Mosaico bizantino del V sec. d.C., Istanbul |
IV e ultima parte
della conferenza che terrò oggi, lunedì
2 Settembre ore 18
LibreriaTrame, via Goito, 3/C, Bologna.
La prima parte è in questa pagina, la seconda in questa e la terza in questa
Descrizione del Decameron
Prima giornata sotto il reggimento di Pampìnea si ragiona di
quello che più aggrada a ciascuno (esempio: ser Ciappelletto).
Seconda giornata; sotto il reggimento di Filomena si ragiona
di chi da diverse cose infestato sia oltre la sua speranza riuscito a lieto
fine. Esempio Andreuccio da Perugia (5).
Pasolini ha utilizzato questa novella per il suo film Decameron, togliendo molto all’arte di
Boccaccio. I suoi personaggi non parlano o lo fanno come dei cafoni analfabeti,
e si esprimono prevalentemente con occhiate furbe, smorfie grottesche,
ammiccamenti maliziosi. Non è un bel film e comunque non c’è quasi niente di
Boccaccio.
Terza giornata; sotto il reggimento di Neìfile si ragiona di
chi alcuna cosa molto desiderata con industria acquistasse o la perduta
recuperasse.
Si tratta di sesso.
L’ultima, divertentissima,
è raccontata dallo spurcissimus
Dyoneus
Il monaco Rustico insegna a una bella e ingenua
quattordicenne, Alibech, a “mettere il diavolo in ninferno”. La fece spogliare
e nel vederla così bella “avvenne la resurrezione della carne”.
Nella quarta giornata sotto il reggimento di Filòstrato si
ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine. Giornata cupa dunque.
Sette finiscono con la morte di entrambi gli amanti. La prima è quella di
Ghismunda. La quinta Lisabetta da Messina con la testa dell’amante nel testo di
basilico.
Nella quinta giornata sotto il reggimento di Fiammetta si
ragiona di ciò che ad alcuno amante dopo alcuni fieri o sventurati accidenti
felicemente avvenisse. L’ottava è quella di Nastagio degli onesti con il
contrappasso. La nona è quella di Federigo degli Alberghi; la decima è quella
“apuleiana” di Pietro di Vinciolo.
Nella sesta giornata sotto il reggimento di Elissa si
ragiona di chi con alcun leggiadro motto fuggì perdita o pericolo o scorno.
La seconda è quella di Cisti fornaio, la quarta quella di
Chichibìo, la quinta quella di Giotto, nella nona c’è Guido Cavalcanti; la
decima è quella di frate Cipolla
Nella settima giornata, sotto il reggimento di Dioneo si
ragiona delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro, le donne
hanno già fatte a’ lor mariti senza essersene loro avveduti o no.
La seconda è quella “apuleiana” di Peronella e Giannello.
Nell’ottava giornata sotto il reggimento di Lauretta si
ragiona ancora di beffe tra esseri umani. La terza è quella di Calandrino,
Buffalmacco e l’elitropia.
La quinta è quella delle brache tolte al giudice
marchigiano.
La sesta è quella di Bruno, Buffalmacco che imbolano un
porco a Calandrino
Nella nona giornata sotto il reggimento di Emilia la scelta
dell’argomento è libera
La seconda è quella della badessa che si mette in testa, per
sbaglio, le brache del prete suo amante.
Nella decima giornata sotto Panfilo si ragiona di chi
liberamente o vero magnificamente alcuna cosa operasse in amore o in altro.
La decima è quella di Griselda. Vediamo l’essenziale del suo
contenuto. La mite e "obediente" Griselda venne esposta senza vestiti dal marchese di Saluzzo a
tutta la sua brigata: "Gualtieri, presala per mano, la menò fuori, ed in
presenza di tutta la sua compagnia e d'ogni altra persona la fece spogliare
ignuda", quindi la fece rivestire, la chiese in moglie, ed ella rispose: "Signor
mio, sì". Dopo il matrimonio la donna subì tutta una serie di orribili
angherie e torture inflittele dalla "matta bestialità" del marito
senza mai ribellarsi e finalmente con la sua "lunga pazienza" gli
fece passare la paura della donna.
Gualtieri nel lieto fine le confessa che sposandosi temeva
di perdere la sua tranquillità e che l’aveva sottoposta alle prove per levare
via dal suo animo tale inquietudine. Per siffatta paura si può confrontare il
discorso di Catone[1]
in Tito Livio o questi versi di Marziale: "Inferior matrona suo sit,
Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares" (VIII, 12, 3-4), la
moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l'uomo e la donna
diventano pari (cfr. anche la donna sottomessa, Andromaca considerata sopra).
Boccaccio e Apuleio
L’asino d’oro fu trovato dal Boccaccio e tradotto da
Boiardo (1440-1494) e Firenzuola nel 1525.
Il tema di fondo di queste Metamorfosi è come si diventa uomini. Il modello è Odisseo, ajnhvr il quale pollw`n d’ ajnqrwvpwn i[den a[stea kai; novon e[gnw (Odissea, I, 3). Ulisse è ricordato come
affamato di conoscenza, curioso di conoscere. La curiosità consente di aprirsi all’alterità ed è una spinta
all’individuazione.
H. Hesse, Demian: "La vita di ogni uomo è una via verso
se stesso, il tentativo di una via, l'accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai
stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi
sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità… Certuni non diventano
mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce
sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l'uomo"[2].
