Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico.
L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in
un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato;
egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in
là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai
lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o
addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte.-Chi non
conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande
virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale
dell'acido di spato di fluoro"[1].
Perché studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a che cosa
servono? Alcuni rispondono:" a niente; non sono servi di nessuno; per questo
sono belli"[2].
Non è questa la nostra risposta. Se è vero che le culture classiche non si
asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è
pure certo che la loro forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del
classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico. Il
greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che
sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di
chi non li conosce[3].
Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
Parlare male non solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle
anime.
Lo afferma Socrate nel Fedone :"
euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to;
mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn
ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non
parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle
anime.
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio
per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte
della parola"[4].
Per essere specialisti in quest’arte bisogna saper parlare in mondo preciso e
conciso, e per raggiungere questo scopo ci vuole ricchezza, vastità e proprietà
di lingua.
“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per
esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene
largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà
di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di
espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).
Alfieri cercava di trovare per i suoi drammi “un fraseggiare di brevità e di
forza”, traducendo “i giambi di Seneca” (Vita, 4, 2).
Il sicuro possesso della parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico
a quello erotico : "Non
formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas
", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore
le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria
[5].
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il latino e il greco, per
potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della
vecchiaia:"Iam molire animum qui duret, et adstrue formae:/solus ad extremos
permanet ille rogos./Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et
linguas edidicisse duas" (Ars amatoria II, vv. 119-122), oramai
prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane
sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente
attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue.
Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo disprezzare altre lingue.
Le lingue studiate, tutte le lingue, ma in particolare il greco e il latino che
non si parlano, vanno coltivate con uno studio privo di interruzioni.
II pericolo della dealfabetizzazione, il vocabolo stesso lo dice, è soprattutto
incombente sul greco. Ma riguarda ogni studio che venga interrotto e trascurato.
Cito a questo proposito alcune righe di una pregevolissima ricerca di Tullio De
Mauro. L’illustre linguista ricava da “due grandi indagini internazionali, fatte
nel 2001 e nel 2006, promosse da Statistics Canada e dal Federal Bureau of
Statistics degli Stati Uniti” che “29% è l’accertata percentuale di italiane e
di italiani con piena padronanza alfabetica e numerica”. E continua: “Il nostro
paese non è l’unico a conoscere la dealfabetizzazione di adulti anche
scolarizzati a livelli alti. Essa in parte è fisiologica: sappiamo che se non si
esercitano le competenze acquisite da giovani a scuola, in età adulta regrediamo
mediamente di cinque anni rispetto ai livelli massimi raggiunti. E’ la regola
detta del “meno cinque”. Ogni adulto può comodamente verificarla su se
stesso…dopo cinque anni di greco, quanto ce ne resta se non facciamo i
professori della materia e i classicisti?”.
De Mauro nota che “in tutti i paesi sviluppati esistono strutture e centri per
l’educazione permanente degli adulti, che consentono a percentuali consistenti
di popolazione di rientrare in formazione. L’esperienza dice che un ciclo anche
breve è prezioso per riattivare buona parte delle competenze smarrite. Ottenere
che come altri paesi europei anche l’Italia si doti di un sistema nazionale di
lifelong learning, di apprendimento per tutta la vita, è per ora un
miraggio”[7].
Il consiglio che posso riproporre è quello già dato da Ovidio che la cura
di queste due lingue, come di tutte le altre competenze acquisite a scuola, non
sia levis.
Non si può essere veramente bravi a usare la parola, utilizzabile sempre e per
molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si conoscono le lingue e le
civiltà classiche, ossia quelle dei primi della classe.
Il
termine classicus designava il cittadino che apparteneva alla classis
più elevata dei contribuenti fiscali; "solo per traslato uno scrittore del II
secolo d. C., Aulo Gellio, definisce "classicus scriptor, non proletarius"
uno scrittore "di prim'ordine", non della massa" (Noctes Atticae 19. 8.
15; cfr. 6. 13. 1 e 16. 10. 2-15), o (forse meglio) "buono da essere letto dai
classici (i contribuenti più ricchi), e non dal popolo"; classicus è
ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo,
"contribuente solido e frequente") e antiquior ; l'anteriorità al
presente è dunque requisito della "classicità"[8].
Noi vorremmo che tutti potessero conoscere i classici attraverso una scuola
che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità.
Il greco e il latino infatti, tanto come lingue quanto come culture, sono utili
non solo a scuola, e il loro impiego non è confinato nei licei e nella
Accademie.
Si può pensare a una sceneggiatura cinematografica, o alla redazione di un
articolo di giornale, o a una recensione, a una diagnosi, a una prognosi medica,
a qualunque attività insomma che richieda un impiego non banale, non volgare
della parola: la civiltà classica dota chi la conosce di una miniera di topoi,
frasi, metafore, immagini, idèe preziose che valorizzano il tessuto verbale e
allargano la visione d’insieme fino a renderla panoramica.
