NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 28 maggio 2015

Lo studio della storia. Parte terza

Prometeo crea l'uomo assistito dagli altri dei
Sarcofago romano, III sec. d.C.

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La conoscenza dei fatti storici e di quelli letterari è indispensabile alla crescita della persona. Cicerone. C. Pavese. Leopardi e il “secolo di ragazzi”. Alcuni non diventano mai uomini: H. Hesse, Esopo: Prometeo e gli uomini. Il benessere dell'albero per le sue radici: la storia antiquaria di Nietzsche. Ancora T. S. Eliot: il senso storico, la maturità della mente, e la visione d’insieme di tutta la letteratura europea che ha un’esistenza simultanea. Tutti gli scrittori europei sono saliti sulle spalle di Omero poeta sovrano. L’aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo) attribuisce a Bernardo di Chartres. U. Eco: ogni parricidio elimina i padri ricorrendo ai nonni. L’Ulisse di Joyce uccide il romanzo dell’Ottocento e risale a Omero. Luperini: Insegnare la letteratura oggi: “il genere letterario costituisce il tramite naturale delle diverse esperienze nazionali”.

Non tutti i bambini diventano persone mature. Lo afferma Cicerone nell'Orator[1]: "Nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum. Quid enim est aetas hominis, nisi eă memoriā rerum veterum cum superiorum aetate contexitur?" (120), del resto non sapere che cosa sia accaduto prima che tu sia nato equivale ad essere sempre un ragazzo. Che cosa è infatti la vita di un uomo, se non la si allaccia con la vita di quelli venuti prima, attraverso la memoria storica?
Restare bambini, dal punto di vista del pensiero, non è cosa buona.
Lo fa notare C. Pavese: "C'è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini"[2].
Leopardi trova che nella sua età prevalgano queste “creature”, giovani e anziane, infantilmente insensate[3]: "Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, senza altre fatiche[4] preparatorie"[5].

In fondo ogni uomo è solo "un tentativo, un incamminato. Ma si deve essere incamminati verso la perfezione, in direzione del centro, non della periferia"[6]. Il centro è l'individuazione della propria humanitas, il riconoscimento dell'homo sum.
E’ difficile diventare uomini: “La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l'accenno di un sentiero. Nessun uomo è mai stato interamente lui stesso, eppure ognuno cerca di diventarlo, chi sordamente, chi luminosamente, secondo le possibilità… Certuni non diventano mai uomini, rimangono rane, lucertole, formiche. Taluno è uomo sopra e pesce sotto, ma ognuno è una rincorsa della natura verso l'uomo"[7].

“Ricordate di certo la favola di Esopo, quando Prometeo, su precisa indicazione di Zeus, plasma uomini e animali. Allorché Zeus si rende conto che gli animali sono molto più numerosi degli esseri umani, ordina a Prometeo di disfare un po’ di animali per trasformarli in uomini. E’ questo il motivo, afferma Esopo, per il quale gli esseri umani che non hanno ricevuto la loro forma umana sin dall’origine, si ritrovano con un corpo d’uomo e l’anima d’una bestia”[8].
Pro;~ a[ndra skaio;n kai; qhriwvdh oJ lovgo~ eu[kairo~[9], la favola è appropriata all’uomo rozzo e brutale

“Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante…solo per la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente, l'uomo diventa uomo"[10].
 "Il benessere dell'albero per le sue radici, la felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza - è questo ciò che oggi si designa di preferenza come il vero e proprio senso storico"[11]. E’ l’aspetto antiquario dell’amore per la storia.

“Maturità della mente: a questa occorre la storia e la consapevolezza della storia”[12].

Il senso storico e quello letterario di T. S. Eliot impongono una visione d’insieme: "with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of is own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order"[13], con la sensazione che tutta la letteratura europea da Omero, e, all'interno di essa, tutta la letteratura del proprio paese, ha un'esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo.