In Apuleio (II sec.
d. C.) vita da asino è vita senza Iside. La vita consacrata a Iside è sacra
alla conoscenza.
Sentiamo Plutarco
in De Iside et Osiride. Il sacerdote
delfico sostiene che la divinità - to; qei`on - non è beata per argento e oro ma ejpisthvmh/ kai; fronhvsei (351d) , per conoscenza e intelligenza
Plutarco
etimologizza il nome Iside con oi\da-so-;
più precisamente il tempio jIsei`on con il futuro ei[somai-saprò- poiché vi conosceremo to; o[n, l’essere 352).
Inoltre \Isin kalou`si para; to; i{esqai met j ejpisthvmh~
kai; fevresqai, kivnhsin ou\san e[myucon kai; frovnimon”, (375c) la chiamano Iside per il lanciarsi con sapere e da essere
mosso in quanto ella consiste in un movimento animato e sapiente.
Lucio arriva a
sognare Iside e a tornare uomo dopo avere preso su di sé la tragicità
dell’esistere e avere raggiunto il culmine della disperazione.
Abbiamo un Lucio o l’asino , forse di Luciano
(120-190). Potrebbe essere una versione abbreviata del testo di Lucio di Patre,
un sofista contemporaneo del beffardo scrittore di Samosata.
In Lucio
o l’asino non c’è la parte isiaca che probabilmente è tutta di Apuleio.
Vita e altre opere di Apuleio
Visse tra il 125 e
il 170. Nasce a Madaura (Numidia-Getulia, Algeria), nell’Africa proconsolare
romana la cui capitale era Cartagine.
Il romanzo di
Apuleio nei codici porta il titolo di Metamōrfosěon
libri (unděcim), ma viene
chiamato Asinus aureus come fece
Agostino in De civitate Dei, XVIII, 18).
Altre opere di
Apuleio si può saltare
De Magīa. Autodifesa nel processo tenutosi nel 158 a Sabrăta a 50
km. Da Oea (Tripoli).
Il genere
autobiografico a scopo educativo era nelle corde della seconda sofistica: il
saggio vuole ammaestrare il prossimo.
Apuleio era
accusato perfino di essere bello. Accusamus
apud te philosophum formosum et tam Graece quam Latine - pro nefas! - disertissimum (IV). Guarda che delitto!
Apuleio risponde con i versi con i quali
Paride invita Ettore a non spregiare I doni amabili dell’aurea Afrodite: “dw`r j ejrata;
crusevh~ jAfrodivth~” (Iliade,
III, 64). Del resto anche Pitagora era bello e pure Zenone di Elea. Quanto ai
versi erotici, Apuleio (XI) risponde con Catullo: “Nam castum esse decet pium
poetam; versiculos nihil necesse est” (16, 5-6).
Difesa da altre accuse
Lo specchio
riflette la persona con precisione. Gli uomini di aspetto passabile si guardano
allo specchio e i lasciano ritrarre. Non lo fanno i deformi come Agesilao.
Demostene ripeteva le sue orazioni davanti allo specchio. La povertà non è un
disonore. Gli dèi sono superiori agli uomini perché non hanno bisogno di nulla.
Antistene in Diogene Laerzio: “qew`n me;n i[dion ei\nai mhdeno;~ dei`sqai. Altrettanto nell’Eracle di Euripide 1345-1346.
Sono seminumida e
semigetulo come Ciro fu semimedo e semipersiano. Comunque bisogna considerare
non dove è nato uno, ma come è costumato. Mago non è un’offesa. Presso i
Persiani il mago era come il sacerdote da noi. La magia buona è gradita agli
dèi. Anche i filosofi che scrutano la Provvidenza, come Epimenide, Orfeo,
Empedocle, lo stesso Platone, venivano accusati di magia; quelli che cercano l’ajrchv invece, Anassagora, Democrito, Epicuro,
sono accusati di ateismo.
L’accusa relativa
ai pesci[3]:
“Qui pisces quaerit, magus est?”
Tra dei e uomini ci sono divinità intermedie
che governano i miracoli della magia (43). Pudentilla aveva bisogno di un
marito, ma Apuleio, peregrinationis cupiens,
desideroso di viaggiare e di imparare, schivava l’ostacolo del matrimonio:
“impedimentum matrimoni recusaveram” (73). La magia buona ha della forza, ma
più forte è il destino: “Fatum rei
cuiusque veluti violentissimus torrens[4]
neque retineri potest neque impelli” (84).
Pudentilla aveva
due figli Ponziano e Pudente, e aveva 40 anni, non 60.
Apuleio non aveva
motivo di lucro: per lui la ricchezza è la concordia e la pienezza dell’amore
coniugale. Apuleio è un philosophus spernens dotīs (92). Rufino,
il suocero di Ponziano, voleva tutto, ma quasi caeca bestia in cassum hiavit (97), rimase inutilmente a gola
aperta.
Morto Ponziano, la
vedova di lui si muove come una catapulta verso il letto di Pudente che si
lascia abbindolare. Lo zio paterno di Pudente, Emiliano, e il suocero di
Ponziano, Rufino sono compari. Pudente viene diseducato dallo zio Emiliano.
Dimentica perfino il greco e il latino e parla punico. Pudentilla, spinta da
Apuleio, ha lasciato il figlio Pudente come erede, il che estirpa la radice del
processo: l’odioso sospetto di un’eredità bramata ed estorta (101).
