Lo studio della
storia presenta varie possibilità di approccio: da quello politico ed economico,
al sociologico, all’antropologico, allo psicologico. Rostovzev. Auerbach. S. Mazzarino
su Tucidide e Tacito con la crisi dell’agricoltura italica. La storia degli
anelli d’oro in Plinio il Vecchio e nel Satyricon. Luperini: il
legame profondo e necessario tra disciplinarità e interdisciplinarità. La
necessità della conoscenza dei contenuti. La SSIS (la Mastrocola e il
sottoscritto). La storia esemplare con modelli e contromodelli. Tito Livio, Tacito
e la grandezza del passato rispetto alla sopravvenuta decadenza. Il filum di tradizionalismo che unisce
Catone - Sallustio - Livio e Tacito. Polibio: la storia come correzione (diovrqwsi"). Posidonio e Diodoro: gli storiografi quali
benefattori dell’umanità. Tucidide e la maggiore grandezza del presente. Plutarco
e i suoi estimatori: Montaigne, Shakespeare, Vittorio Alfieri, Foscolo, Nietzsche
e la storia monumentale. Seneca (Naturales
quaestiones) sconsiglia di proporre contromodelli. Machiavelli e
Guicciardini. Le interpretazioni contrastive della Storia inducono il giovane a
pensare. Vite composite e variopinte. Proust. Le Vite di Demetrio Poliorcete e di Antonio secondo Plutarco. Luciano e
la processione della Tuvch. Mussolini e il colonnello Aureliano Buendía di
Márquez.
Dalla storia si possono ricavare tanti e vari
argomenti: l'economia, la politica istituzionale, la psicologia, secondo i
gusti di chi la insegna e di chi deve impararla. Ci furono anni, quando era di
moda il marxismo, nei quali era obbligatorio il discorso economico - strutturale;
ora che Marx è stato messo in soffitta, si preferiscono le sovrastrutture. Quindi
sono passati in secondo piano i "severi/economici studi" e vale più
"il proprio petto/esplorar"[1].
Se una volta, dietro
richiesta dei ragazzi, si studiava il Rostovzev[2]
prima ancora di leggere Tacito, ora si cerca l'approccio antropologico, o si
studia la psicologia della fanciulla Ottavia, che era costretta a celare i
propri sentimenti, o si fa notare il determinismo geografico.
La storiografia antica si presta comunque a
letture diverse. Auerbach sostiene che gli antichi "non vedono forze, bensì
vizi e virtù, successi ed errori; la loro impostazione del problema non è
evoluzionistica né nei riguardi dello spirito né in quelli della materia; è
invece moralistica"[3].
S. Mazzarino invece ritiene
che al pensiero storico classico non manchi un'ampia e approfondita
considerazione dei fatti economici: "Basta pensare, per es. , all'archeologia
di Tucidide, tutta fondata su aJcrhmativa[4] e crhmavtwn th; n kth'sin[5]; concetti che lì sono fondamentali, non già semplici
riferimenti. Tacito (…) Plinio il Vecchio (…) hanno interpretato con acutezza i
fatti sociali dell'epoca giulio - claudia"[6].
Si pensi alla crisi dell’agricoltura italica dovuta all’estendersi dei
latifondi; per esempio: latifundia
perdidere Italiam" scrive Plinio
il Vecchio[7].
Per quanto riguarda l’autore
degli Annales[8]: "Questa idea della crisi
economica dell'Italia domina il pensiero di Tacito, e dà ad esso toni di
tristezza profonda: infatti, la ritroviamo in un passo degli Annali, XII,
43, meritatamente celebre”[9]:
"at hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus
portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum
exercemus, navibusque et casibus vita populi Romani permissa est ", eppure,
per Ercole, una volta l'Italia mandava vettovaglie per le legioni in province
lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far coltivare
l'Africa e l'Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi della
navigazione.
Lo storico si riferisce
all’ultimo periodo del principato di Claudio (41 - 54), ma già Ottaviano
Augusto temeva che le campagne rimanessero non coltivate a causa dell'ozio
della plebe, e decise di abolire le distribuzioni frumentarie: "quod
earum fiduciā cultură
agrorum cessaret " [10],
poiché, confidando in queste, la gente trascurava la coltivazione dei campi. Tuttavia
l'imperatore non perseverò nel proponimento. Poi "Una grande crisi scoppiò
nel 33 d. C. : i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile una
qualunque concorrenza da parte di piccoli proprietari; questi si erano
indebitati, ricorrendo a prestiti di latifondisti senatori, sebbene ai senatori
fosse proibita l'usura…Ne derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i
quali svendevano i campi per pagare i debiti"[11].
Durante il I sec. d. C. sotto gli imperatori Giulii e Claudii : " anche in
Italia le grandi tenute divennero sempre più estese e a poco a poco assorbirono
le fattorie di media estensione e i poderetti contadineschi… Le tenute di media
estensione furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e vennero
acquistate a buon mercato da grandi capitalisti. Questi ultimi naturalmente
desideravano di semplificare la gestione delle loro proprietà, e, paghi di
ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad
affittuari e produrre prevalentemente grano"[12].
La "mancanza di
vendita" di molti prodotti italici era dovuta anche alla emancipazione
economica delle province: “le condizioni del mercato peggioravano di giorno in
giorno a misura che si svolgeva la vita economica delle province occidentali…A
questo mutamento s'accompagnò il crescente raccogliersi della proprietà rurale
nelle mani di pochi ricchi proprietari"[13].