La presenza di Omero, particolarmente dell'Odissea, nella letteratura europea è continua. Il poema omerico rimane uno di quei grandi modelli archetipici che nessuna innovazione può ignorare. In effetti "ogni atto d'innovazione, e di contestazione dei padri, avviene sempre attraverso il ricorso a un antenato, riconosciuto migliore del padre che si tenta di uccidere, e a cui ci si rifà"[14]. Omero è uno di quei giganti sulle cui spalle sono saliti in tanti: "I poetae novi contestavano la tradizione latina rifacendosi ai lirici greci" continua Umberto Eco e procede citando un aforisma che Giovanni di Salysbury (XII secolo) attribuisce a Bernardo di Chartres[15]: "Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantum humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea" (Metalogicon III, 4), diceva Bernardo di Chartres che noi siamo come dei nani che stanno sulle spalle di giganti, in modo tale che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, comunque sia non per l'acume della nostra vista o la statura del corpo ma poiché siamo portati in alto ed elevati da quella grandezza gigantesca. Ogni parricidio ribadisce Eco "elimina i padri ricorrendo ai nonni… Picasso arriva a sfigurare il volto umano partendo da una meditazione sui modelli classici e rinascimentali, e ritorna infine a una rivisitazione di antichi minotauri… E infine, il grande parricidio compiuto sul corpo storico del romanzo, quello di Joyce, si instaura assumendo il modello della narrazione omerica. Anche il nuovissimo Ulisse naviga sulle spalle, o sull'albero maestro, dell'antico"[16].
Nel Sofista di Platone lo straniero di Elea chiede a Teeteto di non credere che sia diventato quasi un parricida (241d) se dovrà sostenere, contro il padre Parmenide, che ciò che non è, in un certo senso, è esso pure, e ciò che è, a sua volta in un certo senso non è.
Il senso è che il genere dell’essere si specifica con il genere del non essere.

“L’insegnamento deve mirare a collegare organicamente, attraverso percorsi tematici e per generi, la letteratura italiana a quelle straniere, nella prospettiva di una cultura non solo nazionale ma europea… Si tratta di mostrare le organiche relazioni di ogni letteratura nazionale con le altre e di individuare i livelli che possano permettere tale collegamento. Ebbene, il genere letterario costituisce il tramite naturale delle diverse esperienze nazionali: come, nella lirica, non si darebbero la poesia siciliana e quella stilnovistica senza i provenzali, e, nel romanzo, I promessi sposi non sarebbero stati possibili senza Ivanhoe, così nella saggistica Montaigne non avrebbe potuto scrivere i suoi Essais senza Machiavelli o Guicciardini e, nel poema religioso, Milton il suo Paradise Lost senza la Commedia di Dante e la Gerusalemme liberata di Tasso”[17].


Il metodo comparativo può essere applicato agli oggetti. L’ensis del suicidio di Didone in Virgilio e la spada di Aiace in Omero e Sofocle. Lo scudo in Archiloco, Orazio, Tacito. La letteratura europea diventa organica. Il fine è il potenziamento etico ed estetico dei giovani i quali, da parte loro, ci curano l’anima.

Anche gli oggetti materiali hanno presenze simultanee. L'ensis lasciata[18] da Enea e impiegata da Didone, quale dono richiesto non per essere usato in quel modo[19], ossia per il suicidio, risale all'Aiace di Sofocle dove il Telamonio si uccide con la spada a borchie d'argento (xivfo" ajrgurovhlon) ricevuta in dono da Ettore[20], dopo averla ricordata come e[cqiston belw'n (Aiace, v. 658), la più odiosa tra le armi, e avere sentenziato che sono non doni, i doni dei nemici e non sono vantaggiosi: "ejcqrw'n a[dwra dw'ra koujk ojnhvsima" (v. 665).
Si può pensare anche allo scudo: in Archiloco (fr. 6 D. ), in Orazio (Odi, II, 7, 10), in Tacito (Germania, 6, 7).
 In questo modo Virgilio non solo ci ricorda una concatenazione tragica dei destini, ma ci riporta, attraverso Sofocle, a Omero. Insomma accade che la letteratura europea diventi organica “swmatoeidh' sumbaivnei givnesqai”, poiché succede che si intreccino (sumplevkesqai) le opere degli autori, e tendano tutte verso un unico fine (kai; pro;" e{n givnesqai tevlo" ). Polibio afferma questo a proposito dei fatti della storia mondiale, unificati dai Romani in rebus ipsis, e da lui stesso nel racconto[21]. Per lo storiografo protetto dagli Scipioni il fine è l’impero romano. Per noi insegnanti deve essere l'educazione e il potenziamento mentale, etico ed estetico dei giovani. Essi da parte loro “ci curano l’anima”[22].