Nell’ultimo
capitolo (103) Apuleio ripete le accuse e le controbatte con due parole
ciascuna:
Dentes splendĭdas (rendi brillanti i denti): ignosce munditias, perdonami la pulizia
Specula
inspicis-debet philosophus
Vorsus facis - licet
fieri
Piscis esplōras - Aristoteles
docet.
Lignum consĕcras (uno scheletro di legno che significava
Mercurio) - Plato suadet
Uxorem ducis - leges
iubent
Prior nata ista est -
solet fieri
Lucrum sectatus es -
testamentum lege
Nei Florĭda (IX) Apuleio si vanta del fatto
di non avere abilità manuale come Ippia di Elide, ma una pluralità di
conoscenze che non hanno bisogno di applicazione materiale.
Cfr la scientia
desultoria, l’acrobatica scienza, del primo capitolo del romanzo. Apuleio
sa scrivere poesie liriche, commedie, tragedie, satire, enigmi, orazioni,
dialoghi, sia in greco sia in latino.
Si veda esplicito
svuotamento della sofiva tecnologica
nel discorso di Diotima del Simposio platonico:"kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;"
daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna"
h] ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è
sapiente in tali rapporti[5]
è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di
tecniche o di certi mestieri, è un facchino.
Avvicino, forse non arbitrariamente, quanto scrive Hegel
nella Fenomenologia dello spirito: “Il
signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo
invece “col suo lavoro non fa che trasformarla”[6].
De deo Socratis . E’ uno studio del demone socratico. I daivmone~ ( i modelli degli angeli cristiani) portano
agli dèi le richieste degli uomini. Queste potenze semidivine trasvolano
continuamente tra terra e cielo per la salute degli uomini e per uno scambio di
messaggi tra dei e uomini.
De Platone et eius dogmate è una sintesi della fisica e dell’etica
platonica ricavata soprattutto dal Timeo.
De mundo (di dubbia autenticità) è un
rifacimento del Peri; kovsmou pseudo
aristotelico.
Secondo Bachtin la satira menippea e anche Apuleio
rappresentano sempre situazioni
eccezionali e abnormi, una vita che si svolge “sulla soglia”. Lo stesso vale
per Dostoevskij il quale non fu uno
scrittore di ambienti casalinghi o familiari: "Nel vieto spazio interno,
lontano dalla soglia, gli uomini vivono una vita biografica in un tempo
biografico: nascono, passano l'infanzia e la giovinezza, si sposano, generano
figli, invecchiano, muoiono. Anche questo tempo biografico è
"saltato" da Dostoevskij. Sulla soglia e sulla piazza è possibile
solo il tempo delle crisi, in cui l'istante si eguaglia agli anni, ai decenni, anche ai
"milioni di anni" (come nel Sogno
di un uomo ridicolo )"[7].
Anche molti personaggi di Boccaccio vivono “sulla soglia”.
Vediamo alcune
parti dell’VIII libro del romanzo di Apuleio
Dopo molte avventure Lucio trasformato in asino viene
comprato da un vecchio omosessuale, Filēbo[8] sedicente sacerdote di Cibele.
Il venditore presenta
l’asino come un castrato tranquillo, anzi, aggiunge con ironia di tipo sofocleo,
potresti credere che sotto questa pelle ci sia un modestus homo (8, 25). Dopo trattative e insulti plebei, Filebo
compra l’asino. Anche nello pseudoluciano il kivnaido~
kai; gevrwn si chiama Filebo[9].
Questo fa parte di un
gruppo di imbroglioni che girano con cimbali e crotali, piatti e nacchere, e
costringono Cibele a mendicare.
Quindi il nuovo padrone porta l’asino dalle puellae, sed illae puellae chorus erat cinaedorum (8, 26). Costoro fecero
salti di gioia sperando che Filebo avesse portato un uomo, e ci rimasero male
quando videro l’asino. Comunque si scambiarono battute pederastiche tipiche di
queste persone incline a kinei`n aijdoi`a.
Gli omosessuali girano per la questua tutti truccati. Danzavano, urlavano, si
ferivano, come se per la presenza della divinità gli uomini dovessero diventare
debiles vel aegroti invece che
migliori (8, 27).
Il culto della Magna Mater è malvisto per l’avidità e la
sensualità dei sacerdoti, una trivialis
faex, feccia triviale, cui Apuleio contrappone la purezza della regola
isiaca.
I sacerdoti di Cibele mettevano a sacco la regione (8, 29)
Quindi si danno a giochi erotici execrandis oribus con un fortissimus
rusticanus. L’asino li denuncia ragliando: accorre gente che vede le execrandae foeditates. I cinedi scappano
finché ma vengono accolti da un devoto di Cibele (VIII, 30)
L’asino rischia la pelle di nuovo perché un cuoco vuole
sostituire una sua coscia a quella di un cervo che gli è stata rubata (VIII,
31).
IX libro
L’asino cerca di scappare, “sed nihil Fortuna rennuente
licet homini…” E non basta consilium
prudens vel remedium sagax a
sovvertire le disposizioni divinae
providentiae.
Dopo qualche altra vicissitudine l’asino viene riportato
sulla strada crotălis et cymbalis
(9, 4) con nacchere e tamburi.
Giungono in un luogo dove Lucio sente raccontare la storia
dell’amante nella giara che occupa tre capitoli (9, 5-7).
Boccaccio riprende questa storia in VII-2.