I topoi o loci sono argomenti utilizzabili in molte occorrenze e
necessità Nel De inventione[9]
il giovane Cicerone aveva definito i loci communes: "argumenta quae
transferri in multas causas possunt" (2, 48), argomenti che si possono
utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare e dello scrivere.
Sul vocabolo argumentum aggiungo una riflessione di Bettini:"Argumentum
è qualcosa che realizza il processo dell'arguere, produce quella
rivelazione che il verbo implica…Una buona via per scendere più in profondità
nel significato di queste parole è costituita dagli usi dell'aggettivo
argutus che ad arguo è ugualmente correlato. In molti casi infatti
l'aggettivo argutus indica ciò che va a colpire i sensi con particolare
forza[10]
(…) Parole come arguo, argumentum, argutus, non possono che ricollegarsi
a una forma *argus che significa "chiarità" o "chiarezza". Si tratta
infatti della stessa radice *arg- che ritroviamo nel greco
ajrgov" "chiaro, brillante" e
nell'ittita hargi " chiaro, bianco". In latino, da questa stessa radice
derivano anche argentum (metallo brillante) argilla "("terra
bianca")"[11].
Quindi argumentari latino e argomentare italiano, discutere portando
argomenti a sostegno.
Possiamo anche ricordare il verbo inglese to argue, “discutere” e
“provare”.
I tovpoi costituiscono le essenze
non solo della retorica ma anche della letteratura e dell'arte in genere.
I tovpoi sono argumenta che,
ricorrendo nella cultura europea, ne rivelano l'unità.
Io intendo e impiego i topoi come idee, frasi, versi belli e pieni di
forza, tanto estetica quanto etica, comunque una forza rivelatrice.
I ragazzi provano interesse e gioia nel sentire parole belle e vere, insomma
parole che sono tasselli di opere d’arte:" l'arte è il fatto più reale, la più
austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale"[12].
Perfino i criminali provano gioia per le parole belle, finanche gli animali.
Erodoto racconta di un grandissimo prodigio (qw`ma
mevgiston[13])
capitato ad Arione, il primo fra gli uomini che compose un ditirambo, gli diede
il nome e lo fece rappresentare a Corinto, al tempo del tiranno Periandro.
Questo poeta dunque viaggiava su una nave corinzia per tornare da Taranto a
Corinto. Ma i marinai in alto mare complottarono per gettarlo in acqua e
prendersi le sue ricchezze. Arione li pregò di non ammazzarlo almeno, ma quei
farabutti gli concessero solo di uccidersi da solo, saltando in mare se voleva.
Allora Arione chiese di poter cantare stando in piedi tra i banchi della nave
jen
th`/ skeuh`/ pavsh/ , con tutta la
sua acconciatura, promettendo che dopo il canto si sarebbe ucciso.
Allora quelli si sentirono invadere da senso di gioia (kai;
toi'si ejselqei'n hJdonhvn[14])
al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, e si
ritirarono, dalla prua, verso il centro della nave. Arione, indossato tutto il
suo abbigliamento, ritto tra i banchi, eseguì il canto nel tono elevato (novmon
to;n o[[rqion), quindi si gettò in mare, vestito com’era. A questo punto
intervenne un delfino che, evidentemente affascinato anch’esso dal canto del
poeta, lo prese sopra di sé e lo portò fino a capo Tenaro (to;n
delfi``na levgousi uJpolabovnta ejxenei`kai ejpi; Taivnaron) .
Orfeo con il suo canto riusciva a commuovere addiritture le tenui ombre dei
morti e le loro dimore, le Eumenidi, e Cerbero, e a fermare la ruota di Issione[15].
Tale è l’incanto delle parole, in questi casi accompagnate dalla musica, ma non
dimentichiamo che la civiltà dei Greci e dei Latini è logocentrica e, nel
rapporto tra parola e musica, questa è ancilla verbi.
Quindi, tornando a noi, credo che ricordare le sentenze belle degli auctores,
e citarne brani delle opere mostrandone la carne viva, significhi imparare a
esprimersi trovando e riconoscendo qualche cosa di bello in noi stessi.
Questo per quanto riguarda il campo dell’efficacia e della bellezza.
Ma c’è pure, e forse anche prima, la categoria dell’etica.
Non si può essere del tutto morali se non si conoscono a fondo i princìpi e i
valori dell’etica classica. Questa non penalizza la felicità, che anzi deve
essere associata alla moralità.
Essere felici secondo
Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas :"gli uomini
imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire ancor
meglio quando sono felici (o{tan
eujdaimonw'si)"[16].
C’è una interdipendenza tra etica e felicità: " sostengo che non vi è profonda
felicità senza morale profonda"[17].