Nello stesso tempo della
crisi dilagavano, tra i ricchi e gli arricchiti, il lusso e lo spreco. La
politica finanziaria di Tiberio cercò, molto blandamente, di porvi un freno. Ecco
la tendenza: "lotta contro il rialzo dei prezzi; e d'altra parte, proprio
per quella sua moderatio nei riguardi degli ottimati, esitazione e anzi
rinunzia a prendere rigidi provvedimenti contro il lusso delle dites
familiae nobilium aut claritudine insignes[14].
Dalle nuove esigenze fu particolarmente incoraggiato il commercio con l'India, come
chiaramente attestano i reperti numismatici di questa regione. In queste
condizioni, il lamento che la moneta pregiata prendesse la via dei mercati
stranieri (pecuniae nostrae ad externas aut hostiles gentes transferuntur
[15]
) restava una protesta platonica, e denunziava un "drenaggio di oro"
a cui Tiberio stesso dichiarava di non poter porre rimedio"[16].
Passiamo a Plinio il Vecchio
e vediamo “un interessante squarcio di storia sociale scritta da un autore
antico”.
“Questo cavaliere dell’Italia
settentrionale, freddo e saggio, ci ha descritto (naturalmente con disdegno) le
ambizioni e la luxuria dei nuovi
ricchi dell’epoca Claudia…Come esponente dell’altissima borghesia equestre, egli
si intendeva di fatti economici. Nella travagliata epoca giulio - claudia, gli
sembrava dominante l’ambizione di tutti, di portar anuli aurei, che in verità sono distintivi dei cavalieri: sotto
Tiberio si era stabilito che solo i nati liberi e di libero avo, con censo
equestre e facoltà di sedere nei 14 ordines
al teatro (vale a dire, solo i veri e propri cavalieri), potessero portare anuli aurei ; con Caligola, anche i
liberti avevano quegli ornamenta, “ciò
che prima non era avvenuto mai”; all’epoca di Claudio (che era stato anche
censore), ben 400 persone furono accusate per questo abuso. Nonostante i provvedimenti
di Tiberio, i liberti erano dunque decisi a “sfondare”, anche contro la legge; e,
al solito, il principato di Caligola aveva aperto ad essi la strada; “l’ordine
equestre”, commentava Plinio, “si voleva distinguere dal resto dei liberi, e
doveva subire l’intrusione dei liberti!” Oppure: quelli che non appartengono
all’ordine equestre non si fanno scrupolo di firmare con l’anulus, dalla parte
dove è l’oro: “una trovata dell’epoca di Claudio”; “ed anche i servi portano anuli coperti, all’esterno, di oro” (la
stessa nota troviamo nel Satyricon di
Petronio)” [17].
Entrato
nella sala del banchetto, addobbato di rosso, Trimalchione ostenta gli anelli
portati nella mano sinistra: uno grande placcato d'oro (anulum grandem
subauratum 32, 3) e uno d'oro massiccio, ma tutto come costellato di
pezzetti di ferro ( totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis
ferruminatum), quindi denuda il braccio destro armilla aurea cultum et
eboreo circulo lamina splendente conexo (32, 4), ornato da un bracciale
d'oro e di un cerchio d'avorio intrecciato con una lamina luccicante; infine si
cincischiò i denti con uno stuzzichino d'argento (pinnā argenteā dentes
perfōdit, 33). E' un monumento classico, aere perennius, al cattivo
gusto, alla volgarità dell'eterno cafone arricchito.
"La
storia degli anelli d'oro: il più interessante capitolo di storia del costume
dell'epoca imperiale, particolarmente dell'epoca giulio - claudia…Claudio
eredita da Caligola, ed affina e organizza, il predominio dei liberti imperiali
nella corte. Ma dietro questi tre potentissimi liberti[18]
c'è la grande massa di tutti i liberti, imperiali o non, in tutto l'impero. Sono
una borghesia affaristica e prepotente. Affrontano talora i rischi della legge,
pur di portare l' anulus aureus, gabellandosi per cavalieri. La
pressione di questa borghesia significa soprattutto una cosa: l'intensificazione
dell'economia monetaria…burocrazia (questa burocrazia dei liberti imperiali)
significa economia monetaria, intensità di circolazione dei mezzi legali di
pagamento. L'economia naturale delle grosse domus senatorie è colpita a
morte"[19].
“L’economia
non conosce tradizioni, o, se ne ha, non esita un solo istante a distruggerle
nel caso che non gli siano più utili”[20].
Come si vede non è
impossibile l’approccio “economico” e sociologico ai testi classici. Uno dei
tanti.
Da qualche tempo è ammessa, anzi
è praticata più o meno bene da molti insegnanti, l’interdisciplinarità che al
sottoscritto negli anni Ottanta costò due ispezioni in tre anni, volute dal
preside Magnani del Liceo classico Galvani. Costui del resto venne sbugiardato
pesantemente entrambe le volte dagli ispettori ministeriali: Adelelmo Campana e
Antonio Portolano, due uomini intelligenti, i quali elogiarono il mio metodo e
il mio operato, sebbene allora fosse innovativo. Ora piuttosto è di moda. Non
dico che si debbano seguire le mode, casomai che si possono prevedere, e che
non è male assecondare i gusti dell'utenza quando questa presenta richieste plausibili.