E’ la giornata in cui si raccontano le beffe delle mogli ai
mariti
Questa novella è un omaggio ad Apuleio di cui c’è un’aperta
imitazione. La racconta Filostrato che è l’intellettuale della brigata.
Boccaccio descrive con ammirazione queste beffatrici.
Peronella intanto era “una bella e vaga giovinetta”, il marito un muratore, e
l’amante Giannello uno de’ leggiadri. La vicenda avviene a Napoli il giorno di
San Galeone.
Quella di Apuleio non ha nemmeno un nome, come il marito del
resto.
Lei è un’uxorcula tenuis, una poveraccia al pari
dello sposo tradito, un fabbro smunto dalla miseria. La donna è dunque
meschina, insignificante è “et tamen postremā lasciviā
famigerabilis”(5)[10],
famigerata per la sua straordinaria lussuria.
La connetta era anche “callida et ad huius modi flagitia
perastutula”, furba e una consumata volpe per le vergogne di questo
genere.
Un giorno, appena uscito il marito, un temerarius adulter entrò in
casa. Ma il fabbro rientrò senza avere compiuto fabriles operas poiché il padrone era in tribunale e aveva dato
vacanza agli operai.
Allora l’uxorcula,
la “mogliettina” fece nascondere
l’amante “tenacissimis amplexibus expeditum”, liberato dai suoi amplessi assai appiccicosi, “dolio quod erat in angulo semiobrŭtum”, semicoperto, “sed alias vacuum” (9, 5).
Boccaccio: “Giannello prestamente entrò nel doglio”.
Il becco entra e l’adultera lo aggredisce .
Le donne possono infuriarsi per l'offesa sessuale da loro
stesse arrecata:"Bisogna stare attenti con le donne. Sorprendile una volta
con le mutande abbassate. Non te la perdonano più"[11].
Sentiamo dunque Peronella: “Ora questa che novella è, che tu
così tosto torni a casa stamane?... Tu mi torni a casa con le mani spenzolate,
quando tu dovresti essere a lavorare!... L’altre si danno buon tempo con gli
amanti loro, e non ce n’ha niuna che non n’abbia chi due chi tre, e godono, e
mostrano a’ mariti la luna per il sole; ed io misera me! Perché sono buona e
non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura ”.
Peronella ha dello spirito: sa parlare con efficacia e non
senza proprietà. Una facoltà che tutte le donne dovrebbero coltivare secondo
Boccaccio[12].
Lucio Apuleio |
Allora la “fallaciosa mulier, tollens cachinnum”, fa
complimenti ironici al marito per la prodigiosa vendita: lei venduto la botte septem denariis a uno che ci è entrato per controllarla.
Peronella dice: “Io, femminella che non fu’ mai appena fuor
dell’uscio, veggendo lo impaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette ad un
buono uomo il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo
fosse”.
Quindi l’adulter
bellissimus balza su, opportunamente, e critica la bótte in quanto sporca e incrostata. Sicché il marito entra nel dolium per pulirlo e l’“uxercula, capite
in dolium demisso, indicava i punti da pulire e maritum suum, astu meretricio,
tractabat ludĭcre”(7) prendeva
in giro il proprio marito con scaltrezza puttanesca[13].
“Giannello il quale appieno non aveva quella mattina il suo
disidèro ancora fornito, quando il marito venne, veggendo che come volea non
poteva, s’argomentò di fornirlo come potesse…e ad effetto recò il giovenil
disidèro”.
C’è un parallelismo tra la copula di Peronella e Giannello e
l’attività del muratore che raschia la botte.
Alla fine il calamitosus
faber portò il dolium collo suo ad
hospitium adulteri.
“Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che
egli era contento, e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare”.
Torniamo al romanzo di Apuleio.
Filebo e gli altri sacerdoti danno responsi sempre buoni.
Poi però commettono un furto sacrilego e vengono arrestati.
L’asino viene venduto a un mugnaio, pistor, e messo di nuovo alla macina. Questa rappresenta il rischio
che il suo soffrire venga vanificato.
Ma Lucio non cede: si
comporta con la Fortuna come Menelao con Proteo: non fugge davanti alle
trasformazioni.
Ogni cosa ha il suo senso a patto che si sappia capirlo.
L’asino dunque si fermava più volte stupore mentito (9, 9) fingendosi tonto. E’ la tattica di Bruto e
di Amleto, ossimori viventi. Il primo, “ex industria factus ad imitationem
stultitiae Bruti quoque haud abnŭit
cognomen” (Livio, I, 56, 8).
Ma quando lo bastonano, il povero Lucio deve mettersi a
girare rapidamente. Osserva l’orribile condizione degli schiavi. Il sollievo di
Lucio è la sua innata curiosità che lo apparenta a Ulisse. Ingenita mihi curiositate recreabar (9, 13). La curiositas è re-creatio, ridà vita.
La vita senza indagine non è vita umana, dice Socrate nell’Apologia: oJ
de; ajnexevtasto~ bivo~ ouj biwto;~ ajnqrwvpw/ (38a).
Ulisse infatti era vir
summae prudentiae e Omero lo cantò.
Anche nella chiusa del De
deo Socratis c’è una lode dell’eroe omerico. La conoscenza del mondo porta
alla coscienza di sé. Omero volle sempre
che compagna di Ulisse fosse la prudenza che chiamò Minerva: “Hac comite, omnia
horrenda subiit, omnia adversa superavit eā adiutrice. Cyclopis
specus introīvit sed egressus est, Solis boves vidit sed abstinuit”.