Felicità è anche coscienza di sé, realizzazione e compimento della propria
natura, identità di potenza e atto. Per ottenere tali risultati è necessario
comprendere a fondo che cosa essenzialmente siamo.
Per autorizzare questa mia convinzione, utilizzo Eraclito che scrive: “ho
indagato me stesso”[18],
e pure Sofocle i cui personaggi affrontano ogni difficoltà e qualunque rischio
per sapere chi sono, quindi per non smentire la propria identità. Il “conosci
te stesso”[19]
scritto sul tempio di Delfi e il “diventa quello che sei” di Pindaro[20]
esprimono il medesimo pensiero.
Oggi, in questo guazzabuglio di idiomi mal conosciuti e parlati male, si rischia
di perdere l’dentità, linguistica e umana, di non sapere più parlare bene
nemmeno una sola lingua, e, quello che è peggio, di non sapere più chi siamo.
Le due lingue classiche con le loro letterature, ci danno un ancoraggio sicuro,
al riparo dal fluttuare nella indeterminatezza amorfa o deforme del parlare di
uso comune, una chiacchiera, spesso uno sproloquio, che riflette una scarsa
aderenza persino alle realtà più evidenti.
E’ necessario salire di qualche gradino per uscire dal pantano della parola
incolore, o addirittura insensata, del luogo comune trito che molti usano per
nascondere la propria ignoranza, mentre invece la rivela, e denuncia la
pochezza mentale di chi rumina il sentito dire senza sottoporlo a giudizio
critico.
Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca:"nulla res nos maioribus
malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1,
3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il
"si dice".
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si può leggere Seneca:
“La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca,
ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria
epoca sia la più rozza forma di immoralità”[21].
La conoscenza della paideia classica è anche una difesa dal veleno della
pubblicità che cerca di colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
Un altro antidoto a tanto veleno può essere la natura: osservare il cielo
splendente, guardare le sorgenti dei fiumi, notare l’innumerevole sorriso delle
onde marine e amare terra madre di tutti noi[22].
.
I miti sono quasi sempre racconti sulle origini e spesso danno forma, per dirla
con Nietzsche a “un’immagine concentrata del mondo”[23],
un’immagine che può essere spiegata e attualizzata fino a darci chiarimenti su
eventi cui assistiamo o partecipiamo ogni giorno.
A proposito della pubblicità, il più effimero e fastidioso degli eventi, la
prima réclame scritta è quella di inviata da Aconzio a Cidippe.
Bettini afferma che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[24].
Il giovane Aconzio obbligò Cidippe a sposarlo scrivendo delle parole e facendole
leggere alla ragazza che era sul punto di maritarsi con un altro.
"La scrittura di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo
per sottrarsi alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile?"[25].
Nella festa di Apollo a Delo, Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e
la vincola a sé gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per Artemide:
io sposerò Aconzio”.
Questo racconto si trova negli Aitia di Callimaco. Febo rivelò a Ceuce,
il padre di Cidippe che la ragazza in procinto di sposare il fidanzato si
ammalava a morte poiché un giuramento grave (baru;~
o{rko~, Aitia fr. 75 Pf., v. 22) impediva le nozze alla fanciulla
la quale fu sentita da Artemide in visita a Delo quando giurò che avrebbe avuto
come sposo Aconzio e non altri (
jAkovntion oJppovte sh; pai`~-w[mosen, oujk a[llon, numfivon ejxemevnai[26]
(vv. 26-27).
La storia è narrata anche da Ovidio nelle Heroides. Aconzio scrive a
Cidippe e le ricorda “volubile malum-verba ferens doctis insidiosa notis”
(211-212), la mela che rotolava portando parole insidiose in formule dotte.
Queste furono lette nella sacra presenza di Diana e la fides di Cidippe
ne rimase vincta.
Cidippe risponde ad Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una
nave, ipsa velut navis iactor (v. 43), veneficiis tuis (54) per le
tue parole avvelenate. Ricorda che navigava verso Delo impaziente di arrivare.
Aconzio ne vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile preda: “visaque
simplicitas est mea posse capi” (v. 106). Le venne gettata davanti ai piedi
una mela con quei versi che Cidippe non vuole ripetere “mittitur ante pedes
malum cum carmine tali ” (v. 109). La nutrice raccolse l’ingannevole
frutto e lo fece leggere alla ragazza: “insidias legi, magne poeta,
tuas” (112). Aconzio non deve essere fiero di avere preso con ‘inganno una
fanciulla poco esperta : “ sumque parum prudens capta puella dolis”
(v. 124). E’ stata ingannata come Atalanta da Ippòmene. Aconzio avrebbe dovuto
convincerla more bonis solito (v. 129), come fanno i galantuomini, non
ingannarla costringendola a proferire sine pectore vocem (143), una voce
senza anima. Ora, invece della fiaccola di nozze c’è quella di morte: “et
face pro thalami fax mihi mortis adest” (v. 174). “mirabar quare tibi
nomen Acontius esset” (v. 211), mi domandavo con stupore perché ti chiamassi
Aconzio , ora lo so[27]:
“quod faciat longe vulnus, acumen habes” (v. 212), hai una punta che
provoca ferite anche da lontano. La ragazza ferita sta morendo: “concidimus
macie, color est sine sanguine, qualem/in pomo refero mente fuisse tuo” (vv.