Già gli antichi avevano coscienza di stare sulle spalle di Giganti del passato. Eschilo. Teocrito, Callimaco, la poesia post - filosofica, e la cultura come “vasta forma del ricordo” (Bruno Snell). Terenzio. Leopardi, Musil.
La coscienza di non dire nulla di completamente nuovo si trova già negli autori antichi: Eschilo[23] diceva che le sue tragedie erano fette del grande banchetto omerico (Aijscuvlo"  o}" ta;" auJtou' tragw/diva" temavch ei\nai e[legen tw'n JOmhvrou megavlwn deivpnwn"[24]); Callimaco[25] afferma: "ajmavrturon oujde;n ajeivdw"[26], non canto nulla che non sia testimoniato.
Bruno Snell distingue la poesia greca pre - filosofica da quella post - filosofica e mette in rilievo il fatto che Teocrito e Callimaco costituiscono la fioritura della nuova poesia, ben diversa da quella arcaica e da quella classica: "Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post - filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici… La filosofia aveva dunque raggiunto in Grecia i risultati più alti, quando in un nuovo centro spirituale, in Alessandria d’Egitto, residenza dei Tolomei, si formò una cerchia di poeti, fra cui Teocrito e il più notevole di tutti, Callimaco, i quali portarono la poesia a una nuova fioritura. Post - filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell’esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall’universale…e si rivolgono al particolare. Post - filosofico è in particolar modo Callimaco…Egli prende sul serio soltanto le cose già note per tradizione. Anche se sfrutta a fini scherzosi la ricca tradizione letteraria greca che gli offriva la biblioteca di Alessandria, c’è in lui un autentico interesse di studioso per la ricerca e la conservazione erudita…
Callimaco vive a tal punto (se così si può dire) “di seconda mano”, che si esita ad attribuirgli una qualsiasi “scoperta”. Ma le sue conquiste hanno un valore così importante per la cultura europea, che egli può essere considerato uno dei suoi precursori. Cultura è per lui quella vasta forma del ricordo che non solo sa mettere spiritosamente in contatto cose fra loro distanti e divertire con sorprendenti trovate l'ascoltatore, ma che abbraccia anche, con largo sguardo, le varie parvenze della vita"[27]

Successivamente diversi altri autori hanno riconosciuto il loro debito all’edificio nobile e antico della tradizione.
Terenzio[28] nel Prologo[29] dell'Eunuchus [30], che contamina l’ Eujnou'co" con il Kovlax di Menandro, dichiara: "Denique/nullum est iam dictum quod non dictum sit prius" (vv. 40 - 41), in fin dei conti, non c'è più nessuna battuta che non sia stata detta prima.
Leopardi[31] ebbe a scrivere "Tutto si è perfezionato da Omero in poi, ma non la poesia"[32].
Robert Musil[33] attraverso il suo protagonista Ulrich, il quale gioca sempre al ribasso, parla ironicamente di una "catena di plagi"[34] che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.


Nelle pagine di un autore moderno si devono leggere in filigrana altri auctores della tradizione europea. Eliot, Shakespeare e Seneca. La difesa dell’identità e il “darsi animo”. La tematica senecana dell’orrore ripresa dal teatro elisabettiano. L’Ecerinis (del 1314) di Albertino Mussato. Ferruccio Bertini e George Uscatescu.

