Quello di Carmignano non era nemmeno cattivo, ma era un
pedante e un conformista cui ogni diversità dalla norma del suo ambiente
bigotto dava fastidio suscitandone l’intolleranza. Mi criticava dicendo che
studiavo troppo per volontà di fare bella figura, e non con il capo
dell’Istituto o con i colleghi più esperti di insegnamento, come sarebbe stato
giusto, bensì con la scolaresca, e magari pure con le giovani mamme e le
sorelle che venivano a informarsi su figli e fratellini.
Questo dopo tutto era vero, ma non era di certo un fatto
obbrobrioso né innaturale in un insegnante di venticinque anni che viveva solo
in una stanza d’albergo. Poi mi accusava di fare lezioni troppo elevate, di
usare termini inconsueti, difficili assai per dei ragazzi che conoscevano a
stento la lingua italiana. Questo lo diceva in dialetto e probabilmente a non
capire il mio idioma strano, quasi straniero, era lui. Ogni tanto entrava in
classe senza bussare e con un cappello rigido in testa. Qualche volta mi rinfacciava,
con tono a dire il vero quasi paterno, le “stravaganze” notate dal paese che,
diceva, “mormora, mormora sul conto suo professore e questo non mi piace per
niente”. Io dovevo guardarmi dalle chiacchiere.
Una volta risposi: “ho
capito, i constantes rumores tacitiani. Io non mi curo di
loro, ma guardo e passo”. Lui replicò: “Cossa vu to!”.
Mi suggeriva di leggere in classe i manuali e spiegarli, invece
di parlare “in modo ciceroniano”.
Per tutto il primo anno non gli diedi retta, e gli allievi
facendo il confronto tra le mie sudate lezioni e quelle di colleghi,
suscitarono il risentimento dei professori più stupidi e ignoranti. Il preside
alla fine dell’anno non mi diede l’ovvia qualifica di “ottimo”, ma il giudizio
politico di “valente” motivandolo con queste parole: “assume atteggiamenti che
non si confanno alla dignità della scuola”. Invero fui l’unico tra chi affrontò
la prova scritta dell’abilitazione per le medie superiori a passarla, e fui
pure l’unico a non meritarmi la qualifica di “ottimo” agli occhi di quel
dirigente. Il che mi fa onore, anche se sul momento quel giudizio iniquo mi
danneggiò facendomi perdere punti nella graduatoria.
La vicepreside Antonia Sommacal che sarebbe diventata la mia
amica più cara e mi avrebbe fatto da seconda mamma dopo avere compreso il mio
valore, la mia umanità, e avere superato la diffidenza iniziale per “il
comunista donnaiolo di Bologna”, disse che il dirigente si era particolarmente
irritato quando ebbe saputo delle mie passeggiate in bicicletta a Marostica con
gli scolari nel mese di maggio.
Lui diceva “sicologia” per psicologia, pronunciava “periòdo”
e “mannia”, e non si toglieva mai il cappello. Mi faceva anche un po’ di
tenerezza a dire il vero. Mi ha pure insegnato qualche cosa: per esempio che
dovevo smettere di parlare quando i bambini si mettevano a fare chiasso. Quando
è morto, una decina di anni fa, mi è dispiaciuto e ora lo ricordo con affetto,
tutto sommato.
Non credo che mi
volesse male, ma le regole dell’ambiente vedevano troppo di malocchio la
simpatia che, sia volendo sia anche senza volere, suscitavo negli allievi e
ancor più, probabilmente, nelle allieve. Alcuni sono ancora miei amici. Maschi
e femmine oramai sessantenni. Ne sono fiero e contento.
giovanni ghiselli
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