“Si è scoperto insomma…il
legame profondo e necessario fra disciplinarità e interdisciplinarità. In altri
termini, si è arrivati alla coscienza che, nello studio della letteratura (ma
il discorso vale anche per altre materie umanistiche), l’interdisciplinarità
non comporta affatto una rinuncia ai contenuti disciplinari e che in esso il
ricorso alla storia, alla antropologia, alla storia dell’arte, alla
psicoanalisi, alla filosofia, e persino alla geografia e alla fisica è
finalizzato a insegnare meglio la letteratura, non a confondere tale
insegnamento con altre discipline. Nel campo dello studio della letteratura, un
uso rigoroso della interdisciplinarità non è tuttologia, ma è il suo esatto
opposto: è l’impiego di discipline diverse al fine di capire meglio o di
spiegare meglio un testo letterario o un fenomeno letterario (un movimento, un
tema, un periodo storico)”[21].
In ogni caso è necessario
conoscere i contenuti, le parole e le idèe contenute, appunto, in un libro, anzi
in tanti libri, per insegnare, con un taglio o con un altro, una materia o anche
solo un argomento.
“Oggi c’è la SSIS: Scuola di
Specializzazione per l’Insegnamento Secondario. Si tratta di una scuola per chi
si è laureato nella materia che amava e ora la vuole insegnare. Si dà per
scontato che non la sappia insegnare e quindi glielo si insegna in una scuola
apposita, successiva alla laurea. Una volta ci si laureava e basta, quattro
anni di università e poi automaticamente si andava a insegnare la materia in
cui si era laureati…Oggi invece si fa tre+due, si prende la laurea e poi si
aggiungono i due anni SSIS, dove ti insegnano a insegnare…Cos’è cambiato? Che
prima si pensava così: basta che uno sappia bene la sua materia e la saprà
insegnare di sicuro; si pensava, cioè, che il conoscere bene a fondo la propria
materia fosse di per sé un’assicurazione del saperla insegnare: si dava allora,
evidentemente, molto valore alla conoscenza. Adesso invece si pensa: non
importa che cosa uno conosce o non conosce, l’importante è che sappia insegnare.
Ma insegnare che cosa? Nessuno pensa che il “che cosa” sia importante: la
materia, l’argomento, l’oggetto…il complemento oggetto. Si insiste sul verbo, e
non sul complemento oggetto”[22].
La Mastrocola generalizza, esagera e sbaglia: io insegno alla SSIS, in quella
dell’Università di Bologna dove tengo un corso di didattica della letteratura
greca con laboratorio, e in quella dell’Università di Bolzano dove faccio
laboratorio di didattica della cultura e della civiltà letteraria italiana: ebbene
l’uno e l’altro corso partono dalla metodologia, ma assai presto questa viene
applicata agli autori e alle loro opere. Certo, gli insegnanti che non
conoscono la materia, quelli che non sanno insegnarla, ci sono, eccome, ma ci
sono sempre stati. La SSIS, io credo, attraverso i docenti esperti, e bravi, quando
lo sono, aiuta i laureati indicando loro le vie meno contorte per arrivare alla
mente e al cuore[23]
dei ragazzi, per aiutarli a crescere in termini tanto culturali quanto umani, e
suggerisce sia i metodi, sia le letture più efficaci per cogliere questo scopo,
ossia questo bersaglio. Il discorso sul metodo che sto componendo riflette
questo lavoro, ed è il lavoro di una vita dedicata allo studio, all’insegnamento
e al rafforzamento della vita stessa, della mia e di quella dei miei allievi.
La storia comunque fornisce
esempi, modelli e contromodelli.
Secondo Tito Livio[24]
la conoscenza della tradizione storica è necessaria per l'educazione delle
persone: essa fornisce a chi la possiede il grande strumento dei modelli
positivi da imitare, e di quelli negativi da respingere: "Hoc illud est
praecipue in cognitione rerum salūbre ac frugiferum, omnis te exempli documenta
in inlustri posita monumento intueri: inde tibi tuaeque rei publicae quod
imitēre capias, inde foedum inceptu, foedum exitu quod vites"[25],
questo soprattutto è salutare e produttivo nella conoscenza della storia: che
tu consideri attentamente esempi di ogni tipo situati in una tradizione
illustre: di qui puoi prendere quanto c'è da imitare per te e per il tuo Stato,
di qui quello che c'è da evitare in quanto turpe nel movente, turpe nel
risultato.
Tito Livio nella Praefatio (11) celebra il passato remoto
come il tempo della grandezza: "nulla
umquam res publica nec maior nec sanctior nec bonis exemplis ditior fuit ",
mai nessuno Stato fu più grande né più virtuoso né più ricco di buoni esempi, e
preferisce i fatti antichi al punto che, nel raccontarli, scrive più avanti il
mio animo diviene, misteriosamente, antico: "Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto anticus fit
animus "(XLIII, 13, 2).
La guerra più grande, per i
mezzi e le energie impiegate, è stata quella annibalica. Nel proemio alla
seconda guerra punica Livio scrive: "Nam
neque validiores opibus ullae inter se civitates gentesque contulerunt arma, neque
his ipsis tantum umquam virium aut roboris fuit "(XXI, 1), infatti né
alcune altre città e popoli più possenti per i mezzi combatterono, né mai
queste stesse ebbero tanta forza e vigore.
“Livio: nella cui praefatio domina l’esaltazione della
storia romana, argomento proprio dell’opera sua: nulla umquam res publica nec maior nec sanctior…(Liv. Praef. 11); ed anzi, per ciò, la storia
antica è da Livio - a differenza di Tucidide - di gran lunga preferita alla
moderna (Liv. praef. 5)”[26].
