Quarta sezione della conferenza tenuta a Catania il 17
aprile.
Grande soddisfazione mi ha dato la richiesta fattami da
numerosissimi giovani dell’intero percorso che ho potuto presentare solo in
parte.
Il percorso è ancora lungo e non potrò metterlo tutto nel
blog perché altre conferenze premono (la prossima sul Satyricon il 21 aprile)
Manderò l’intero - Tacito Marchesi - a tutti quelli che me
lo chiederanno scrivendomi a g.ghiselli@tin.it
Tacito e le leggi
La persecuzione dell’età imperiale è una specie di duello
mortale tra il principe e i pochi cittadini che pubblicamente lo avversano. Ed
è un fenomeno urbano. (p. 81).
Domiziano ritenne il senato inetto e malfido e volle
esercitare un’autorità diretta in tutti gli affari. Amava i poeti e li onorava
senza arricchirli
(Domiziano, esecrato da Tacito, viene viceversa elogiato da
Stazio che nella Tebaide (I, 18) ne
celebra i trionfi sui popoli nordici derisi da Tacito nella Germania.)
Quintiliano ebbe da lui ornamenti consolari. Il popolo
soddisfece con feste e largizioni e speciali cure rivolse all’esercito che
voleva sostegno del principato contro la nobiltà. Bramoso di gloria militare,
trionfò tre volte. I senatori gareggiavano in adulazioni e onoranze. Ma ebbe nemici
acerrimi nell’aristocrazia. L’imperatore si sentiva circondato da insidie e si
circondava pazzamente di martiri e fu l’ultima vittima (p. 83)
Alleati dei nobili erano i filosofi che guardavano al
suicida Catone come modello, ma “gli uomini fortemente operosi non possono
mettersi al seguito di chi si uccide” (p. 84)
Con Tiberio abbiamo i catoniani che non sapendo più vivere
utilmente, morivano come Catone per amore della libertà.
Cfr. Cremuzio Cordo e Trasea Peto
Anche del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri,
per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli, accusato, s'era
lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un'esaltazione della libertà di
pensiero storico)... Caligola fece
tornare alla luce gli scritti di Labieno e di Cremuzio: "è nel mio
interesse" diceva "che la storia sia conosciuta" (ut facta quaeque posteris tradantur: Suet.
Cal. 16, 1): un punto di vista che
entra nella tendenza antitiberiana, e nella ricerca della popularitas , con cui Caligola, ai suoi inizi, si presentò come un
monarca, a suo modo, costituzionale… Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto "la virtù in persona[1]",
come lo definì Tacito, si uccise[2]
accusato di lesa maestà: aveva scritto
una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo
sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo
difendevano l'antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso
principato"[3].
Cremuzio Cordo che negli Annales aveva chiamato Cassio
l’ultimo dei Romani, si difese dicendo che Tito Livio aveva celebratp Pompeo,
Catullo aveva infamato Cesare, Asinio Pollione aveva celebrato Bruto e i Greci
lasciavano impunita non solo la libertà, ma anche la licenza. Tiberio assisteva
truci vultu (Annales, IV, 34) Siamo
nel 25 d. C.
Con Tiberio è già iniziata “la voluttà quasi teatrale della
morte” (p. 85)
Veramente già Tito Labieno con Augusto.
Esempio tipico il suicidio di Cocceio Nerva, il grande
giurista che volle morire pur essendo in buoni rapporti con Tiberio
“Tacito che annerì di tanta tetraggine la figura di Tiberio,
non potè trovare nella crudeltà del principe la ragione di quella ostinatezza
funesta (Ann. VI, 26)” (p. 85)
Tacito disapprova il suicidio ostentato per avere rinomanza.
Sembra che non lo disapprovi quando può salvare dalla degradazione. Marbod re
degli Svevi relegato a Ravenna dopo la caduta visse 18 anni ob nimiam cupidinem vivendi (Ann. II, 63). Però lo storiografo
condanna i provocatori della morte e della gloria (Agricola, 42)
Agricola non provocava la fama e il destino né con
l'arroganza, né con vuota ostentazione di indipendenza: "non contumacia
neque inani iactatione libertatis, famam fatumque provocabat"(42).
Dunque anche sotto i cattivi principi, l'obbedienza e la moderazione, "si
industria ac vigor adsint" se ci sono l'energia e l'operosità, possono
innalzarsi a quella lode che molti raggiunsero "ambitiosa morte" senza giovare allo stato. Una morte
“spettacolosa” p. 86.