Addirittura Lucio esprime gratitudine asino meo (9, 13) che lo ha
reso multiscĭum, ricco di
esperienza. La condizione miserevole dell’asino conduce a prestare attenzione
alle altre miserie. Carotenuto sostiene che per accedere all’umanità è
necessario regredire a una condizione di stupidità[14].
Boccaccio rinnova questa grande curiosità per la vita.
Seguono tre storie intrecciate con la tecnica dell’incastro.
Il mugnaio padrone di Lucio era bonus vir et modestus ma aveva una moglie pessima nella quale tutti
i vizi erano confluiti come in caenosam
latrinam: saeva, scaeva, virosa velenosa,
ebriosa, ubriacona, pervicax, caparbia,
pertinax, ostinata, in rapinis turpibus avara, in sumptibus
foedis profusa. Inoltre era una furfante bigotta: fingeva una sacrilega
fede in un dio che proclamava unico. L’ha interpretata bene Paolo Poli qualche
anno fa.
Si faceva beffe del
marito prostituendosi dalla mattina alla sera. La donna per giunta perseguitava
l’asino. La crudeltà di costei aveva stimolato la curiosità di Lucio: “tw`/ pavqei mavqo~” (Agamennone, 177).
L’asino ascoltava
quando la donna parlava con la sua ruffiana, una vecchia megera. E approfittava
delle grandissime orecchie per captare tutto. Così si consolava dell’errore di
Fotide.
Prima storia: Filesitēro,
Barbaro, la moglie e lo schiavo Mirmēce.
La racconta la vecchia ruffiana e Lucio-asino ascolta.
La vecchia mezzana dunque racconta alla moglie del mugnaio come Filesitēro conquistò la moglie del decurione
Barbaro (9, 16). Comincia a dire che l’amante della mugnaia non valeva niente.
Molto più bravo è Filesitero, “formonsus et liberalis et strenuus et, contra
maritorum inefficaces diligentias, constantissimus”.
Il marito, dovendo allontanarsi, aveva affidato la moglie al
servo Mirmēce (formica).
Filesitero sa che ogni strada è pervia all’oro.
Mirmece e la donna dunque si vendono execrando metallo (9, 19).
Quindi l’amante viene introdotto in casa, ma all’inizio dei
giochi amorosi arriva il marito. Filesitero riesce a fuggire non visto, però
lascia le scarpe sotto il letto. Barbaro le prende e porta Mirmece nel foro,
incatenato; Filesitero li vede e aggredisce Mirmece gridando che gli ha rubato
le scarpe alle terme. Barbaro così si convinse, a torto, che la moglie non
c’entrava.
Seconda storia. La pessima moglie del mugnaio e Filesitero.
La vede l’asino.
La moglie del mugnaio è affascinata e accoglie Filesitero amatorem illum alăcrem (9, 22). Ma anche in questa storia sopraggiunge il marito che era andato a cena
da un vicino lavandaio-tintore apud
naccam proximum. Lucio è molto interessato alle arti della perfida donna.
Il marito dunque sopraggiunge celerius
opinione. Allora la uxor egregia,
imprecando contro di lui, nasconde l’amante spaventato sotto un’angusta cassa
di legno. Quindi la donna si mostra al marito sicura in volto e gli chiede che
cosa sia successo. L’uomo racconta.
Terza storia: la moglie del lavandaio e l’amante. La
racconta il mugnaio. La uxor fullonis aveva
nascosto un amante sotto una cesta di vimini coperti di panni posti a
imbiancare. Lo zolfo emetteva un fumo che fece soffocare e starnutire il
giovane rivelandone la presenza. Il marito furioso per l’offesa patita “inflammatus
indignatione contumeliae” (IX, 25) voleva ucciderlo, poi invece, trattenuto dal
mugnaio, lo aveva gettato nel vicolo vicino già mezzo morto. Intanto l’adultera
era scappata e il mugnaio stava tornando
a casa da sua moglie.
Di nuovo la seconda storia vista e raccontata dall’asino. La
mugnaia, sentito il racconto, impreca contro l’altra adultera, “universi sexus
grande dedĕcus (9, 26). Addebat
et tales oportere vivas exūri feminas”. Poi consigliò al marito di andare a
dormire.
Ma il marito voleva mangiare senza fretta e l’asino voleva
svelare l’inganno. Appena poté, calpestò le dita di Filesitero che urlando
svelò l’oscena commedia della donna. Il pistor
non fu troppo turbato: disse che voleva portare a letto il ragazzo con la
moglie. A me e a lei, disse, piacciono le stesse cose. Poi in realtà chiuse la pudicissima uxor in un’altra stanza, e
giacque da solo con Filesitero. Arrivato il giorno, lo frustò nelle natiche,
poi lo sgridò e lo buttò fuori. Quindi cacciò la moglie da casa (9, 28).
Boccaccio V, 10.
Racconta Dioneo il quale invita a ridere degli amorosi
inganni della donna. In questa novella il marito Pietro di Vinciolo aveva preso
moglie per coprire la propria omosessualità.
Così fan tanti, anche oggi. Poi la sera vanno al bar con gli
amici, giocano a carte o guardano le partite di calcio. Le mogli giustamente
cercano un amante, o, se sono omosessuali anche loro, un’amante.