217-218), sono estenuata dalla magrezza, il colore è senza sangue, quale, come
ricordo, era il tuo pomo.
Ecco dunque pronto un antidoto non banale al tossico pubblicitario, alle “parole
avvelenate” della pubblicità malefica.
Le voci di questi auctores, veri e propri accrescitori della nostra
anima, della nostra capacità di intendere il mondo, conservano la loro eco
attraverso i secoli e tutta la letteratura europea forma un corpo, del quale,
come scrisse T. S, Eliot, il latino e il greco sono il sangue.
"Il latino e il greco[28]
costituiscono la corrente sanguigna della letteratura europea: e come un solo,
non già due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che
possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia"[29].
Il fatto è che se non saliamo sulle spalle dei giganti che abbiamo nel sangue e
ci lasciamo confondere dal frastuono ignorandoli, rimane assai limitata la
nostra visione, non solo quella esterna del mondo, ma anche quella interiore,
di noi stessi.
A questo proposito ricordo un aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo)
attribuisce a Bernardo di Chartres[30]:"Dicebat
Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut
possimus plura eis et remotiora videre, non utĭque proprii visus acumine, aut
eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine
gigantēa" (Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres che noi
siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che
possiamo vedere più cose di loro e più lontane, senza dubbio non per l'acume
della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati in alto ed
elevati da quella grandezza gigantesca.
Del resto la coscienza di non dire nulla di completamente nuovo si trova già negli autori antichi: Eschilo[31] diceva che le sue tragedie erano fette del grande banchetto omerico (Aijscuvlo" … o}" ta;" auJtou' tragw/diva" temavch ei\nai e[legen tw'n JOmhvrou megavlwn deivpnwn"[32]); e Callimaco[33] afferma: "ajmavrturon oujde;n ajeivdw"[34], non canto nulla che non sia testimoniato.
Un grave difetto, un’altra carenza capitale è quella della conoscenza della
storia.
L’ignoranza del passato è una limitazione mentale che impedisce di progettare il
futuro
Lo afferma Cicerone nell'Orator
[35]: "Nescire
autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim
est aetas hominis, nisi eă memoriā rerum veterum cum superiorum aetate
contexitur?" (120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu
sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un
uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la
memoria storica?
Restare bambini, dal punto di vista
del pensiero, non è cosa buona.
Leopardi
trova che nella sua età prevalgano queste “creature”, giovani e anziane,
infantilmente insensate[37]:
"Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che
rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che
camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in
ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto
da ragazzi, senza altre fatiche preparatorie"[38].
La Memoria è
madre delle Muse e la perdita della Memoria significa anche la rinuncia alla
bellezza e alla poesia. Del resto la poesia è a sua volta madre della storia.
La "La
storia romana si cominciò a scrivere da' poeti", afferma Giambattista Vico[39].
Si dice che
oggi la scuola è decaduta rispetto a quella selettiva del buon tempo antico. In
parte è vero. Ma, come sempre, c'è un rovescio della medaglia, c'è una
possibilità di sostenere il contrario, secondo una logica aperta al contrasto
che divenne metodica con i Dissoì lògoi
[40] i
“Discorsi in contrasto”, presenti pure nelle Antilogie perdute di
Protagora[41]
il quale "fu il primo a sostenere che intorno ad ogni argomento ci sono due
asserzioni contrapposte tra loro" come ricorda Diogene Laerzio[42].
Con alcune
ragioni si può sostenere che la scuola è peggiorata, ma con altre che è
diventata migliore.
Il bello
della scuola dei miei tempi era che lo studente arrivato alla laurea trovava il
lavoro, subito, o quasi subito, ed era un impiego a tempo indeterminato.
Il brutto di
quella scuola era che imponeva uno studio mnemonico, generalmente acritico e
dogmatico di alcuni aspetti delle materie, talora nemmeno i più rilevanti.
Il greco e
il latino, erano in massima parte studiati su grammatiche e sintassi, in minima
sugli autori dei quali si imparavano a memoria le vite e le opere attraverso dei
manuali privi anche di brani antologizzati. La storia sembrava fatta solo dalle
battaglie dei grandi condottieri. Le lingue europèe si studiavano poco e male.