Anche Tacito, negli Annales, antepone la storia e la
storiografia antica, quella della repubblica, ricca di grandi personaggi e
grandi avvenimenti, alla recente, di minor levatura: " Pleraque eorum quae rettuli quaeque referam
parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum "( IV, 32), mi
rendo conto che la maggior parte degli avvenimenti che ho riferito e riferirò
appaiono forse piccoli e indegni di ricordo; mentre chi espose il passato narrò
"ingentia bella. . . expugnationes
urbium, fusos captosque reges ", grandi guerre, città espugnate, re
sbaragliati e fatti prigionieri, per quanto riguarda la politica estera, e
nell'interna"discordias consulum
adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et optimatium
certamina libero egressu memorabant ", raccontavano conflitti tra
consoli e tribuni, leggi agrarie e frumentarie, lotte tra plebei e patrizi, spaziando
liberamente. Quindi la fatica dei contemporanei si occupa di un campo ristretto
ed è senza gloria: " nobis in arto
et inglorius labor" . Lo stesso contenuto della storia si restringe
nel passaggio dalla repubblica all'impero.
“Come Sallustio[27],
anche Tacito pensava spesso in termini di antica grandezza e di sopravvenuta
decadenza”[28].
“Ma soprattutto: c’è una
linea unitaria, come un filum, che
nella storiografia romana conduce da Catone a Sallustio a Tacito. Questi tre
storici insistono particolarmente sulla disciplina
et vita dell’Italia (Catone), sulla cura
degli antichi pro Italica gente
(Sallustio), sulla necessità di conservare l’antiquus mos italico e di impedire - per una malintesa tendenza
provinciale - il decadimento economico dell’Italia (Tacito)…il filum Catone - Sallustio - Tacito è per
eccellenza significativo nella storia della storiografia romana”[29].
Direi che questo filum passa anche
per Tito Livio che celebra gli antiqui
mores e lamenta il decadere della disciplina e il dilagare dei vizi con
l’avvento della ricchezza e del lusso: “ad
illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui mores fuerint,
per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium
sit; labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur
animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec
ad haec tempora , quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus, perventum
est” (Praefatio, 9), a quegli
aspetti ciacuno rivolga attenzione con acutezza, quale tipo di vita, quali sono
stati i costumi, gli uomini e le capacità attraverso i quali l’impero è stato
creato e ingrandito; poi mi si segua con attenzione per vedere come, decadendo
poi un poco alla volta la disciplina, rilassandosi in un primo tempo i costumi,
siano poi scivolati sempre più in basso, poi abbiano preso a cadere a
precipizio, finché si è giunti a questi tempi, nei quali si è giunti al punto
che non possiamo sopportare né i vizi né i rimedi.
Polibio[30]
nel Proemio delle sue Storie afferma che per gli uomini non c'è nessuna
correzione (diovrqwsi") più disponibile che la conoscenza dei fatti passati
(th'" tw'n
progegenhmevnwn pravxewn ejpisthvmh"
, 1, 1).
Vediamo
un suggerimento correttivo applicato a un naufragio che la flotta romana subì
nel 255 nei pressi di capo Passero, durante la prima guerra punica. Delle loro
364 navi solo 80 si salvarono.
Ebbene,
gli insuccessi potranno esserci ancora poiché i Romani affrontano ogni cosa con
violenza (crwvmenoi biva/, I, 37, 7) e ritengono
che nulla sia per loro impossibile. Da una parte essi hanno successo grazie a
un simile slancio (dia;
th; n toiauvthn oJrmhvn), ma a volte
falliscono in modo evidente, soprattutto nelle imprese sul mare. Dunque i
disastri potranno ripetersi finché questi vincitori di uomini non correggeranno
tale audacia e violenza e{w~
a[n povte diorqwvswntai toiauvthn tovlman kai; bivan (I, 37, 10) per cui credono di poter navigare e
marciare in qualsiasi stagione.
Gli storiografi insomma sono
educatori e perfino benefattori del genere umano
Le Storie dopo Polibio di Posidonio (andavano dal 143 al 70) non sono
conservate, ma ve ne è traccia notevole nella benemerita Biblioteca di Diodoro[31]:
e soprattutto nel proemio diodoreo sono sviluppati pensieri che sembrano
risalire appunto al proemio posidoniano. Innanzi tutto l'idea stoica della
storia universale come proiezione della fratellanza universale che collega in
un nesso solidale - come membra di un unico corpo, secondo l'espressione
senechiana - tutti gli esseri umani. La storia universale "riconduce ad
un'unica compagine gli uomini, divisi tra loro nello spazio e nel tempo, ma
partecipi di un'unica reciproca parentela" (Diodoro, I, 1, 3). Oltre che
"strumento della provvidenza (uJpourgoi; th'" qeiva" pronoiva") ", perciò gli storici sono anche benefattori
del genere umano: e la storiografia - prosegue Diodoro - oltre ad essere profh'ti" th'"
ajlhqeiva" è anche "madrepatria
della filosofia (mhtrovpoli"
th'" filosofiva")" (I, 2, 2)
)”[32].
Diodoro aggiunge che bisogna supporre (uJpolhptevon) che la storia abbia il potere di attrezzare i caratteri per la kalokajgaqiva. La storia ha immortalato le qualità degli eroi. Gli altri monumenti durano poco tempo, mentre la forza della storia ha nel tempo un custode che veglia della sua eterna trasmissione ai posteri. L’arte della parola è divisa in più parti e accade che l’arte poetica allieti più che giovare (sumbaivnei th; n me; n poihtikh; n tevrpein ma'llon h[per w'felei'n, I, 2, 7), la legislazione punisca, ma non educhi, e altri generi non contribuiscono alla felicità, altri mescolano il danno al vantaggio, altri falsificano la verità, mentre la storia, siccome in essa le parole si accordano ai fatti (sumfwnouvntwn ejn aujth'/ tw'n lovgwn toi'~ e[rgoi~) comprende nei suoi scritti tutti gli altri vantaggi. Essa esorta gli uomini alla giustizia, denunciando le persone ignobili ed encomiando quelle di valore e fornisce una grandissima esperienza ai lettori (8).