Dunque né abrupta
contumacia né deforme obsequium ma un iter ambitione ac periculis vacuum (Ann. IV, 23)
Marziale scrive che non vuole un uomo il quale incorona la
fama con un facile sangue, ma quello che può essere celebrato senza la morte: “hunc volo, laudari qui sine morte potest ”
(I, 8, 6)
Tacito non è un rivoluzionario (p. 87) Egli pone l’obsequium come un dovere politico. Egli
detesta i turbidos eoque nova cupientis
(Ann. II, 39) bramosi di rivoluzione e questa avversione fa parte del suo
sentimento aristocratico e conservatore. A sommuovere le turbe e agitare lo
Stato, i peggiori hanno maggior potere, ma la pace e l’ordine hanno bisogno di
buone arti” (p. 87)
In turbas et discordias pessimo cuique plurima
vis: pax et quies bonis artibus indigent” (Hist.
IV, 1). Consiglia comunque di non provocare il tiranno, nemmeno con
l’esibizione di qualità buone (Agr. 4
- 5)
Il volgo è meno esposto all’invidia: “vulgum, cui minor sapientia et ex mediocritate fortunae pauciora
pericola sunt” (Ann. XV.60)
Fedro aveva ricavato la stessa moralità dalle vicissitudini
politiche dell’età sua (Augusto - Tiberio) minuta
plebes facili presidio latet (IV, 6, 13 battaglia dei sorci e delle
donnole)
Tacito considera deplorevole il sacrificio personale che non
serve a nessuno.
Nel IV degli Annali Tacito ricorda il processo contro
Cremuzio Cordo che nel 25 venne accusato poiché aveva chiamato Cassio “l’ultimo
dei Romani”.
Si lasciò morire di fame e la sua opera venne data alle
fiamme.
Cfr. Giulio Cesare
di Shakespeare: Bruto dopo la sconfitta di Filippi vede il cadavere di Cassio
suicida e dice: “The last of all the
Romans, fare thee well! (V, 39
Tacito scrive che perseguitare il pensiero significa
accrescerne l’autorità (Ann., IV. 35 punitis ingeniis, gliscit auctoritas).
Cfr. Seneca La
Consolatio ad Marciam parte dal ricordo del
padre riabilitato: era stato gettato nell'oblio con il calpestamento di due
valori forti, l'eloquenza e la libertà, ma ora: “legitur, floret: in manus
hominum, in pectora receptus, vetustatem nullam timet” (1, 4), viene letto,
fiorisce: accolto tra le mani degli uomini e nei loro petti, non teme nessuna
forma di invecchiamento.
Nel secondo capitolo dell’Agricola Tacito aveva scritto contro le vane crudeltà delle
condanne capitali di Aruleno Rustico ed Erennio Senecione.
Concezione etico - giuridica di Tacito (p. 89)
Platone.
Lo Stato della Repubblica
è lo Stato ideale, non quello empirico. L’individuo è zero di fronte
all’idea universale; la famiglia sparisce davanti alla forza impersonale dello
stato.
Tuttavia Platone considera lo sviluppo delle varie forme di
governo
Nell’ottavo libro scrive che ogni governo decade quando si
genera la discordia: dalla oligarchia che non fa partecipare i poveri al
governo si passa per la cupidità dei molti alla democrazia e dalla democrazia
alla tirannide.
Lo Stato deve avere un fine etico e perseguire il bene
Platone aveva messo la classe dei guerrieri tra i filosofi e
il popolo.
Aritotele vorrebbe che predominasse la classe media (Politica 1295a, 35)
Tirannide è la degenerazione (parevkbasi")
della monarchia, l’oligarchia della aristocrazia; la democrazia della politeiva, cioè del governo che si propone
il pubblico bene.
Infatti la tirannide è fatta pro;"
to; sumfevron tou' monarcou'nto"; l’oligarchia pro;" to; tw'n eujpovrwn dei ricchi,
la democrazia pro;" to; sumfevron to;
tw'n ajpovrwn, dei poveri, e nessuna per il vantaggio di tutti (Politica 1279b, 4)
Tacito non sentì lo stato come una idealità ma come realtà
concreta e come una necessità o piuttosto come una servitù politica (p. 91)
Del resto Roma non è una polis ma la capitale di un impero.