La donna era una giovane “compressa di pel rosso e accesa e
pensava: Io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura”.
Il punto di vista rispetto a quello di Apuleio è cambiato: la vittima della
situazione secondo Boccaccio è la moglie.
Le donne in generale subiscono ingiustizie.
La vecchia ruffiana lamenta la condizione femminile: “Gli
uomini nascono buoni a mille cose, ma le femmine a niuna altra cosa che a fare
questo e figlioli e per questo son tenute care. Quando ci invecchiamo, né
marito né altri ci vuol vedere, anzi ci cacciano in cucina a dir favole con la
gatta e ad annoverare le pentole e le scodelle, e peggio che noi siamo messe in
canzone e dicono: alle giovani i buoni bocconi, e alle vecchie gli
stranguglioni”.
La donna le diede un pezzo di carne salata e la mandò con
Dio. Quindi la ruffiana le mandò un garzone dei più belli di Perugia. Il marito
era andato a cena da Ercolano ma tornò troppo presto. L’adultera nascose il
ganzo in una cesta di polli.
Pietro racconta la storia dell’altro adulterio svelato dallo
starnuto.
Quando sente il racconto della prima adultera scoperta,
questa rossa dice”Di sì fatte femmine non si vorrebbe avere misericordia; elle
si vorrebbero uccidere vive, metter nel fuoco e farne cenere”. Poi un asino
pesta l’amante e questo, “grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido”.
Il marito, Pietro, conosceva quel giovane per averlo corteggiato. Comunque
lancia una maledizione biblica: “Voi siete tutte così fatte e con l’altrui
colpe guatate di coprire i vostri falli, che venir possa fuoco dal cielo che
tutte v’arda, generazione pessima che voi siete!”.
Ma Vinciolo era uno degli scampati al fuoco celeste che
distrusse Sodoma[15].
La moglie del resto rinfaccia al marito l’omosessualità: “Io
vorrei innanzi andar con gli stracci indosso e scalza ed esser da te ben
trattata nel letto… Se’ così vago di noi come il can delle mazze”.
Vinciolo condivide tale ripugnanza per le femmine umane con
ser Ciappelleto il quale “delle femine era vago come sono i cani de’ bastoni”
(I, 1)
Quindi Pietro le fece preparare la cena e promise: “Disporrò
di questa cosa in guisa che tu non t’avrai che rammaricare”. I tre cenarono e
andarono a letto insieme. La novella non si impegna in un giudizio morale, se
non: “chi la ti fa, fagliele”.
Del resto: “Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx” (Ovidio, Amores III, 4, 37)
Torniamo ad Apuleio. L’adultera moglie del mugnaio cacciata
trova una vecchia strega che provoca la morte del marito mandandogli un
fantasma. Lucio rivendica ancora una volta la propria curiosità e capacità di
osservare: “Accipe igitur, quem ad modum homo curiosus iumenti faciem sustinens
cuncta, quae in perniciem pistoris mei gesta sunt, cognovi” (IX, 30), ascolta
dunque come io, da uomo curioso sotto le vesti di un asino, potei sapere tutto
quanto veniva ordito ai danni del mio mugnaio.
Queste storie di adulterio nello scrittore latino screditano
il piacere sessuale. I mariti sono vari, ma generalmente dei fessi, le donne
sono tutte uguali: lussuriose e fallaci.
Se vengono tradite loro, fanno come Medea (VIII, 22).
Boccaccio risponde a chi lo accusa di avere scritto storie
licenziose.
Egli replica che le sue novelle possono essere adoperate
bene o male come ogni cosa e certamente le sue novelle non corromperanno le
donne ben disposte come il loto non contamina i raggi solari. Chi non ha
l’abitudine di leggere, non le legga e pensi a dire i paternostri o a fare il
migliaccio o la torta. L’autore ammette che alcune storie sono meno belle di
altre: “Conviene, nella moltitudine delle cose , diverse qualità trovarsi”.
B. offre la sua fatica alle donne oziose. Perciò ha scritto
tanto.
“Le cose brevi si convengono molto meglio agli studianti… Che
a voi donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non
ispendete; ed oltre a questo, per ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi
alcuna di voi non va a studiare, più distesamente parlarvi si conviene che a
quegli che hanno negli studi gli ingegni assottigliati”.
Io sono stato molte volte uomo “pesato”; ebbene “affermo che
io non son grave, anzi sono io sì lieve, che io sto a galla nell’acqua”.
Si pensi al peso dei versi nelle Rane di Euripide.
Le prediche dei frati “per rimorder delle loro colpe gli
uomini, il più oggi piene di motti e di ciance e di scede (beffe) si veggiono”.
Sicché ho usato gli stessi mezzi per cacciar la malinconia dalle femmine.
Comunque dei frati io scrivo il vero.
“Confesso nondimeno le cose di questo mondo non avere
stabilità alcuna, ma essere sempre in mutamento, e così potrebbe della mia
lingua essere intervenuto”.
Simile è la conclusione delle Metamorfosi di Ovidio dove il poeta Peligno fa parlare Pitagora. Il
Sulmonese nel XV libro delle Metamorfosi dà voce al filosofo di Samo il
quale ricorda che nella fortunata età dell'oro le bocche umane non erano
contaminate dal sangue (v. 98). Dunque non si devono mangiare né sacrificare
creature viventi agli dèi, siccome l'anima non muore ma trasmigra in altri
corpi e altre regioni: "Cuncta
fluunt, omnisque vagans formatur imago" (v. 178), tutto scorre e
ogni immagine si forma fluttuando
Ho indicato alcuni maestri latini di Ovidio: Apuleio,
Ovidio, Virgilio, Cicerone, Valerio Massimo. Non credo infatti che l’esempio di
Temistocle derivi direttamente da Plutarco.