Anche una città o una
costituzione può essere esemplare: è il caso della politeivva ateniese secondo il Pericle di Tucidide[33]
il quale viceversa privilegia la vicinanza nel tempo poiché "faceva
dell'esperienza diretta il primo requisito di una storiografia seria"[34]
; inoltre lo storico antico considera superiore l'importanza dell'ultimo
conflitto rispetto a tutti i precedenti per la maggior quantità delle forze
economiche e militari entrate in campo. : "Crwvmeqa ga; r politeiva/ ouj zhlouvsh/ tw'n
pevla" novmou", paravdeigma de; ma'llon aujtoi; o[nte" h] mimouvmenoi
eJtevrou"" (II, 37, 1), infatti
ci avvaliamo di una costituzione che non invidia le leggi dei vicini, poiché
siamo noi esemplari piuttosto che imitatori di altri. Il modello pericleo è
quello della democrazia diretta: una governo retto da un uomo colto scelto da
un popolo colto che si lasciava guidare[35]
, che andava a teatro a vedere i drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane
e altri autori di tale livello.
Analogo frutto si può
cogliere dalle biografie di Plutarco[36]
il quale suggerisce di utilizzare le sue Vite parallele quali modelli
positivi o negativi: infatti si dà catarsi non solo assimilando il valore, ma
anche respingendo i vizi; questo accade ponendosi di fronte alla storia come
davanti a uno specchio (w{sper
ejn ejsovptrw/), sia imitando la virtù
degli uomini grandi e buoni, il cui esempio aiuta a respingere quella dose
eventuale di pochezza (" ei[ ti fau'lon") o malvagità ("h] kakovhqe"") o volgarità (" h] ajgennev"" ), che le compagnie di coloro con i quali si
deve vivere vi insinuano ("aiJ tw'n sunovntwn ejx ajnavgkh" oJmilivai
prosbavllousin"), sia prendendo
quali contromodelli uomini grandi e cattivi[37].
Queste parole indicano, tra l’altro, gli antivalori della malvagità e della
volgarità.
"E' una concezione che
ha qualche punto in comune con l'idea aristotelica della catarsi - commenta
Canfora[38]
- , dell'analogia che lo spettatore (in questo caso il lettore) istituisce tra
se medesimo ed i paqhvmata
dell'eroe al quale si accosta".
Catarsi e mimesi nell’Amleto di Shakespeare.
Non molto diversamente
l’Amleto di Shakespeare che dice: “I have
heard - that guilty creatures, sitting
at a play, - have, by the very cunning of the scene, - been struck so to the
soul that presently - they have proclaim’d their malefactions” (Hamlet, II, 2), io ho udito che delle
persone colpevoli, davanti a un dramma, sono state colpite, dall’abilità della
scena, fin dentro l’anima, in maniera tale che hanno confessato subito i loro
misfatti.
Così del resto faceva
Machiavelli leggendo. Lo racconta nella
Lettera a Francesco Vettori : "Venuta la sera, mi ritorno in casa et
entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena
di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e, rivestito
condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro
ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno
parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni. E quelli per
loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico
ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi
tranferisco in loro. . . Die 10 Decembris
1513 ".
La lettura dei classici
dunque per il segretario fiorentino aveva un valore catartico. Lo stesso
significato positivo ha per Plutarco lo scrivere biografie: nella medesima
prefazione infatti l'autore afferma
anche: il mio lavoro mi appare proprio come un conversare, un vivere
quotidianamente in intimità con costoro, quando, per narrarne le vicende, io li
ricevo quasi e li accolgo a turno come ospiti uno per uno, e considero quanto grande
e quale sia ("
o{sso" e[hn oi|ov" te"[39]),
scegliendo fra le loro azioni quelle che furono le più importanti e le belle
per la conoscenza: "ta;
kuriwvtata kai; kavllista pro; " gnw'sin ajpo; tw'n pravxewn
lambavnonte"". Insomma "il
biografo si rimira nello specchio della storia per accordare la propria
esistenza ai grandi paradigmi di virtù fornitigli dai suoi personaggi, vive
anzi con loro (come poi Montaigne), desideroso di preservare nell'animo la
memoria fragrante di ciò che varrà poi ad espellere l'ignobile sentore della
quotidianità. Gli exempla virtutis costituiscono
il più sicuro esercizio di virtù per l'autore"[40].
Quindi Plutarco cita un frammento
di Sofocle[41]:
"feu' feu', tiv
touvtou cavrma mei'zon a]n lavboi"",
ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore di questa, e, aggiunge, kai; pro; ~ ejpanovrqwsin hjqw'n
ejnergovteron ; (I, 4) quale più efficace
per il raddrizzamento dei costumi? Lo studio della Storia allora infonde gioia
in chi lo coltiva, come la poesia: Erodoto narra che in attesa del canto di
Arione, nel cuore dei pur spietati marinai corinzi che lo avevano condannato a
morte per derubarlo, si insinuò il piacere [42].
"Che profitto trarrà dalla lettura delle Vite
del nostro Plutarco? La mia guida si ricordi a che cosa mira il suo compito; e
imprima nella mente del suo discepolo non tanto la data della distruzione di
Cartagine, quanto piuttosto i costumi di Annibale e di Scipione"[43].
