terra" (Silloge , vv. 425-428).
L'espressione "mh;
fu'nai" è usata anche da
Bacchilide che, nell'Epinicio
V, fa dire al gagliardo Eracle, uno capace di bonificare la terra dai mostri: "La
cosa migliore per i mortali è non essere nati / e non vedere la luce / del
sole"(vv.160-162).
Statue di Cleobi e Bitone presso il tempio di Delfi |
Sofocle nel suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono , fa cantare al coro: "Non
essere nati (mh; fu'nai) supera /
tutte le condizioni, poi, una volta apparsi, / tornare al più presto là / donde
si venne, / è certo il secondo bene. / Poiché quando uno ha oltrepassato la
gioventù / che porta follie leggere, / quale travagliosa disfatta resta fuori? /
Quale degli affanni non c'è? / Invidia, discordie, contesa, battaglie, / e
uccisioni; e sopraggiunge estrema / l'esecrata vecchiaia impotente, / asociale,
priva di amici / dove convivono tutti i mali dei mali" (vv.1224-1238).
Anche nelle Trachinie si trova qualche cosa di silenico: Eracle credeva
di stare bene, da vivo, in seguito alla liberazione dai travagli che i
sacerdoti di Dodona gli avevano predetto, ma non aveva compreso che liberarsi
dai mali significa, dopo tutto, morire: "toi'"
ga;r qanou'si movcqo" ouj prosgivgnetai" (v. 1173), sui morti
infatti non sopraggiunge fatica.
Né manca una riflessione silenica
nell'Edipo re il cui quarto Stasimo
si apre con questo lamento: "ijw;
geneai; brotw'n, / wJ"
uJma'" i[sa kai; to; mh / de;n
zwvsa" ejnariqmw'" (vv. 1186-1188), Oh generazioni dei mortali
/ come vi conto uguali al nulla / finché siete vive!
Questi versi d'altra parte non rappresentano
la somma della visione di Sofocle il quale
rimane il poeta della misura: quella delfica del "nulla di
troppo" e del "conosci te stesso" ossia , per utilizzare Freud,
dell'ingrandimento dell'Io a spese dell'Es, che va bonificato al pari di una
palude[7].
Il "sacrilego" Euripide
nell'Alcesti fa scattare
incongruamente la sapienza silenica dentro l'anima di Admeto quando questo
sente la mancanza della moglie cui aveva chiesto egli stesso di morire per lui:
"zhlw' fqimevnou", keivnwn
e[ramai, / kei'n j ejpiqumw' dwvmata
naivein" (vv.865-867), invidio i morti , quelli amo, quelle dimore
desidero abitare. Ma Kott che attribuisce ogni malignità a Euripide, sostiene,
malignamente, che la resipiscenza di
Admeto è fasulla:" Che cosa ha capito? che la casa è sporca, che i bambini
piangono, che lui non può risposarsi,
che tutti lo considerano un codardo"[8].
L'invidia dei morti (genitivo oggettivo)
espressa da Admeto è silenicamente manifestata anche da Leopardi: "In
altri tempi ho invidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran
concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro.
Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né
potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei... Se mi fosse
proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da
ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir
oggi, e non vorrei tempo a risolvermi"[9].
Il poeta di Recanati, nella Storia del genere umano , non manca di
ricordare con simpatia gli autori, Erodoto in primis, che narrano storie
sileniche: "Ma in progresso di tempo tornata a mancare affatto la novità,
e risorto e riconfermato il tedio e la disistima della vita, si ridussero gli
uomini in tale abbattimento, che nacque allora, come si crede, il costume
riferito nelle storie come praticato da alcuni popoli antichi che lo serbarono,
che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e
morendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano
congratulandosi coll'estinto".
Del resto F. De Sanctis ci fece
notare che "Leopardi produce l'effetto contrario a quello che si
propone... Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in
petto un desiderio inesausto"[10].
In effetti nel Dialogo di Plotino e di
Porfirio troviamo un rifiuto del
suicidio che è di fatto un dire di sì alla vita: "Viviamo, Porfirio mio, e
confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci
ha stabilita, dei mali della nostra specie".
Questo non toglie che Leopardi
senta la vita come male e che anzi tale dolore si possa attenuare attraverso il
non sentire la vita: "E un individuo...allora è più felice quando meno ei
sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica... Ed allora
solo sì l'uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente
non infelice e privo d'infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la
vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl'istanti che precedono la
morte"[11].
Leopardi usa la massima monostica, e vagamente silenica
"o{n oiJ qeoi; filou'sin, ajpoqnhvskei
nevo"” (fr. 583 Jäkel) di Menandro, definito "principe"
della commedia nuova nello Zibaldone
(3487). La gnwvmh fa da epigrafe al Canto Amore e Morte in questa
traduzione:
"Muor giovane colui ch'al cielo è caro".