Eliot trova precise analogie tra i personaggi di Seneca e quelli del teatro elisabettiano: "Nell'Inghilterra elisabettiana si hanno condizioni in apparenza affatto diverse da quelle di Roma imperiale. Ma era un'epoca di dissoluzione e di caos; e in tale epoca, qualsiasi attitudine emotiva che sembri dare all'uomo alcunché di stabile, anche se è soltanto l'attitudine di "io sono solo me stesso", è avidamente assunta. Ho appena bisogno di segnalare... quanto prontamente, in un'epoca come l'elisabettiana, l'attitudine senechiana dell'orgoglio, l'attitudine montaigniana dello scetticismo, e l'attitudine machiavellica del cinismo giunsero a una specie di fusione nell'individualismo elisabettiano. Questo individualismo, questo vizio d'orgoglio, fu, necessariamente, sfruttato molto a causa delle sue possibilità drammatiche... Antonio dice "Sono ancora Antonio [35]" e la Duchessa "Sono ancora Duchessa di Amalfi "[36]; avrebbe sia l'uno che l'altro detto questo se Medea non avesse detto Medea superest ?"[37].
La Duchessa di Amalfi dice anche: "sappiate che condannata ch'io sia a vivere o a morire, posso comportarmi in entrambi i casi da principessa" (III, 2).
"E questa crisi socio - politica, ideologica e cosmica, dell'identità dell'io non produce soltanto la rinuncia, l'isolamento, e, in sostanza, il non - io, bensì due altre soluzioni egualmente importanti: e cioè, da un lato un paranoico amore di sé, con conseguente narcisistica interiorizzazione del mondo esterno, dall'altro la formazione mostruosa di un super - io che cerca di opporre pari possanza innanzi alle travolgenti forze nemiche, una esasperazione della volontà e una smaniosa ricerca di gloria. Sta in questi esiti della crisi dell'identità tutto l'animo barocco, e a questi offriva modelli tragici in abbondanza, ed un linguaggio già confezionato, sia il teatro di Seneca che il suo pensiero"[38].

Questo aggrapparsi alla propria identità fa parte dell’atteggiamento che Eliot definisce del “darsi animo”. Lo individua nello stoicismo romano di cui Seneca è il rappresentante letterario, in Shakespeare e in Nietzsche: "Nietzsche è il più cospicuo esempio moderno del darsi animo. L'attitudine stoica è il rovescio dell'umiltà cristiana"[39]. Ed ecco l’Edipo di Seneca che si dà animo: l'accusa di paura non lo riguarda poiché ha la grande benemerenza di avere affrontato e confutato la Sfinge: "Nec Sphinga coecis verba nectentem modis/fugi" (Oedipus, v. 92) io non sono fuggito davanti alla Sfinge che intricava le parole in ciechi stilemi.
Non solo: “Shakespeare, 'simile al mondo ed alla vita', secondo Kott, riprende la tematica senecana dell'orrore, e l'atrocità shakespeariana non stupisce, non ci è mai lontana. Titus Andronicus, Riccardo III, si ritrovano in Medea e Thyestes. Da Titus Andronicus fino ad Amleto, fino alla crudeltà senza nome della morte di Cordelia. In Shakespeare, il teatro di sangue che porta l'insegna senecana, raggiunge il suo punto culminante"[40].
 George Uscatescu ricorda fu Albertino Mussato (1261 - 1329) "il primo scrittore moderno che volle imitare le tragedie di Seneca. Mussato, scopritore di un "Seneca tragicus" (Ecerinis [41]) sotto la descrizione dei crimini di Ezzelino[42], rappresenta i crimini del suo contemporaneo Cangrande della Scala, il tiranno di Verona e cerca il suo modello nei temi di orrore e di sangue delle tragedie di Seneca…Si inizia la traiettoria moderna di un Seneca tragicus… che culmina nella esposizione che ci offre Shakespeare in Titus Andronicus, opera degna del più specifico Tieste o di Medea. Esposizione tematica del teatro della crudeltà così formulata: "I must talk of murders, rapes and massacres/Acts of black night, abominable deeds, / Complots of mischief, treason, villainies/ Ruthful to hear, yet piteously performed " (V, 1, 63 - 66)"[43], io devo parlare di assassinii, stupri e massacri, atti della nera notte, azioni abominevoli, complotti del demonio, tradimenti, malvagità, penosi a udirsi, eppure eseguiti in modo da fare pietà. Sono parole di Aaron il moro amato da Tamora[44].
Sentiamo Ferruccio Bertini a proposito dell’influenza di Seneca sulla rinascita preumanistica del genere tragico: “uno dei punti di svolta decisivi nella storia della rinascita del genere tragico di matrice classica è senz’altro costituito dalla stimolante scoperta, forse nell’abbazia di Pomposa, d’un nuovo manoscritto contenente le tragedie di Seneca (eccettuata l’Octavia), l’Etruscus, che risale alla fine dell’XI secolo, ma la cui famiglia deve avere avuto origine nel secolo IX. Tale ritrovamento condusse Lovato Lovati, il promotore del cosiddetto preumanesimo padovano, e l’ambiente culturale raccolto attorno al suo magistero, a una nuova riflessione sul genere tragico, tanto critica ed esegetica, quanto, di lì a poco, operativa sul duplice piano della ricezione e della scrittura emulativa. Proprio in questo milieu si colloca e si giustifica l’opera di Albertino Mussato, allievo di Lovati, che fu “in grado di identificare alcuni elementi costitutivi delle tragedie senecane, come il tema della volubilità della fortuna, l’importanza della varietà metrica, le finalità pedagogiche, e il concetto - sia pure non perfettamente assimilato - di catarsi aristotelica”[45]. Se i grandi tragici antichi si ispiravano agli eroi del mito, il Mussato riscrive e attualizza in chiave moderna l’Octavia e il Thyestes, contaminandoli, mentre trae ispirazione per l’argumentum e per il truculento intreccio della sua tragedia dalla recente storia narrata nei Cronica Marchie Trivixiane ( composti fra il 1260 e il 1262) del conterraneo Rolandino da Padova. Nell’Ecerinis egli ripercorre, infatti, la vita e i criminosi misfatti del tiranno locale, Ezzelino da Romano, novello Nerone e, al contempo, novello Atreo per l’empietà sanguinaria delle nefandezze compiute, dalla leggendaria nascita per opera diabolica nel 1194 sino alla terribile morte (1259) sua e di suo fratello Alberico (1260). L’intento evidente era quello di riattizzare nei Padovani la fiamma sopita dell’orgoglio campanilistico, ricordando, con un terribile monito di avvertimento, le atrocità commesse dagli atroci despoti del secolo passato, nel momento dell’inquietante ascesa politica di Cangrande della Scala. Per far questo, egli decide di comporre non un pamplhet politico dagli intenti parenetici, ma una tragedia a tinte cupe basata sul modello dell’antico Cordovano, aprendo in tal modo, con lo spirito del precursore, la grande stagione della tragedia rinascimentale di imitazione senecana. Del frutto prematuro l’Ecerinis ha tutti i limiti e i difetti, ma si può convenire con Gustavo Vinay che essa costituisce “il punto di arrivo di una complessa corrente spirituale, durata otto secoli, dominata dal gusto per il pauroso e per il macabro, ma sorretta anche da un profondo desiderio di liberazione e di pace: di quella pace che il Mussato e tanti altri come lui cercavano in Boezio e, perché no, nel più antico consolatore romano, Seneca[46][47].