“Per l'uomo moderno, Plutarco
significa Shakespeare"[44],
e viceversa. E allora diciamo subito che alcune tragedie di Shakespeare (il Giulio Cesare, l'Antonio e Cleopatra, il
Coriolano ) dipendono da Plutarco che il drammaturgo inglese leggeva nella
traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella francese (del 1559) del
vescovo Amyot che tradusse pure i Moralia
(1572)[45].
Nonostante la doppia traduzione ci sono, soprattutto nel Coriolano , situazioni e frasi che riproducono gli originali di
Plutarco, tanto che Elias Canetti in un passo[46]
de La provincia dell'uomo , afferma
che " Plutarco non è affatto schizzinoso. Nelle sue pagine accadono cose
terribili, come nelle pagine del suo seguace Shakespeare".
Plutarco, biografo di eroi, fu
oggetto di culto da parte di Vittorio Alfieri : "Ma il libro dei libri per
me, e che in quell' inverno mi fece veramente trascorrere dell'ore di rapimento
e beate, fu Plutarco, le vite dei veri Grandi. Ed alcune di quelle, come
Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque
volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur
anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente
tenuto per impazzato. All'udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo
io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di
rabbia mi scaturivano al vedermi nato in Piemonte e in tempi e governi ove
niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella
si poteva sentire e pensare"[47].
“ Aspettando i cavalli in
Savona, gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche cosa di più che il racconto, gli
batté il cuore: quelle immagini colossali non lo sbigottivano, anzi suscitavano
la sua emulazione: - Non potrei essere anch’io come loro? - E il potere c’era, perché
le sue forze non erano da meno”[48].
Foscolo nelle Ultime
lettere di Iacopo Ortis scrive: "Col divino Plutarco potrò consolarmi
de' delitti e delle sciagure della umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri
che quasi primati dell'umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante
genti"[49].
“La storia occorre innanzitutto all’attivo e
al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di
modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e
nel presente…Che i grandi momenti nella lotta degli individui formino una
catena, che attraverso essi si formi lungo i millenni la cresta montuosa
dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo tempo trascorsi
siano ancora vive, chiare e grandi - è questo il pensiero fondamentale di una
fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza di una storia monumentale”[50].
"Nella mancanza di
dominio su se stessi, in ciò che i romani chiamano impotentia , si rivela la debolezza della personalità moderna"[51].
Un ajntifavrmako" , un ottimo contravveleno di questa impotenza, può
essere Plutarco: "Se invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini, imparerete
da essa il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al fascino
paralizzante dell'educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non
lasciarvi maturare per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. E se desiderate
biografie, allora che non siano quelle col ritornello "Il signor
Taldeitali e il suo tempo". Saziate le vostre anime con Plutarco ed osate
credere in voi stessi, credendo ai suoi eroi. Con un centinaio di uomini
educati in tal modo non moderno, ossia divenuti maturi e abituati all'eroico, si
può oggi ridurre all'eterno silenzio tutta la chiassosa pseudocultura di questo
tempo"[52].
Seneca sconsiglia di proporre
contromodelli: nella Praefatio al III
libro delle Naturales quaestiones
afferma che è molto meglio spengere i propri vizi piuttosto che raccontare ai
posteri quelli degli altri: "quanto
satius est sua mala extinguere quam aliena posteris tradere! " ( 5), quanto
meglio è spengere i propri vizi che tramandare ai posteri quelli degli altri!
Seguono gli esempi di Filippo e di Alessandro e di tutti gli altri che furono pestes mortalium non meno rovinose di
inondazioni e incendi. A questo proposito si rifletta sul caso della docente
del liceo classico romano messa sotto accusa per avere fatto leggere degli
scritti di Hitler con altri di altri autori.
Machiavelli dà questo
consiglio: “debbe uno uomo prudente intrare sempre per vie battute da uomini
grandi e quelli che sono stati eccellentissimi imitare” (Il Principe, VI).
Anche Guicciardini ricava
insegnamenti dalla storia e dagli storiografi: “Insegna molto bene Cornelio
Tacito a chi vive sotto a’ tiranni el modo di vivere e governarsi prudentemente,
così come insegna a’ tiranni e modi di fondare la tirannide”[53].
Tuttavia in un altro dei Ricordi (110)
scrive: “Quanto si ingannano coloro che a ogni parola allegano e Romani!
Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi
secondo quello essemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto
disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi il corso di uno
cavallo”.
Il criterio deve essere
quello della discrezione: “E’ grande errore parlare delle cose del mondo
indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola: perché quasi
tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circostanze, le quali
non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione
non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione”[54]
. Questi giudizi contrastanti possono indurre il giovane a pensare criticamente
e a giudicare (krivnein) secondo il proprio orientamento psicologico.
Molte vite del resto sono
composite e variopinte. Nel secondo volume della Recherche di Proust il pittore Elstir dice a Marcel: "Le vite
che ammirate, le attitudini che giudicate nobili, non sono state predisposte
dal padre di famiglia o dal precettore; sono state precedute da esordi ben
diversi, hanno subito l'influsso del male o della banalità che regnavano
intorno a loro. Rappresentano una lotta e una vittoria"[55].
In effetti le parti sostenute
durante una pur breve esistenza di un uomo possono mutare o alternarsi.