Ora i giovani hanno maggiori opportunità e vie per informarsi.
L'attuale
formazione dell'Europa che porta con sé non pochi sconvolgimenti da una parte,
dall'altra può indurci a prendere coscienza di appartenere a una civiltà nobile
e antica, di sentire "il benessere dell'albero per le sue radici, la felicità di
non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come
eredi, fiori e frutti, e di venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella
propria esistenza. E' questo ciò che oggi si designa di preferenza come il vero
e proprio senso storico"[43].
Togliere il
latino e il greco dalla scuola significa, a parer mio, disanimarla.
Vero è che
in troppe scuole, da parte di tanti professori, le lingue classiche sono state
insegnate male, e chi lo faceva bene, ossia mostrando l'albero ramificato della
cultura europea cresciuto sulle radici e il tronco del greco e del latino, è
stato magari molto amato e seguito dai ragazzi, ma spesso poco capito e
benvoluto, talora addirittura ostacolato da colleghi e da presidi. Ne scrivo per
esperienza.
Facevo
del comparativismo quando non era ancora di moda: il preside Magnani del liceo
Galvani chiamò in tre anni due ispezioni contro di me. Per fortuna gli ispettori
ministeriali, Adelelmo Campana e Antonio Portolano, erano più aggiornati e
preparati di lui e sbugiardarono quel burocrate ottuso, messo su da colleghi
ottusi. Questo in corsivo si può togliere se non dà lumi
Il difetto
dell'insegnamento tradizionale, quello impartito a noi che frequentavamo i licei
classici nei primi anni Sessanta, era che riduceva il classico a una serie di
tecnicismi. Non dico che la morfologia e la sintassi non siano necessarie, ma ho
sempre sostenuto che devono essere i primi gradini, non i punti d'arrivo.
"Pascoli,
invitato a stendere una relazione sulle cause dello scarso rendimento degli
alunni agli esami di licenza liceale, così si esprimeva:"Si legge poco, e poco
genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la
metrica, la linguistica…Anche nei licei, in qualche liceo, per lo meno, la
grammatica si stende come un'ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li
aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio,
Livio, Tacito! de' quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio
grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio"[44].
I testi degli ottimi autori greci e latini inducono a pensare e non possono
essere ridotti a raccolte di formule o di ricette:“ ‘Qua leggiamo Omero’
riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse un libro di cucina.
Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino
alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono: vedete come il poeta ha
saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il mistero della creazione
poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto per farceli ingoiare
senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto Omero’ ”[45]
La
grammatica serve a leggere i testi, la metrica aiuta a memorizzarli.
Io credo le
cosiddette regole grammaticali e sintattiche andrebbero mostrate attraverso i
testi più belli degli autori più bravi, siccome la bellezza e la bravura
colpiscono la sfera emotiva e questa potenzia la memoria favorendo il ricordo.
Del resto le regole non possono essere date all'ingrosso: "Qualcuno, chissà chi,
v'ha scritto perfino una grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci
vorrebbe la data e la regione dove si diceva così"[46].
Ricordo
che nella primavera del 1959, quando facevo la quarta ginnasio al Terenzio
Mamiani di Pesaro, venne in classe il preside e mi domandò, con aria severa,
come si dicesse fato in latino. Voleva sapere, disse, se meritavo il nove che
aveva appena letto nella mia pagella.
Risposi
"fatus". "Bugiardo! gridò quel brav'uomo, rosso in volto. Poi disse che
l'avevo deluso, che con la mia colossale ignoranza l'avevo ferito, e
profondamente, dato che con i miei voti avrei dovuto sapere che si dice fatum,
fatum, assolutamente fatum. Ci restai molto male, pensando di avere fatto un
errore gravissimo, del tutto indegno di me e del mio curriculum. In effetti se
fossi stato più bravo, avrei replicato che nel Satyricon si trova fatus[47].
Anche questo corsivo si può togliere se dà fastidio
Il fatto che il greco e il latino siano stati insegnati male per decenni, da
troppi docenti, e digeriti male da molti studenti, non deve portarci alla
conclusione che il loro studio vada abolito. Va piuttosto riformato e
approfondito.
Il latino e, attraverso la mediazione del latino, il greco, sono largamente
presenti nel linguaggio e nel pensiero scientifico, del diritto, della
medicina, delle letterature nell’Europa moderna sia neolatina sia germanica,
dalla Gran Bretagna alla Svezia, sia slava, e pure nella zona ugrofinnica,
dall’Ungheria-Pannonia alla Finlandia.
Le lingue classiche hanno contribuito a formare gli idiomi dell’Europa di oggi.
In Grecia il moderno demotico non sarebbe nato senza la continuità col greco
colto antico e medievale. Una lingua germanica come l’inglese è al 75% del suo
vocabolario latina e neolatina. In Italia il prevalere del fiorentino antico
sugli altri dialetti è stato in gran parte determinato dalla sua prossimità al
latino.