Non possiamo mancare di fornire a quanti sanno di latino
qualche formulazione silenica nella lingua di Roma antica: Lucrezio compiange
la creatura umana che, appena arriva alla luce, riempie il luogo con un lugubre
vagito: "Vagituque locum lugubri complet "[12].
Cicerone ci racconta la storiella sul Sileno (de Sileno fabella ) il quale catturato
da Mida, e poi liberato dal re, non un
poveraccio dunque ma un uomo ricco e
potente come Creso, gli diede questo insegnamento: "Non nasci homini longe
optimum esse, proximum autem, quam primum mori "[13],
non nascere per l'uomo è di gran lunga la cosa migliore, la seconda, poi,
morire al più presto .
Seneca, per consolare Marzia che ha perso un figlio ventenne enumera le
difficoltà della vita umana, insidiosa e fallace al punto che nessuno
l'accetterebbe se non fosse data all'insaputa, e conclude: "Itaque, si
felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in
integrum restitui"[14], pertanto, se
la condizione più fortunata è non nascere, la seconda è, credo, tornare al più
presto all'integrità originaria.
Petronio
nel Satyricon: dove, se si fanno
bene i conti, il naufragio è dappertutto[15]
"Si bene calculum ponas, ubique naufragium est" (115, 17),
attribuisce il desiderio di morire alla Sibilla: "Nam Sybillam quidem
Cumis, ego ipse, oculis meis, vidi in ampulla pendere et cum illi pueri
dicerent - Sivbulla
tiv qevlei";
- respondebat illa - ajpoqanei'n qevlw"(48, 8), infatti la Sibilla di certo a
Cuma vidi io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i
fanciulli: ‘Sibilla, cosa vuoi?’, rispondeva lei: ‘Morire voglio’".
La profetessa vuole morire poiché la
terra è sconciata dall'empietà, dall'impotenza e dalla sterilità: "Itaque
dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus. Agri iacent "(44,
18), così gli dèi hanno i piedi inceppati, poiché non siamo religiosi. I campi
giacciono nell'abbandono.
E più avanti(129, 6): "Adulescens,
paralysin cave ", giovane, guardati dalla paralisi.
The
Waste Land di T. S. Eliot, che ripropone molti di questi temi, utilizza come epigrafe il cupio dissolvi della Sibilla di
Petronio: nella terra desolata del Novecento le donne prendono pillole per
abortire: "It's them pills I took to bring it off, she said" (v.159);
la natura è inquinata: il fiume trasuda olio e catrame (vv.266-267), e non c'è
neppure silenzio tra i monti ("There is not even silence in the
mountains", v.341). Nei rapporti sessuali, leggiamo in uno dei Poems del
1920[16], manca il
desiderio: "Burbank crossed a little bridge / descending at a small hotel;
/ Princess Volupine arrived, / they were together, and he fell" (vv. 1-4),
Burbank attraversò un piccolo ponte per scendere a un hotel da poco; arrivò la
principessa Volupine, rimasero insieme e lui cadde.
Infine torniamo, con una specie composizione anulare, alla Nascita
della tragedia: Nietzsche vede “quel mondo di bellezza apollinea e il suo
sfondo, la terribile saggezza del Sileno"[17]
rappresentati nella Trasfigurazione
di Raffaello rispettivamente da Cristo che ascende in cielo, e dalla "metà
inferiore... Col fanciullo ossesso, gli uomini in preda alla disperazione che
lo sostengono, gli smarriti e angosciati discepoli". Cristo-Apollo è la
"divinizzazione del principium
individuationis ... con gesti solenni egli ci mostra, come tutto il mondo
dell’affanno sia necessario, perché da
esso l’individuo possa venir spinto alla creazione della visione liberatrice...
Apollo, come divinità etica, esige dai suoi la misura e, per poterla osservare,
la conoscenza di sé. E così accanto alla necessità estetica della bellezza, si
fa valere l'esigenza del: "Conosci te stesso" e del: "non troppo!", mentre l’esaltazione di sé di
sé e l'eccesso furono considerati i veri dèmoni ostili della sfera
non-apollinea, quindi qualità dell'epoca pre-apollinea, dell'età titanica, e
del mondo extra-apollineo, cioè del mondo barbaro"[18].
In conclusione, Edipo, come Prometeo, Creso, e tanti altri, sono portatori di
quella dismisura non apollinea che provoca il desiderio di morte: "A causa
del suo amore titanico per gli uomini Prometeo dovette essere lacerato dagli
avvoltoi; per la sua eccessiva saggezza, che sciolse l’enigma della Sfinge,
Edipo dovette precipitare in un travolgente vortice di atrocità: così il dio
delfico interpretava il passato greco".