Concludo aggiungendo
Quintiliano dietro suggerimento di Carlo Muscetta.
Boccaccio nelle Genealogie
(X, 10) polemizza contro coloro che mal conobbero il pensiero di Quintiliano.
Se ne ricorda infatti il Certaldese quando rivendica l’abbondanza delle sua
scrittura: “Vitanda est etiam illa Sallustiana… Brevitas et abruptum sermonis
genus”[16],
bisogna evitare anche quella famosa brevità sallustiana e quel tipo di stile
precipitoso.
Per quanto riguarda il realismo, Quintiliano suggerisce: “Credibilis
erit narratio ante omnia, si prius consuluerimus nostrum animum, ne quid
naturae dicamus adversum”[17],
la narrazione dei fatti sarà prima di tutto credibile se prima ci saremo curati
di non dire niente contrario alla natura.
Boccaccio ha appreso la grande lezione del realismo dei
classici.
Il realismo di Dante era ancora solo “figurale”.
Nella parte che riguarda il riso, Quintiliano trova che il
motto scherzoso capace di suscitare il riso sia un segno di urbanitas (VI, 3, 3) la cui assenza è rusticitas. L’urbanitas delle battute può togliere odiosità ai sospetti, come
quando i giovani di Taranto accusati di aver parlato male di Pirro durante una
bevuta, invece di scusarsi dissero: “Nisi lagōna defecisset, occidissemus te”
Dunque “narrare quae salsa sint in primis est subtile et
oratorium” ( VI, 3, 39), narrare arguzie saporite è cosa soprattutto raffinata
e degna di un oratore.
Ho preparato questo percorso sapendo bene che non potrò
esporlo in una conferenza di un’ora. L’ho fatto con serietà, ossia con impiego
di tempo, e con amore perché sono anche io homo
curiosus, e perché so bene che l’arguzia imparata da Boccaccio potenzierà
il mio parlare e il mio scrivere, cioè le attività che mi stanno più a cuore,
siccome attività politiche, tali che mi tengono in contatto con la polis.
Giovanni Ghiselli, Bologna 1 settembre 2013
Aggiunta di un poco
di storia:
Nel 1340 B. torna da Napoli a Firenze di mala voglia.
Nel 1343 muore Roberto d’Angiò.
Il suo regno era già in decadenza, nonostante le iniziative
culturali di questo re e il fatto che aveva cercato di assumere la funzione di
guida del guelfismo italiano. Già da molto tempo la Sicilia e la Sardegna erano in mano agli
Aragonesi.
La Sicilia era stata sottratta a Carlo I d’Angiò da Pietro III d’Aragona nel 1282 in seguito ai Vespri siciliani.
Pietro d’Aragona aveva sposato Costanza, figlia di Manfredi e si atteggiava a
continuatore della politica Sveva.
La decadenza del regno di Napoli era anche dovuta al fatto
che gli Angioini vi mantenevano condizioni feudali.
Nel 1442 Alfonso di Aragona, detto il Magnanimo, conquistava
il regno di Napoli.
La peste del 1348
avviene in una situazione di crisi finanziaria ed economica.
Il ritorno di B. a Firenze è dovuto alla crisi finanziaria
dei Bardi che nel 1346 falliranno. Nel 1343 falliscono i Peruzzi che, come i
Bardi, avevano prestato denaro agli Angiò. L’Inghilterra non pagò i suoi debiti
ai Peruzzi e Filippo di Valois in Francia fece arrestare i mercanti di Firenze.
Anchr il regno di Napoli non pagava i debiti.
Nel 1341 i Fiorentini subiscono una disfatta dai Pisani
alleati con i Visconti.
Roberto d’Angiò inviò un aiuto modesto guidato da Gualtieri
VI di Bireme, detto il duca di Atene. Questo si appoggiò alla borghesia minore
colpendo i “Grassi”.
I Grassi erano i Neri che Bonifacio VIII aveva aiutato a
prevalere in Firenze.
Erano i grandi mercanti e finanzieri che costituivano la
parte guelfa e governavano attraverso i priori e il gonfaloniere di giustizia.
L’avventuriero detto il duca di Atene dunque colpiva le grandi
famiglie, nonostante fosse stato chiamato dal popolo grasso.
Fece giustiziare un Medici e un Altoviti. Nel 1342 fu
acclamato signore a vita dal popolo. La sua dittatura era fondata sugli
artigiani minori e sul popolo minuto. I Grassi si videro posposti a famiglie
umili.
Nel 1343 Gualtieri venne cacciato da una congiura.
Nel 1345 ci fu lo sciopero dei tintori diretto da un
operaio: Ciuto Brandini, ma vennero repressi dal popolo grasso, una
anticipazione del tumulto dei Ciompi del 1378.
I Grassi comunque per qualche tempo dovettero associare al
governo delle arti maggiori .quelle minori, ossia la gente nuova dei piccoli
artigiani. Il Boccaccio scrive che quelli del contado “tolti dalla cazzuola e
dall’aratro venivano sublimati al magistrato maggiore”.