Come l’inglese, l’italiano è poco chiaro per chi lo usa senza la capacità di
muoversi nel retroterra classico.
Sul tradurre
Cicerone afferma che nel tradurre non è opportuno attenersi alla lettera, ma si
deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo
necesse erit, ut interpretes indiserti solent ” (De finibus bonorum et
malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca parola per
parola, come sono soliti i traduttori stentati.
In un passo degli Academica, l’Arpinate afferma che i poeti arcaici,
Ennio, Pacuvio, Accio, e molti altri, piacciono “qui non verba, sed vim
Graecorum expresserunt poetarum” (III, 10), poiché resero non le parole ma
la forza dei poeti greci.
Io mi trovo d’accordo piuttosto con Leopardi.
Leggiamo qualche riga dello Zibaldone sulla traduzione perfetta: “La
perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia
p. e. greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in
tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è
ciò che non in tutte le lingue è possibile” ( 2134).
La lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua,
laddove la francese è unica” ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di
adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà
della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della
greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche
identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia,
avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette
lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale
somiglianza e affinità di natura e di carattere” ( 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco,
era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva
la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica,
la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non
aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere
lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni
di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[48].
Ma sentiamo direttamente di nuovo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio
della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato
di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo
in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone.
Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole
che compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di
Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di
Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone,
2717)
Come si devono insegnare le lingue
Se devo dire parole mie, credo che le lingue si debbano insegnare attraverso gli
autori, partendo da quelli che scrivono con chiarezza e bellezza.
Posso fare degli esempi di testi belli, chiari e funzionali all’apprendimento
del greco e del latino: il Nuovo Testamento, o, per stare nei classici,
le Troiane di Euripide o l’Edipo re di Sofocle, i carmi del
Liber di Catullo o l’Eneide di Virgilio tra i latini. Per quanto
riguarda la prosa, indicherei le orazioni di Lisia, o di Isocrate per i Greci;
Sallustio, o Seneca, o, perché no[49],
Petronio per i latini.
Una grammatica di base è necessaria, per carità, ma non deve essere il punto
d’arrivo, bensì solo il primo gradino.
Il fatto è
che talora i tecnicismi sono stati impiegati da insegnanti spiritualmente
distorti in maniera mortificante, come " una misura di polizia per rintuzzare le
intelligenze "[50].
Riporto un
messaggio mandatomi da una mia allieva, un'alunna di trent'anni fa .
"Ciao, ho
letto il tuo pezzo sul lavoro .. e la perdita del lavoro... e di Odisseo che
viaggia viaggia ma brama il ritorno a Itaca, approdo desiderato e sicuro. Dopo
tanti discorsi sul lavoro un po' rituali e un po' troppo ascoltati, un'immagine
chiara ....del desiderio di movimento, di attività, di pensiero, di sogno .. ma
alla fine di approdo sicuro.
Cati
(ex IV F ginnasio del Liceo Minghetti che spesso ricorda le tue lezioni e la montagna di libri che ci facevi leggere in un'età dove di solito si leggono solo manualetti di grammatica e letteratura)".
(ex IV F ginnasio del Liceo Minghetti che spesso ricorda le tue lezioni e la montagna di libri che ci facevi leggere in un'età dove di solito si leggono solo manualetti di grammatica e letteratura)".
Di nuovo
Pascoli: "I più volenterosi si svogliano, si annoiano, s'intorpidiscono…;…e i
grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del
loro divino sorriso"[51].
"Lo studio
del greco e del latino si caratterizza soprattutto come uno studio linguistico
di impronta grammaticale chiuso in se stesso e funzionale solo in minima parte
alla lettura dei testi. In queste condizioni la realtà difficilmente può
ripagare gli studenti degli sforzi fatti"[52].
Ho insegnato
per 2 anni nel liceo di Imola (uno al biennio uno al triennio) e per cinque al
Minghetti (due nel biennio, tre nel triennio), poi per 28 anni al Galvani:
dall'82 al 91 nel ginnasio; dal 92 al 2010 nel liceo. Dal 2000 ho avuto il
semiesonero dopo avevo vinto un concorso.
Per 10 anni
ho insegnato didattica della letteratura greca, a contratto, nella SSIS. Traggo
alcune di queste considerazioni dalla metodologia che ho elaborato in tutto
questo tempo, leggendo, imparando e insegnando. Insomma ho utilizzato "una lunga
esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique"[53].
Ebbene, già
insegnando al ginnasio, avvicinavo i ragazzini ai testi belli fin dalla quinta.