Il latino e il greco come corrente sanguigna della letteratura europea. Bodei: gli assi di riferimento.

Per chiarire la necessità delle basi classiche, senza le quali c'è l'abisso del vuoto, posso citare un'altra "verità" di un saggio successivo[48] di T. S. Eliot: "Il latino e il greco[49] costituiscono la corrente sanguigna della letteratura europea: e come un solo, non già due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia"[50].
E Leopardi: “Qualunque stile moderno ha proprietà, forza, semplicità, ha sempre sapore di antico, e non par moderno, e forse anche perciò si riprende, e volgarmente non piace” (Zibaldone, 1988).
Naturalmente il greco e il latino sono le fondamenta del lavoro comparativo inteso a dare ai giovani un'educazione nello stesso tempo classica ed europea. Il greco e il latino sono i nostri “assi di riferimento”: “Siamo sicuri che sia possibile pensare o scrivere una storia priva di assi di riferimento?... In fondo non siamo affatto tenuti a scegliere fra storie asettiche, depurate da ogni presupposto, e filosofie e utopie a disegno, quanto, semmai, a rendere esplicite le premesse nascoste e le conseguenze ipotizzabili di ogni narrazione con pretese di comprensione degli eventi, così da poterle sottoporre a un ragionevole esame critico e comparativo”[51].


Massimo Cacciari: opporre la topologia alla cronologia. I classici contro le mode. Classico è quanto non passa di moda. Márai: quelli che parlano per luoghi comuni hanno sempre ragione (La donna giusta). Bruno Vespa. Goethe e Leopardi. L’artista libera il mondo dai ceppi dei luoghi comuni volgari. La metafora contro il luogo comune. La metafora come bomba atomica mentale. Pregi del linguaggio. Aristotele, Leopardi e Thomas Mann.