La misura apollinea e omerica dunque costituisce un antidoto
a tale pessimismo: Omero giustifica le difficoltà e gli inganni della vita con
l'eroismo e la bellezza; allora vivere, vivere comunque, diventa il bene
supremo, e Achille nell'Ade chiede a Odisseo di non volere consolarlo della
morte ("mh; dh; moi qavnaton ge
parauvda, Odissea , XI, 488)
poiché sarebbe disposto a servire un padrone povero sulla terra, piuttosto che
dominare su tutte le ombre svigorite del regno dei morti.
Vediamo quindi il rovesciamento della sapienza silenica:
Achille nella Nevkuia
dice al figlio di Laerte "Non consolarmi della morte, splendido Odisseo. /
Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro, / presso
un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere, / piuttosto che regnare
su tutti i morti consunti" (Odissea
, XI, 488-491).
Essere vivi diventa il valore supremo. "Per esprimere
con impressionante efficacia il suo rimpianto per la vita, il morto Achille
dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba: vorrei lavorare come un thes ( qhteuevmen[19],
Od. XI, 489)"[20].
Già nel IX canto dell’Iliade
Achille aveva detto che niente ha lo stesso valore della vita: “ouj ga; r ejmoi; yuch`~ ajntavxion” (v. 401): non le ricchezze di Ilio prima
della guerra, non quanto racchiude la soglia di pietra del tempio di Apollo.
Buoi e grassi montoni si possono rapire, i tripodi si
possono comprare e pure bionde criniere di cavalli, ma la vita di un uomo (ajndro;~ de; yuchv) non la puoi rapire né
afferrare perché torni indietro, quando ha superato la chiostra dei denti
(405-408).
“Un atteggiamento passeggero e dettato dall’odio verso
Agamennone e gli Achei…Poi Achille torna in battaglia per riconquistare il suo
statuto e il suo destino, torna alla sua scelta per una vita breve e gloriosa:
il dubbio, dettato dall’odio temporaneo verso i compagni, è il pensoso
chiaroscuro introdotto da un grande poeta”[21].
Su questo ribaltamento sentiamo Leopardi: “La morte
consideravasi dagli antichi come il maggiore de’ mali; le consolazioni degli
antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che
d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un
soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la
vita con desiderio, ec. ec… (14 Ottobre 1828)”[22].
Vediamo anche una formulazione dostoevskijana di questa
sapienza antisilenica: “Dove ho mai letto - pensò Raskolnikov proseguendo il
cammino - dove posso mai aver letto che quel condannato a morte, un’ora prima
dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su
una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con
intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna e l’eterna procella, e
rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita,
per mille anni, per l’eternità, ebbene preferirebbe vivere così piuttosto che
morire all’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualche modo, ma
vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L’uomo è un vigliacco! Ed è
un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco” aggiunse subito dopo”[23].
Giovanni Ghiselli
P. S. Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/
è arrivato a 101757
lettori, 242 giorni dopo che è stato aperto
[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 31 e 32.
[2] 471-456 a. C.
[3] I Malavoglia, p. 87.
[4] Inferno , XVI, 73-75.
[5] Virgilio, Georgica IV, 176, se è consentito
rapportare il piccolo al grande.
[6] Giorgio Bocca, in Il Venerdi di Repubblica del 26 settembre 1997, p. 38.
[7] Freud (Scomposizione della personalità, in Freud, Opere, Boringhieri, Torino,
1979, vol. XI, p.188 e sgg.) scrive: "Rafforzare
l'Io rendendolo più indipendente dal Super Io, ampliare così il suo campo
percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi
nuove zone dell'Es, è il compito della psicoanalisi: dove era l'Es deve
subentrare l'Io. E' un'opera di civiltà, come, ad esempio, il prosciugamento
dello Zuiderzee".
[15]
"Si bene calculum ponas, ubique naufragium est", (115, 17)
[16] “Burbank
with a Baedeker, Bleinstein with a cigar”.
[17] La nascita della tragedia, p. 36.
[18] La nascita della tragedia, p. 37.
[19] Infinito atematico con desinenza -men (considerato un eolismo come vedremo) del verbo qhteuvw che significa "lavoro come salariato, qhv""; ebbene, commenta
M. Finley, "Un thes , non uno
schiavo, era l'ultima creatura sulla terra che Achille potesse pensare. Il
terribile per un thes era il fatto di non avere legami, di non
appartenere a nulla" (Il mondo di
Odisseo, p. 39).
[20] F. Codino, Introduzione a Omero , p. 128.
[21] Franco Montanari, Prima lezione di letteratura greca,
Laterza, 2003, p.p. 17-18,
[22] Zibaldone, 4399.
[23] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 178.
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