Un anno di pura morfologia bastava. E d'altra parte, già trattando questa, davo
grande spazio allo studio e all'apprendimento del lessico. Con il senno di
adesso direi che sarebbe forse ancora meglio partire dal lessico: mostrare in un
testo non difficile i vocaboli greci imparentati etimologicamente e somiglianti
con parole italiane, o latine, o inglesi, o tedesche.
Nel secondo
anno si potevano confrontare le regole della grammatica con testi come l'
Edipo re. o le Troiane, l'Eneide o il Vangelo. Gli
allievi portati per le lingue classiche, con questo metodo, studiavano
volentieri; i refrattari meno malvolentieri che se mi fossi fermato ai
tecnicismi delle due lingue.
Anche il nostro aspetto influisce sull’attenzione dei ragazzi.
Il maestro caratterizzato dalla ajmorfiva
desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel
giovane discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi
educatori della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano:"aijboi',
ponhroiv g'
oi\\da. tou;" ajlazovna"-tou;" wjcriw'nta"
tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei
furfanti, ho capito. Tu dici quei ciarlatani, quelle facce pallide, gli
scalzi.
Voglio dire che il greco e il latino vanno collegati non solo alla successiva
letteratura europea ma anche alla vita. E che noi docenti dobbiamo avere cura
anche del nostro aspetto.
Torno al tradurre e concludo.
Credo che tradurre gli ottimi auctores, i nostri accrescitori, sia un
modo, un ottimo modo per incrementare la nostra capacità linguistica, la nostra
facoltà estetica di intendere il bello e pure il nostro senso etico. Il bello e
il bene infatti sono congiunti nella
kalokajgaqiva.
Bisogna insegnare il significato di molti vocaboli partendo dagli autori
Un buon metodo mi sembra questo: si prende un autore non difficile, si traducono
alcune frasi, poi si mostrano le ricadute nel latino, nell’italiano, e magari
nell’inglese e nel tedesco del maggior numero possibile di parole.
Nell’insegnare le parole bisogna dare la precedenza a quelle da significato più
vasto e dalle occorrenze più frequenti.
Bibliografia
Vittorio
Alfieri, Vita, Mondadori, Milano, 1987
M.
Bettini, Con i libri , Einaudi, Torino, 1998.
M.
Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi, Torino, 2000.Pietro Citati,
Leopardi, Mondatori, Milano, 2010.
F.
Dostoevskij, I fratelli Karamazov , trad. it. Bietti, Milano, 1968.
T. S. Eliot, Opere , trad. it. Bompiani,
Milano, 1986.
H. Hesse,
Sotto la ruota, trad. it. Mondadori, Milano, 1997.
Italie. Lezioni sulla storia dell’Italia unita, Edizioni Polistampa, Regione
Toscana, 2013.
A.
Giordano Rampioni, Manuale per l'insegnamento del latino nella scuola del 2000.
Dalla didattica alla didassi, Pàtron, Bologna, 1999.
S.
Kierkegaard, Diario del seduttore, Rizzoli, Milano, 1055
S.
Mazzarino, Il pensiero storico classico , Laterza, Bari, 1974.R. Musil,
L'uomo senza qualità, trad. it. Einaudi, Torino, 1972.
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Nietzsche, La nascita della tragedia , trad. it. Adelphi, Milano, 1977.
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Nietzsche, Considerazioni Inattuali , trad. it. Einaudi, Torino, 1981.
C.
Pavese, Il mestiere di vivere , Mondadori, Milano, 1968.
M.
Proust, Il tempo ritrovato, trad. it. Einaudi, 1978.
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa , Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, 1978.
S. Settis, Futuro del 'classico', Einaudi, Torino, 2004.
O.
Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, trad. it. Rizzoli, Milano, 1975
Giovanni Ghiselli
[1] A. Schopenhauer,
Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.
[2] Il
greco e il latino, la religione e la matematica “Erano-e l’insegnante lo
faceva notare spesso-del tutto inutili apparentemente ai fini degli
studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano
importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali,
perché sviluppano la facoltà di ragionare e costituiscono la base di
ogni pensiero chiaro, sobrio ed efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota
(del 1906), p. 24.
[3]
Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803)
racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776-1777
traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e
limato…certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua
latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3).
[4]Lettera a una
professoressa , p. 95.
[5] II, 123-124. Bello
non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le
dee del mare.
[6] 3
giugno (p. 75).
[7] Tullio
De Mauro, La scuola italiana in sette punti in Italia, Italie. Lezioni
sulla storia dell’Italia unita, p. 125. Edizioni Polistampa, Regione
Toscana, 2013
[8] S.
Settis, Futuro del "classico", p. 66.
[9]
Trattato in due libri, dell'84 a. C.
[10]
Cfr. Thesaurus linguae latinae, II, 557, 48 sgg,
[11] M.
Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 297 e p. 299.
[12] M.