Ben presto però la parte guelfa filopapale e antiimperiale
riprende supremazia e prepotenza.
La vecchia oligarchia un poco alla volta esclude dal governo
le arti minori, quelle meno intellettuali: nel 1346 una legge elimina dalla
vita pubblica chiunque non fosse nato a Firenze. Erano chiamati ghibellini.
I capi delle arti minori non furono capaci di reagire. Nel
1349 le 14 arti minori vennero ridotte a sette con il pretesto che erano
diminuite di numero per via della peste che sconvolse la vita sociale di Firenze:
diffuse empietà, libertinaggio, formò una classe di nuovi ricchi che avevano
approfittato del flagello: becchini, infermieri, mercanti di farmaci e così
via.
Dopo la peste ci fu un periodo di pacificazione.
Ma nel 1354 venne approvata una legge che escludeva i
“ghibellini” dai pubblici uffici. Bastava un sospetto di ghibellinismo.
Gli Albizzi erano i capi di questa caccia alle streghe; però
nel 1367 i Ricci ridiedero qualche potere ai nuovi artigiani che rialzarono la
testa con il popolo minuto.
Dopo il fallimento della rivolta dei Ciompi del 1378,
l’oligarchia delle grandi famiglie di banchieri e mercanti (Albizzi, Strozzi)
riacquista tutto il potere escludendo il popolo minuto. Nel 1405 alla morte di
Gian Galeazzo Visconti, Firenze riesce a occupare Pisa e ad avere lo sbocco sul
mare, poi anche Arezzo e Pistoia. Nel 1434 prende il potere Cosimo dei Medici.
[1]
La paura della donna
suggerisce a Catone il Vecchio alcune
parole sulla necessaria sottomissione della femina al fine di tenere sotto controllo una natura
altrimenti riottosa e sfrenata .
Così si esprime il Censore quando parla, nel 195 a. C.,
contro l'abrogazione della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso
delle matrone le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore
dell'annullamento della legge: "Maiores nostri nullam, ne privatam quidem
rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium,
fratrum, virorum...date frenos impotenti
naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae facturas...omnium rerum
libertatem, immo licentiam , si
vere dicere volumus, desiderant… Extemplo
simul pares esse coeperint, superiores erunt", (Livio, Storie, XXXIV, 2, 11-14; 3, 2)
i nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno
privato senza un tutore garante, e che stessero sotto il controllo dei padri,
dei fratelli, dei mariti...allentate il freno a una natura così intemperante, a
una creatura riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla
licenza... Desiderano la libertà, anzi, se vogliamo chiamarla con il giusto nome la licenza in tutti i
campi…. Appena cominceranno a esserci pari, saranno superiori.
[2] H. Hesse, Demian (del 1919), p. 54.
[3]
Metamorfosi I, 25 c’è l’edile che fa
schiacciare i pesci. Pitagora salvò dei pesci. Cfr. Schopenhauer con Luca 5.
[6] Fenomenologia
dello spirito (del 1807). Capitolo 4
(A)
[7]M Bacthin, Dostoevskij
, p 222.
[9]
Nel dialogo Filebo di Platone il
personaggio Filebo sostiene che il sommo bene è il piacere. Per Socrate è
l’intelligenza e il sapere.
[10]
Il contrario di questa uxorcula è la muliercula raccomandata da Lucrezio, la
quale, pur deteriore forma, può farsi
amare morigeris modis et munde corpore
culto (IV, 1279 ss).
[11] J. Joyce, Ulisse, p. 139.
[12]
Alla fine della prima giornata Elissa racconta la storia di Maestro Alberto da
Bologna e la inizia dicendo che “i leggiadri motti” sono ornamento de’
laudevoli costumi e de’ ragionamenti piacevoli come le stelle ornano il cielo e
i fiori i prati. I leggiadri motti devono essere brevi poiché il parlare a
lungo, quando se ne può fare a meno, disdice.
Elissa biasima le donne che puntano tutto su orpelli
esteriori, come panni più screziati, più vergati e con più fregi, senza pensare
che un asino ne porterebbe di più. Quindi “queste così fregiate, così dipinte,
così screziate, o come statue di marmo mutole ed insensibili stanno” o
rispondono alle domande con parole più brutte del silenzio e con il loro tacere
vogliono passare per riservate e pure “ed alla loro melensaggine hanno posto
nome onestà” (I, 10)
[13]
Nell’Ulisse di Joyce l’astus meretricius è visto piuttosto come
istinto della donna: “Tinnulo calessino (quello che porta l’adultero Boylan
all’incontro erotico con Molly). Lei voleva andare. Ecco perché. Donna. Tanto
vale fermare il mare” (p. 372). Oppure Emilia nell’Otello: “Let husband know.
Their wifes have sense like them: they see and smell, and have their palates
both for sweet and sour, as husband have” (IV, 3), sappiano i mariti che le
loro mogli hanno sensi come loro: esse vedono e odorano e hanno il palato per
il dolce e per l’aspro, come i mariti.
[14]
Aldo Carotenuto, Le rose nella mangiatoia,
Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
[15]
Proust premette queste parole al IV volume della Ricerca: “ Prima apparizione degli uomini-donne, discendenti da
quegli abitanti di Sodoma che furono risparmiati dal fuoco celeste” Sodoma e
Gomorra, p. 5.
[16] Institutio
oratoria IV, 2, 44.
[17] Quintiliano, p.
cit. IV, 2, 52.
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