Plutarco nota questa
alternanza dell’umana sorte nella prefazione alle Vite di Demetrio e Antonio. Personaggi, entrambi compositi, comunque
adatti piuttosto a fare da paradigmi negativi che positivi: le loro grandi
nature portavano grandi virtù, come grandi vizi: entrambi furono dediti alle
passioni dell’amore e del vino, furono uomini di guerra, munifici, sontuosi, insomma
uJbristaiv , eccessivi. Ebbero grandi successi alternati a
grandi cadute e chiusero in modo simile la loro vicenda terrena. (Prefazione alle Vite di Demetrio e Antonio,
1, 8). Più avanti, raccontando la
Vita del Poliorcete, Plutarco aggiunge: ”Sembra che non ci
sia stato altro re cui la
Fortuna abbia imposto rivolgimenti così grandi e improvvisi
come a Demetrio, e che essa in altre vicende, non divenne altrettante volte
piccola e di nuovo grande, né umile da splendida , e poi di nuovo forte da
misera . Perciò dicono pure che Demetrio nei più gravi sconvolgimenti
apostrofasse la Fortuna
con il verso di Eschilo: "Tu davvero mi rendi tronfio, tu sembri bruciarmi[56]"
( Vita di Demetrio, 35, 3 - 4).
Di Antonio si può mettere in
evidenza la teatralità[57].
Luciano[58]
paragona la nostra vita a una processione
in costume guidata dalla Fortuna che attribuisce le parti agli umani e spesso cambia
maschere e ruoli di alcuni durante il corteo: " Pollavki" de; kai; dia; mevsh"
th'" pomph'" metevbale ta; ejnivwn schvmata"[59].
Si può pensare alle alterne
vicende di Mussolini[60]:
fu un maestro di scuola, un vagabondo, un demagogo, un dittatore e finì davanti
al plotone di esecuzione, come certi personaggi di Márquez. Sentiamo l’incipit
di Cent’anni di solitudine: “ Molti
anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía
si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva
condotto a conoscere il ghiaccio”[61].
giovanni ghiselli
[1]
Leopardi, Palinodia al Marchese Gino Capponi, del 1835, vv. 233 - 235.
[2] M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano. La
prima edizione (in inglese) è del 1926.
[3]
Mimesis (del 1946), p. 45.
[4]
Tucidide, Storie, I, 11, 3. Significa
scarsità di risorse senza le quali secondo lo storiografo della guerra del
Peloponneso non si possono allestire grandi flotte né fare guerre grandi come
quella del Peloponneso.
[5]I,
13, 1. E' l'accumulo di ricchezze necessari allo sviluppo di una grande potenza.
[6]
S. Mazzarino, L'impero
romano, (del 1974) vol. I, p. 214, n. 4.
[7]
Naturalis historia, XVIII, 7.
[8]
Gli Annales, composti da Tacito negli anni successivi al 111 d. C. , dovevano
continuare l'opera di Livio: il titolo dei manoscritti Ab excessu divi
Augusti echeggia il liviano Ab urbe condita. Dell'opera che doveva
andare dalla morte di Augusto a quella di Nerone ci sono arrivati i libri I - IV,
un frammento del V e parte del VI con gli avvenimenti dalla morte di Augusto
(14 d. C. ) a quella di Tiberio (con una lacuna per gli anni 29 - 31); inoltre
i libri XI - XVI con il regno di Claudio, dal 47, e quello di Nerone fino al 66.
[9]
S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, p. 458.
[10]
Svetonio, Vita di Augusto, 42.
[11]
S. Mazzarino, L'impero romano I, p. 148.
[12]M.
Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p. 115 ,
[13]M.
Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p. 114.
[14]
Tacito, Annales , III, 55, le famiglie ricche dei nobili o distinte nel
segnalarsi.
[15]
Annales, III, 53.
[16]
S. Mazzarino, L'impero romano I, p. 147.
[17]
S. Mazzarino, L'impero romano, 1, pp. 214 - 215.
[18]
Callisto, Pallante e Narcisso.
[19]
S. Mazzarino, L'impero romano, 1, pp. 215 - 216.
[20]
P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, p. 2695.
[21]
R. Luperini, Insegnare la letteratura
oggi, p. 12.
[22]
P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, p. 71.
[23] Ai professori che ogni giorno si apprestano a dare
giudizi sulle capacità intellettuali dei loro allievi un invito a riflettere
prima su quanta educazione emotiva hanno distribuito, perché, a se stessi
almeno, non possono nascondere che l’intelligenza e l’apprendimento non
funzionano se non li alimenta il cuore” (U. Galimberti, L’ospite inquietante, p. 48).
[24] 59 a. C. - 17 d. C. Ha scritto Ab Urbe condita libri. L’opera
comprendeva 142 libri che partivano dalle origini mitiche e arrivavano al 9 a. C.
Ci sono arrivati i primi dieci, poi quelli dal 21 al 45 e frammenti degli altri.
[25] Storie , Praefatio,
10.
[26]
S. Mazzarino, Il pensiero storico
classico, 3, p. 14
[27]
Cfr. cap. 40 e cap. 48 (ndr).
[28]
S. Mazzarino, Il pensiero storico
classico, 2, p. 464.
[29]
S. Mazzarino, Il pensiero storico
classico, 2, p. 459 e p. 460.
[30]
200 ca - 118 ca a. C. Scrisse Storie
che trattavano il periodo compreso tra il 264 e il 146 a. C. Ci sono arrivati i
primi 5 integrali; degli altri possediamo epitomi e frammenti, anche
consistenti (in particolare quelli dei libri VI - XVIII).
[31]Vissuto
nel I sec. a. C. è autore della Biblioteca storica, una grande
compilazione di storia universale. Andava dalle origini all’età di Giulio
Cesare. Constava di 40 libri. Ce ne sono arrivati i primi cinque e frammenti
degli altri (n. d. r. ).