Proust, Il tempo ritrovato (uscito postumo nel 1927), p. 211.
[13]
Erodoto, Storie I, 23.
[14] I,
24, 5.
[15] Cfr.
Virgilio, Georgica IV, vv. 472-484
[16]
Strabone (64 ca a. C.-24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.
[17]R.
Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[18]
ejdizhsavmhn ejmewutovn",
fr126 Diano
[19]
Gnw`qi seautovn.
[20]
gevnoio oi|o~ ejssiv"
Pitica II v. 72.
[21] Il
ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[22] Cfr.
Eschilo, Prometeo incatenato, vv-88-90
[23] La
nascita della tragedia, cap.22.
[24] Con i libri ,
p. 9.
[25] M. Bettini, op.
cit., p. 10.
[26]
Infinito futuro epico di e[cw.
[27]
ajkovntion significa dardo
[28] Io metterei prima il
greco.
[29] Che cos’è un
classico? In T. S. Eliot, Opere, p. 975.
[30]
Filosofo scolastico francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su
Porfirio.
[31] 525-455 a. C.
[32] Ateneo (II-III sec.
d. C.) I Deipnosofisti, VIII, 39.
[33]305 ca-240ca a. C.
[34] Fr. 612 Pfeiffer.
[35] Del 46 a. C.
[36]Il
mestiere di vivere , 24 dicembre 1937.
[37]Al
capitolo 58 ricorderemo l'attardato bambino pargoleggiante dell’età
d’argento di Esiodo.
[38]
Dialogo di Tristano e di un amico (1832). E’ una delle
Operette morali delle quali l’autore scrive:"Così a scuotere la mia
povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del
ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone
, 1394) . Al capitolo 66 citerò altre parole di Tristano all’amico.
[39]
La Scienza Nuova Pruove filologiche, III.
[40] " Un
testo che può definirsi la formulazione "relativistica" del pensiero dei
sofisti…Gli "agoni di discorsi" tucididei echeggiano questa
problematica, pur a mezzo secolo di distanza dai Dissoì lògoi…
uno scritto sofistico redatto verso il 450 o al più tardi 440" (S.
Mazzarino, Il pensiero storico classico, 1 pp. 258 ss.).
[41] Nato
nella ionica Abdera intorno al 485 a. C., all'incirca coetaneo di
Euripide dunque.
[42]
Vite dei filosofi IX, 51
[43] F.
Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in
Considerazioni inattuali II, cap. 3..
[44] A.
Giordano Rampioni, op. cit., p. 49.
[45]
H. Hesse, Sotto la ruota,
del 1906, p. 90.
[46]
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 116.
[47] Dopo
avere mostrato qualche trovata stupefacente, Trimalchione affranca i
servi e nomina erede Fortunata. Gli schiavi sono uomini, proclama
l'anfitrione rimasticando dottrine stoiche:"et servi homines sunt et
aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit.
tamen me salvo cito aquam liberam gustabunt. ad summam, omnes illos in
testamento meo manu mitto " (71), pure gli schiavi sono esseri umani
e hanno bevuto lo stesso latte, anche se un destino cattivo li ha
schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno l'acqua
libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento. Si noti fatus
invece di fatum. Non è l'unico caso del genere: troviamo
balneus (41) per il neutro balneum, bagno, vinus (12)
per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus
(47, 5) per lasanum, vaso da notte, e altri ancora
[48] P.
Citati, Leopardi, p.58.
[49] Negli
anni Ottanta il mio utilizzo a scuola del Satyricon era
considerata empio o almeno eversivo da certi colleghi, poi un brano di
questo capolavoro venne dato da tradurre a un esame di maturità (1987),
e gli incauti detrattori dovettero tacere, pur mugugnando
[50] Sono parole dello
studente Kolia in I fratelli Karamazov (p. 661) . Questo romanzo
è l'ultimo di Dostoevskij (1821-1881).
[51] G.
Pascoli, Prose, vol. I, Milano 1956 (2 ed.), p. 592. Da un rapporto al
Ministro della Pubblica Istruzione del 1893.
[52] R.
Palmisciano, Per una riformulazione del curriculum di letteratura
greca e latina nel ginnasio e nei licei, “AION” Phil. 2004,.,
p. 254.
[53] N. Machiavelli, Il
Principe (del 1513), Dedica al Magnifico Lorenzo De' Medici.
Il senso della storia e delle radici costruisce le identità ,proietta nel futuro .Conoscere le lingue classiche aiuta a non confondere il presente con l'eternità. Mi pare ovvio che un potere non autorizzato dal popolo assottigli il vocabolario....nel libro 1984 il grande fratello prepone un operaio a cancellare le parole per distruggere la coscienza di massa. Senza termini precisi non potremo descrivere noi stessi e ci perderemo.Giovanna Tocco
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