Massimo Cacciari in un seminario tenuto a Bologna nel novembre del 2000 consigliava di opporre la topologia alla cronologia.
Successivamente il filosofo veneziano ha scritto: "Impossibile sistemare i classici secondo i rassicuranti metodi della cronologia. Soltanto una considerazione topologica rende loro "giustizia". Come il loro Nunc non è il nunc del modo, ma il Nunc stans, così il loro tempo non è quello della cronolatria storicistica, ma quello del "luogo", tutt'uno col "luogo". Il classico è insieme di topoi; i classici sono questi "luoghi". E' come se nel classico il tempo si facesse "luogo". Perciò i classici in - sistono. Perciò i classici fanno epoca "[52]. Classico, aggiunge Traina, è "uno scrittore che ha parlato per noi"[53].
In un intervento più recente[54] Cacciari ha ribadito che i classici si dispongono per topologie, non secondo cronologie. Gli autori Greci e Latini hanno fondato luoghi privilegiati. La funzione degli auctores sta nell'avere la forza polemica nei confronti dell'ora, e tale duvnami" devono trasmettere alla scuola affinché questa non sia una fabbrica impiegatizia[55] e i giovani che la frequentano non siano degli "occupati", ossia degli invasi dalle mode del momento, ma sappiano reagire criticamente a queste. Infatti se lo studio è soltanto una rincorsa del nunc, allora davvero il classico è il supervacuum.
Roberto Pretagostini in un convegno tenuto a Torino - Ivrea[56] ha affermato che i pensieri formulati dall'autore classico vanno al di là del contingente.
 La moda allora potrebbe costituire un test: è classico quanto non passa di moda.
La moda è infatti la sorella della morte. Nel dialogo di Leopardi, la Moda dice alla Morte: “io sono la moda, tua sorella”. E la Morte: “Mia sorella?” “Sì - risponde la Moda -: non ti ricordi che siamo nate dalla caducità?... E so che l’una e l’altra tiriamo parimenti a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù…la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali. Ben è vero che io on sono però mancata e non manco di fare parecchi giuochi da paragonare ai tuoi, come verbigrazia sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi, e stracciarli colle bazzecole che io v’appicco per li fori; abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi…”[57]. Si pensi ai tatuaggi, alla chirurgia estetica e ad altre schifezze del genere

La cultura classica, della quale una buona scuola deve dotare i giovani, può dare la forza di opporsi alla macina quotidiana della pubblicità, alle chiacchiere dei tessitori di vento, agli spacciatori della droga dei luoghi comuni, quelli volgari e servili, ai personaggi[58] emblematici e rappresentativi di questa età "vaga di ciance, e di virtù nemica"[59].
 Quelli che parlano per luoghi comuni “hanno sempre ragione. E forse il mondo è così inconcepibilmente ignobile e senza speranza proprio perché il luogo comune è infallibile, e solo il genio e l’artista hanno il coraggio di sbeffeggiarlo, di mettere in luce quanto in esso vi sia di morto, di contrario alla vita…[60].
Si pensi a Bruno Vespa che poche ore dopo la strage della Banca dell’Agricoltura del dicembre 1969, disse a un telegiornale: “Valpreda dunque è un colpevole”. E fece carriera. All’epoca chi diceva: “a parte tutto, non credo che quel disgraziato ballerino sia stato in grado di organizzare un massacro del genere” era visto di malocchio quale pericoloso estremista e, se insegnava, rischiava sanzioni. Poi la storia ha sbugiardato Vespa, che tuttavia ha continuato a ripetere i luoghi comuni funzionali al potere e a fare carriera.
“Non c’è nulla che mi faccia perdere la calma come vedere venire avanti uno con un luogo comune insignificante, quando io parlo con il cuore in mano”[61].
“Il bruto è più tenace servo dell’assuefazione”[62].
 “Questo scambiare modi di dire e realtà è, per quanto ho osservato, un caratteristico segno d’ignoranza e di infimo livello culturale”[63].