Per Tacito lo Stato migliore è quello in cui il contrasto
delle passioni si acqueta nel dominio di uno solo, possibilmente il capo di una
pacifica signoria
Cicerone nel primo libro della Repubblica (I, 30) faceva dire a Scipione che la migliore forma di
governo era il genus moderatum et
permixtum tribus ossia monarchia, aristocrazia e democrazia. E’ la mikth; politeiva di Polibio: consoli,
senato, popolo.
Tacito afferma che una costituzione mista non può durare a
lungo: cunctas nationes et urbes populus
aut primores aut singuli regunt: delecta ex iis et consociata rei publicae
forma laudari facilius quam evenire, vel si evenit, haud diuturna esse potest
(Ann. IV, 33).
A Roma “monarcato repubblica e principato sono tre fasi
della evoluzione storica, non tre facce di un medesimo organismo politico” (p.
94)
Tacito è ostile alle res
novae cui tendono le forze popolari
Il principato è lo sbocco fatale delle lotte civili e Tacito
lo accetta come fine delle lotte civili (p.95). “Ma vuole un principato che
concilii, come quello di Nerva, la monarchia e la libertà” Agr. 3 (p. 95)
E’ anche sua la sentenza messa in bocca a Galba il quale
disse dei Romani qui nec totam servitutem
pati possunt nec totam libertatem (Hist,
I, 16).
La diarchia principe senato era un sogno di Tacito e di
Seneca.
“Seneca vuole, come Tacito, il rex iustus (p. 95). Anche Seneca capisce la necessità storica del
principato.
Nel De beneficiis
scrive che Bruto non aveva capito quella necessità (II, 20)
Non aveva compreso che “la moltitudine non ha bisogno di
libertà ma di padrone”.
Relativamente al buon governo, Seneca la pensa come Tacito: l’optimus civitatis status è sun rege iusto”
(De Beneficiis, II, 20)
La summa libertas
ha in sé il germe della morte la licentia
pereundi (p. 97)
Tacito non trova un principe buono fino a Nerva; di
Vespasiano scrive che fu il solo tra gli imperatori reso migliore dal trono” (Hist, I, 50)
Seneca elogia solo Nerone “che fu il suo discepolo e il suo
carnefice” (p. 97)
Il rex iustus
dunque “o è uno stupefacente dono della fortuna o un vaneggiamento di
filosofale o teologale utopia”
Per Platone hJ tou'
ajgaqou' ijdeva mevgiston mavqhma (Rp.
VI, 16)
Nelle Leggi il
sistema trascendente delle idee è mitigato dall’interresse empirico. Le leggi
umane comunque devono essere conformate alla giustizia divina, altrimenti sono
ridicole e vane come l’uomo che non si cura di rendersi propizi gli dèi (Leggi 662c sgg: 803 - 804). E rendersi
propizi gli dei è vivere secondo le leggi non scritte esaltate da Antigone
(Sofocle, Antigone, 454 - 455) p. 98
Per Aristotele le leggi sono necessarie in quanto assuefanno
al pubblico bene, e il maestro della legislazione non deve essere il sofista,
privo di esperienza politica, né il politico privo di scienza teoretica, ma il
filosofo che dal fatto sa risalire alle leggi regolatrici dei fatti (p. 99)
Per Cicerone la legge coincide con la diritta ragione (De legibus I, 7, 22 - 23)
Essa è eterna, antica quanto dio. Per lui le dodici Tavole
sono il tipo della buona legge, come la costituzione romana è la miglior forma
di repubblica (II, 24 - 61 - 62).
Tacito afferma che la legge non vale di fronte alla
consuetudine (p. 99)
Tacito contrappone spesso illic a ibi o ad alibi. Nemo illic vitia ridet, plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae
leges (Germania, 19)
I Romani preferivano interpretare e integrare le antiche
leggi che emanarne di nuove. “Dalle Tavole decemvirali si passa al codice di
Teodosio” (p. 100).
Negli Annali
Tacito scrive che le leggi sono impotenti contro la forza, l’intrigo, il denaro
leges quae vi ambitu postremo pecunia
turbabantur (I, 2).
Cfr. Anacarsi Scita a Solone
Solone,
ammirata la prontezza di spirito dell’uomo, lo accolse amichevolmente e lo
trattenne per qualche tempo presso di sé, quando già si occupava degli affari
pubblici e stabiliva le leggi. Anacarsi dunque, venutolo a sapere, derideva
l’opera di Solone che pensava di fermare le ingiustizie e le pretese dei
cittadini con norme scritte, le quali non differiscono per niente dalle
ragnatele, ma, come quelle,
trattengono i deboli e i piccoli tra gli irretiti, mentre dai potenti e ricchi
verranno lacerate. Plutarco Vita di
Solone, 5, 2 - 4.