[32]
Canfora, Storia Della Letteratura Greca
, p. 528
[33] Ateniese, visse tra il il 460 ca e il 400 ca a. C. Scrisse
la Storia
della Guerra del Peloponneso in 8
libri che raccontano, dopo una breve introduzione, con proemio, capitoli
metodologici, archeologia, pentecontaetia, gli anni dal 431 all’autunno del 411.
Gli anni successivi della grande guerra tra i Greci si trovano nelle Elleniche di Senofonte probabilmente
composte su carte tucididee.
[34]A.
Momigliano, Lo sviluppo della biografia
greca , p. 51
[35] Tucidide fa l'elogio finale di Pericle dicendo che
era incorruttibile al denaro e teneva in pugno la massa lasciandola libera
("katei'ce to;
plh'qo" ejleuqevrw"") e
non si faceva condurre più di quanto la conducesse ( Storie, II, 65, 8).
[36] 50 d. C. ca - 120 d. C. ca.
[37] Prefazione alle Vite di
Emilio Paolo e Timoleonte
[38]Storia Della Letteratura Greca , Laterza,
Bari, 1994, p. 562.
[39]Citazione
dall'Iliade : "oJvsso" e[hn oi'Jov" te", 24,
630, detto di Achille.
[40]G.
Camassa, Lo Spazio Letterario Della
Grecia Antica , Vol. I, Tomo III, p. 329.
[41]Fr.
579 Nauck, v. 1.
[42]
I, 24: "kai; toi'si ejselqei'n ga; r
hjdonh; n eij mevvlloien ajkouvsesqai tou' ajrivstou ajnqrwvpou ajoidou'".
[43]
Montaigne , Saggi, (del 1588), p. 206.
[44]Mazzarino,
op. cit. , p. 138. L'autore continua così: "significa Robespierre e
Verginaud e Danton; solo uno storico di razza (sia pure uno storico moralista, storico
dell' ethos di grandi individui)
poteva trasmetterci l'eredità classica, in quanto eredità di tradizione storica,
in maniera così rilevante e decisiva.
[45]Traduzioni
approvate, da Montaigne che, qualche anno più tardi, scrive nei Saggi : " Io do giustamente, mi
sembra, la palma a Jacques Amyot su tutti i nostri scrittori francesi, non solo
per la semplicità e la purezza del linguaggio, nella quale supera tutti gli
altri, né per la costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo
sapere, poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore tanto spinoso.
. . ma soprattutto gli sono grato di aver saputo discernere e scegliere un
libro tanto degno e tanto appropriato per farne dono al suo paese. Noialtri ignoranti
saremmo stati perduti se questo libro non ci avesse sollevato dal pantano; grazie
a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno lezione ai maestri
di scuola; è il nostro breviario"(II, 4, pp. 467 - 468).
[46]In
Opere 1932 - 1973 , trad. it. Bompiani,
Milano, 1990, p. 1812.
[47]Vita , Epoca terza, cap. VII. Siamo nel
1769; Alfieri è “ripatriato per un mezz’anno” .
[48] F. De Sanctis, Storia
della letteratura italiana, 2, p. 371.
[49]18 ottobre 17 97.
[50]
F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita (del
1874), in Considerazioni inattuali, II,
p. 92 e p. 93.
[51]
F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali, II, p. 116.
[52]
F. Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita, in Considerazioni inattuali, II, p. 125.
[53]
Ricordi, 18. La redazione definitiva
dei Ricordi è del 1530.
[54]
Ricordi, 6.
[55]
M. Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 468.
[56] (fr. 259 N. 2)
[57] Nella Vita di
Antonio, accoppiata con quella di Demetrio, Plutarco cita due versi dell’Edipo re (il quarto leggermente
modificato e il quinto senza ritocchi poli~ …) per
significare la dissolutezza pestifera di Antonio: quando il triumviro si recò
in Oriente, l’Asia intera, come quella famosa città di Sofocle (Tebe) era piena
di fumi di incenso, e insieme di peani e di gemiti (24, 3).
Subito dopo Plutarco racconta
che Antonio entrò in Efeso preceduto da donne vestite come le Baccanti e da
uomini e fanciulli abbigliati da Satiri e da Pan; la città era piena di edera, tirsi,
zampogne e flauti e la gente acclamava Antonio come Dioniso che dà gioia e
amabile. Per alcuni sarà stato tale, ma per i più era
j
Wmhsth; ~ kai; jAgriwvnio~ (24, 4
- 5), Dioniso Crudivoro e Selvaggio.
Quando Cleopatra si recò da
lui risalendo il fiume Cidno, con teatralità ancora più vistosa, si diffuse
dappertutto la voce che Afrodite con il suo corteo andava da Dioniso per il
bene dell’Asia (wJ~
hJ jAfrodivth kwmavzoi pro; ~ to; n Diovnuson ejp j ajgaqw`/ th`~ jAsiva~, 26, 5). Quindi Plutarco racconta alcune buffonate che
i due amanti compivano divertendo gli Alessandrini i quali dicevano che Antonio
con i
Romani usava la maschera
tragica e con loro quella comica ( levgonte~ wJ~ tw`/ tragikw`/ pro; ~ tou; ~ JRomaivou~
crh`tai proswvpw/, tw`/ de; kwmikw/` pro; ~ aujtouv~, 29, 4).
[58]
120 ca. d. C. 180 ca.
[59]
Mevnippo" h] nekuomanteiva, 16.
[60]
Più avanti (16, 5) ricorderemo anche Saddam Hussein barbaramente impiccato da
poco.
[61]
García Márquez, Cent’anni di solitudine, p. 9.
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