L’artista si oppone ai luoghi comuni della volgarità: “Ogni grande libro spira questo amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuole loro imporre… per di più una poesia col suo mistero trafigge da parte a parte il senso del mondo, attaccato a migliaia di parole triviali, e ne fa un pallone che se ne vola via. Se questo, com’è costume, si chiama bellezza, allora la bellezza dovrebbe essere uno sconvolgimento mille volte più crudele e spietato di qualunque rivoluzione politica! [64]".
Sentiamo Pasolini: “Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l’uomo medio, lo spettatore medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media…nel momento stesso in cui odio le istituzioni (per esempio le istituzioni e l’ingiustizia italiana del 1969, i prodotti della televisione, della stampa, la letteratura convenzionale) e lotto contro di esse, provo un’immensa tenerezza per questa istituzione della lingua italiana in quanto koinè, per questa lingua italiana nel significato più esteso del termine, perché è proprio all’interno di questo quadro che mi viene concesso di innovare, ed è tramite questo codice che fraternizzo con gli altri; quel che più importa nell’istituzione è il codice che rende possibile la fraternità…il codice, e soprattutto il codice linguistico, è la forma esterna indispensabile a questa fraternità umana che provo sempre in me come qualche cosa che ho perduto”[65].
«È in questo senso che un poeta dice: «La realtà è un luogo comune dal quale sfuggiamo con la metafora». La metafora letteraria stabilisce una comunicazione analogica tra realtà assai lontane e differenti, dando intensità affettiva all’intelligibilità che produce. Generando onde analogiche, la metafora supera la discontinuità e l’isolamento delle cose»[66].
«Le due realtà, identificandosi nella metafora, cozzano l’una con l’altra, si annullano reciprocamente, si neutralizzano, si materializzano. La metafora diviene la bomba atomica mentale»[67].
Sentiamo Aristotele e Leopardi sui pregi del linguaggio.
Nella Retorica Aristotele dà questo suggerimento: «bisogna rendere peregrino il linguaggio (dei' poie'n xevnhn th;n diavlekton), poiché gli uomini sono ammiratori delle cose lontane» (III, 1404b).
La metafora del resto possiede in massimo grado chiarezza (to; safev~), piacevolezza (to; hJduv) e stranezza (to; xenikovn), e non è possibile prenderla da altri (Retorica, III, 1405a).
 Nello Zibaldone di Leopardi leggiamo: «le parole lontano, antico, e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste, e indefinite, e non determinabili e confuse» (1789). E, più avanti (4426): «il poetico, in un modo o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago».
Il canto corale, a più voci, entra in questa poetica del vago e dell’indefinito.
Il coro infatti è "parte di quel vago, di quell'indefinito ch'è la principal cagione dello charme dell'antica poesia e bella letteratura. L'individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e grande ha bisogno dell'indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine" (2804).
Leopardi apprezza molto anche la brevità degli autori. “Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).
“Non era molto ciò che egli sapeva, ma un uomo intelligente sa con dieci parole dire meglio che uno sciocco con cento”[68].

