Scuola antica |
Lessi un’altra scritta: Caron, poi riconobbi le mura merlate
e illuminate. “Ecco la città di Dite - pensai - con le sue meschite vermiglie”[1]
Quindi entrai nel borgo e domandai da che parte fosse
Carmignano di Brenta. “Verso Vicenza per sei chilometri” mi disse
l’interpellato con una voce che sapeva di mosto.
Mi avviai di nuovo nel buio e nel traffico del dopo lavoro. Passai
il ponte sul Brenta. Finalmente vidi il cartello con il nome lungo. Cercai l’omen portato da quel nome. Tutto
l’effimero infatti è solo un simbolo.
Mi venne in mente il
nome lungo di Hajdúszoboszló il paese alle porte di Debrecen dove a ventun anni
avevo trovato nuovi motivi di vita. “Ce ne saranno altri anche qui. Devi
individuarli”, mi dissi. Entrai nel paese. Era buio. Percorsi una strada rettilinea,
fiancheggiata da poche case scure. In fondo c’era una piazza in gran parte
occupata da una chiesa enorme con la scritta VENITE ADOREMUS stampata sul
frontone a lettere gigantesche.
“Sono venuto-pensai-e vedrò di adorare il mio lavoro, o per
lo meno di farlo con impegno grande e serio”.
Non si vedeva anima
viva. “Saranno tutti in chiesa”, pensai.
Nella piazza confluivano altre due vie. Pensai al trivio di
Edipo. Imboccai la strada grande.
Dopo cento metri vidi un edificio piuttosto piccolo con la
scritta Scuola Media. Riuscii a leggerla perché sul lato opposto c’era un
fabbricato con molte lettere luminose: Albergo Bar Ristorante Centrale. Pensai
alla scritta dell’Aranybika di Debrecen. Cercavo tali analogie per farmi
coraggio, siccome avevo paura di essere finito in un posto tremendo al quale
non mi sarei adattato. Quando arrivai a Debrecen nel ’66 avevo avuto la stessa
sensazione: un’apprensione che dati gli esiti debrecini era un buon segno. Entrai
nel bar sottostante la scritta come ero entrato nell’hotel Aranybika l’estate
di tre anni prima. Il locale era fumoso e pieno di uomini che parlavano ad alta
voce una lingua del resto dal suono dolce, e sempre odorosa di mosto. Al
barista chiesi se avessero una stanza singola per una notte. Rispose che gli
dispiaceva, ma erano tutte occupate. Lo guardai con aria interrogativa che
voleva significare: “e adesso come faccio? Dove vado?”
Allora l’uomo del bar per sua umanità rispose al cenno muto,
forse implorante degli occhi, e mi suggerì di andare a Cittadella, non lontano,
dove c’era un albergo grande, quasi un grattacielo, non potevo sbagliarmi: era
sulla strada, a sinistra, poco prima delle mura: il Motel Palace dove quasi
sicuramente avrei trovato da pernottare.
Ripartire da Carmignano non mi dispiacque. Rifeci gli ultimi
chilometri in senso contrario. Non c’era più tanto traffico. Pensai di nuovo
alla sera del mio arrivo a Debrecen nel luglio del ‘66. Allora era iniziata una
vita nuova: meno egoista, meschina, cupa e solitaria della precedente. “Coraggio”,
mi dissi, “comincia un altro ciclo triennale positivo. Rebus cunctis inest quidam velut orbis[2]. Quando si ha del
carattere, ci si ripete, eppure ci si rinnova”
Il Motel Palace era grande, pulito, confortevole. Il
portiere era gentile, il prezzo ragionevole, abbordabile anche dal mio
stipendio di 118 mila lire al mese. Ebbi la camera 64 del sesto piano. Pensavo
che ci sarei rimasto poche notti. E non perché volessi prendere alloggio
nell’albergo ristorante Centrale piazzato davanti alla scuola media Ugo Foscolo
di Carmignano di Brenta, ma in quanto speravo che presto, assai presto, mi
sarebbe arrivata una nomina a tempo indeterminato anche da Bologna dove volevo tornare
di corsa. Quell’anno chi voleva insegnare aveva potuto chiedere due province e
dalla preferita non avevo ancora ricevuto alcuna risposta. Credevo che mi
sarebbe arrivata da un giorno all’altro. Avevo bisogno di crederlo. Nella
totale solitudine di quella sera lontana non avrei sopportato senza sconforto
la prospettiva di passare quindici mesi in un motel e cinque anni della mia
vita a Carmignano di Brenta. Invece era questo il mio destino. E non era
cattivo. Comunque a poco a poco mi ci adattai e lo vissi abbastanza bene.
Era la parte che il regista della mia vita, di tutte le
vite, aveva assegnato a me e la recitai con dignità. I quindici mesi nel motel
veramente furono duri, tetri, spietati, ma riuscii a passarli decentemente
perché mi piacquero subito gli alunni e fin dal primo momento amai imparare per
aiutarli, mentre loro aiutavano me. Io li incoraggiavo a crescere umanamente e
nel farlo diventavo meno egoista, meno superficiale, meno sciocco di quanto ero
stato prima di lavorare con loro, per loro. Quei mesi di solitudine lunga e
penosa non annientarono né indebolirono le mie energie spirituali, anzi le
rafforzarono. I miei allievi bambini e adolescenti mi interessarono subito
molto. Per loro, per avere cose belle da raccontare agli scolari che mi stavano
a cuore, studiavo durante i pomeriggi, a volte anche di sera. Solo così mi
salvai dalla noia e dalla degradazione. Chiedevo anche aiuto ai colleghi
esperti che non me lo negarono. Qualcuno magari pensò che fossi un idiota a
impegnarmi e preoccuparmi tanto per insegnare italiano e storia a dei bambini. In
un certo senso lo ero: anche il principe Miskyn faceva così. Ancora non
conoscevo i romanzi di Dostoevskij ma già allora con ottimo istinto mi facevo
curare l’anima[3] dagli scolari.
Cominciai a bandire la tristezza appresa dai parenti queruli
perché mi resi conto che un maestro, per suscitare energie morali negli allievi,
deve avere fiducia nella vita e affrontarne con letizia anche le asperità. Scelsi
la nobile parte dell’educatore invece di quella triste e meschina
dell’impiegato di scuola. I primi mesi studiai molto per dare ai miei allievi
il più e il meglio possibile in cambio della loro attenzione.
giovanni ghiselli
Continua
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me.
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