Nel
III degli Annali, Tacito scrive
alcuni capitolo sull’ordinamento sociale e giuridico dei romani. Nei primi
tempi c’era l’aequalitas e non c’era
bisogno di leggi. Poi irruppero ambizione e violenza e si stabilirono signorie
o leggi come quelle cretesi di Minosse, quelle di Solone, e a Roma Romolo e
Numa che impose al popolo il freno della religione, poi Tullo e Anco. Il primo
ordinatore delle leggi fu Servio Tullio (III, 26). Leggi semplici in origine.
Servius Tullius sanctor legum fuit quis etiam reges obtemperarent
Nel
capitolo seguente (III, 27) Tacito scrive che le 12 tavole segnarono finis aequi iuris, furono le ultime
giuste.
In seguito le leggi per vim latae sunt, quindi vennero i Gracchi e i Saturnini (Saturnino,
tribuno della plebe, propose una legge agraria nel 101 e fu ucciso), turbatores plebis, turbatori della plebe
poi Silla che impose un freno alle novità, ma i tribuni ebbero di nuovo licenza
di agitare il popolo, et corruptissima
repubblica plurimae leges (III, 27) (p. 103).
In
questo capitolo si vede lo spirito reazionario di Tacito. E’ una serrata e dura
requisitoria contro i populares e i
tribuni della plebe.
Coi
Gracchi e con le vittorie del secondo Scipione dunque comincia il rovinoso
decadere del costume romano.
Come
aveva scritto anche Sallustio nel Bellum
Catilinae 9, 10.
“Al
tempo di Tiberio era questa una data già costituita per una tale divisione dei mores romani, e Velleio Patercolo dando
principio al secondo libro delle Storie,
quasi epigraficamente sentenziava: “Potentiae
Romanorum prior Scipio viam aperuerat, luxuriae posterior aperuit”, il
primo Scipione aveva aperto la strada alla potenza romana, il secondo l’aprì
alla mollezza, remoto Carthaginis metu…ad
vitia transcursum; vetus disciplina deserta, nova inducta: in somnum a
vigiliis, ab armis ad voluptates, a negotiis in otium conversa civitas”
Velleio, II, 1)
Con
Scipione Emiliano e la caduta di Cartagine, 146, inizia la decadenza
(Sallustio, B. C.9 - 10 ubi Carthago aemuls
imperii Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire
fortuna ac miscere omnia coepit)
Dunque
il codice delle dodici Tavole è per lui finis
aequi iuris, l’estremo limite, e le troppe leggi sono in gran parte
suggerite da interessi personali
“Nel
suo spirito di “vecchio Romano” Tacito esigerebbe il rispetto assoluto alla
tradizione, al mos maiorum” p. 104
Il
pensiero di Tacito può essere assimilato a quello di Gaio Cassio che nel 61 d.
C. chiese l’applicazione di una vecchia legge per cui 400 schiavi dovevano
essere uccisi per la colpa di uno solo
Il
prefetto Pedanio Secondo era stato ucciso da uno schiavo
E
Gaio Cassio disse che si potevano mandare a morte degli schiavi innocenti come
si fanno le decimazioni negli eserciti “Habet
aliquid ex iniquo omne magnum exemplum quod contra singulos utilitate publica
rependitur” Ann. XIV, 44) è
riscattato dall’interesse generale (p. 105)
Nelle
Historiae Tacito scrive che alla
grandezza delle nazioni segue la rovina è “lo strumento della rovina è la
passione del potere” (105)
La aequalitas si manteneva facilmente
finché lo Stato fu modesto, ma con l’abbattimento dei nemici si accese la
discordia tra il senato e la plebe con tribuni turbolenti e consoli prepotenti.
Mario venuto su dall’infima plebe e Silla, il più crudele dei tiranni volsero
in tirannia la libertà, poi Pompeo, più cauto ma non migliore, poi ogni lotta
ebbe per bersaglio il principato ( Hist.II, 38)
Negli
Annales Tacito scrive che comunque il
principato diede ordine a pace alla società romana dove continua per vigenti annos discordia, non mos non ius; deterrima queque
impune ac multa honesta exitio fuere (III, 28), la morte era spesso il
premio della virtù.
giovanni
ghiselli
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