 giovanni ghiselli




[1] Del 46 a. C.
[2]Il mestiere di vivere, 24 dicembre 1937.
[3]Al capitolo 58 ricorderemo l'attardato bambino pargoleggiante dell’età d’argento di Esiodo.
[4] Di nuovo il topos della fatica necessaria (cfr. cap. 3).
[5] Dialogo di Tristano e di un amico (1832). E’ una delle Operette morali delle quali l’autore scrive: "Così a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi del ridicolo ne' dialoghi e novelle Lucianee ch'io vo preparando"(Zibaldone, 1394). Al capitolo 66 citerò altre parole di Tristano all’amico.
[6] H. Hesse, Il giuoco delle perle di vetro (del 1943), p. 81.
[7] H. Hesse, Demian (del 1919), p. 54.
[8] Francesco de Stisi e Maria Leone, Luna, p. 172.
[9] Esopo, Promhqeu;~ kai; a[nqrwpoi, Prometeo e gli uomini (322).
[10] F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali II, p. 83 e p. 87.
[11] F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali II, p. 99.
[12] T. S. Eliot, Che cos’è un classico? (del 1944) In T. S. Eliot, Opere, p. 965.
[13] Tradition and the Individual Talent (del 1919),
[14] U. Eco, Di fronte ai classici, p. 124.
[15] Filosifo scolstico francese morto nel 1130. Scrisse un’opera su Porfirio.
[16] U. Eco, Di fronte ai classici, p. 132.
[17] R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 100 e p. 146.
[18] Eneide, IV, 507.
[19] Eneide IV, 647.
[20] Nell'Iliade, VII, 303.
[21] Polibio, Storie, I, 3, 4.
[22] F. Dostoevskij, L’idiota, p. 84.
[23] 525 - 455 a. C.
[24] Ateneo (II - III sec. d. C. ) I Deipnosofisti, VIII, 39.
[25]305 ca - 240ca a. C.
[26] Fr. 612 Pfeiffer.
[27] B. Snell, Il giocoso in Callimaco in La cultura greca e le origini del pensiero europeo”, pp. 371 sgg.
[28] 190ca - 159ca a. C.
[29] "Luogo privilegiato della commedia dal punto di vista delle informazioni date, siano esse di trama o di poetica" (G. B. Conte, Scriptorium Classicum, 1, p. X9.
[30] Del 161 a. C.
[31] 1798 - 1837.
[32]Zibaldone, 58.
[33] 1880 - 1942.
[34]L'uomo senza qualità, p. 270.
[35] "I am Antony yet ", Antonio e Cleopatra (del 1606 - 1607), III, 13.
[36]Da La duchessa di Amalfi (del 1614), di J. Webster (1580 - 1625).
[37]Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, (del 1927) in T. S. Eliot Opere, p. 800.
[38] M. Pagnini, Seneca e il teatro elisabettiano, in "Dioniso" LII, 1981, p. 412,
[39] Shakespeare e lo stoicismo di Seneca, in T. S. Eliot, Opere, p. 799.
[40] George Uscatescu, Seneca e la tradizione del teatro di sangue, "Dioniso" 1981, p. 387.
[41] Del 1314.
[42] Crudelis ut Nero (ndr)
[43] George Uscatescu, op. cit,. p. 374
[44]Tante, troppe parole che fanno pensare a questo giudizio di Nietzsche: "Shakespeare. paragonato con Sofocle, è come una miniera piena di un'immensità di oro, piombo e ciottoli, mentre quello non è soltanto oro, ma oro anche lavorato nel modo più nobile, tale da far quasi dimenticare il suo valore come metallo" Umano, troppo umano II vol., p. 57.
[45] S. Pittalunga, Modelli classici e filologia nell’Ecerinis di Albertino Mussato, in La scena interdetta Napoli 2002, pp. 245 - 246, in part. p. 246…Sulla riscoperta di Seneca tragico nel Medioevo cfr. inoltre, del medesimo studioso, Mestissima mortis imago (note su Seneca tragico nel Medioevo e nell’Umanesimo), in La scena interdetta cit. pp. 257 - 265.
[46] G. Vinay, Studi sul Mussato, “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, 126 (1949), p. 159.
[47] F. Bertini, XXVI Convegno Internazionale, Tragedie dell’onore nell’Europa Barocca, Roma, 12 - 15 settembre 2002. pp. 37 - 39.
[48] Che cos'è un classico?, 1944.
[49] Io metterei prima il greco.
[50] In T. S. Eliot, Opere, p. 975.
[51] R. Bodei, La speranza dopo il tramonto delle speranze”, in “Il Mulino”, 333, 1991.
[52] M. Cacciari, Brevi inattuali sullo studio dei classici, in Di fronte ai classici, p. 27.
[53] Io e il latino in Di fronte ai classici, p. 263.
[54] Dell' ottobre 2002
[55] "Lo Stato", afferma Nietzsche, "vuole allevarsi quanto prima utili impiegati". Sull'avvenire delle nostre scuole (1872), p. 27.
 [56] Essere e divenire del “classico”, Torino - Ivrea, 21 - 22 - 23 ottobre 2003. Gli atti di questo convegno sono stati pubblicati dalla Utet (Torino, 2006). Il mio intervento contiene la prima parte di questa metodologia e va da p. 241 a p. 254.
[57]Operette morali, Dialogo della Moda e della Morte.
[58] O meglio gentucola scaltra che i mass media talora trasformano in personaggi di rilievo, se non addirittura in idoli.
[59] G. Leopardi, Il pensiero dominante (del 1831), v. 61 -
[60] S. Márai, La donna giusta, p. 189.
[61] J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, 12 agosto 1771.
[62] G. Leopardi, Zibaldone, 1762.
[63] T. Mann, Giuseppe il nutritore, p. 42.
[64] R. Musil, L’uomo senza qualità, p. 355.
[65] P - P. Pisolini, Saggi sulla politica e sulla società, p. 1433
[66] E. Morin, La testa ben fatta, p. 94.
[67] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro, p. 48.
[68] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 176. 

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