foto di Elisabetta Xsavar |
Continuo a raccontare la storia del mio debutto come
insegnante. Sono sull’autostrada sul calar della notte, poco prima di Padova.
Solo le foglie gialle del granoturco conservavano il ricordo
confortante dell’estate, dell’Ungheria, della puszta, delle giovani donne incontrate nel mio peregrinare non
privo di consolazioni.
Uscii dalla mini
minor, mi appoggiai a un muretto schiarito da una luce elettrica e aprii la
carta stradale. Allora una gatta nera, macchiata di bianco sulla testa, azzurra
di occhi, una creatura insomma con i colori della mamma già un poco incanutita,
venne a strofinare la schiena sulle mie gambe, quindi saltò sul muretto e mi
accarezzò la mano destra con la fronte screziata, più volte. Poi si fermò e si mise
a fissarmi. Voleva mangiare probabilmente, ma io pensai che volesse dirmi o
almeno significarmi qualcosa. Sembrava anche chiedermi affetto, ma tutto quello
che avevo dovevo usarlo per me, così solo nel mondo e dubitoso di tutto. Non
ero nemmeno sicuro che mi sarebbe piaciuto insegnare.
Allora non potevo sapere che educare i giovani sarebbe stato
lo scopo della mia vita e che nel farlo avrei impiegato le mie energie
migliori, quasi tutto il mio tempo, e che per adoperarmi con impegno estremo avrei
rinunciato perfino ad avere dei figli miei. Ora lo so, e non ne sono per niente
pentito o dispiaciuto, anzi, se ci sarà un eterno ritorno lo rifarò tutte le
volte.
Quindi mi chiesi come
fosse auspicata la vita che mi aspettava. Non tanto male, risposi a me stesso.
La stagione era decadente ma dolce, la gatta era nera eppure chiazzata di
bianco, comunque era una bestiola viva attirata da me. Poi era una femmina,
femmina felina e graziosa. Un giorno avrei suscitato attenzione e fiducia in
femmine umane sensibili e intelligenti. “Femina
parente di felix”, pensai.
Nella guida trovai il paese dove mi spingeva il destino, ma
la strada migliore per arrivarci non sapevo individuarla, sicché mi rivolsi al
benzinaio, un indigeno che però non si raccapezzava, non sulla carta mia…
“Aspetta un momento” mi disse e andò a guardare la sua. “Oddio, come deve
essere immensamente piccolo e sperduto il paese del mio esordio!”, pensai.
Il benzinaio tornato, mi consigliò di passare per
Cittadella: non era la via più breve che attraversava Piazzola sul Brenta, ma
la più facile da trovare per uno non pratico della zona. Così uscii
dall’autostrada, mi aggirai dentro Padova finché a fatica trovai la strada per
la città murata, distante trenta chilometri. Mi venne in mente l’arrivo a Budapest
e la lunga, faticosa, quasi angosciosa ricerca della Üllői út, la strada numero 4, per Debrecen[1]. “Fata viam invenient”[2], pensai di nuovo.
All’interno della mia vita ci sono stati frequenti ritorni
in punti simili ma sempre più alti, con un movimento a spirale.
Dopo una mezz’ora di guida non ero sicuro di non avere
sbagliato e mi fermai per chiedere: l’interpellato mi disse che dovevo andare
avanti, con un accento che mi fece venire in mente Danilo[3], la
palinka all’albicocca e Debrecen. “Buon segno”, pensai. Poi mi vennero in mente
l’eterno ritorno di Nietzsche, l’ajnakuvklwsi"
di Polibio e l’orbis
di Tacito, in ordine sparso. Cominciavo a rivedere mentalmente quello che avrei
potuto raccontare ai ragazzini per acculturarli innanzi tutto, quindi per
educarli.
Oggi queste funzioni si sono perse: la scuola è diventata il
luogo della burocrazia più inutile e vana, frustrante per i professori, noiosa
se non anche peggio per molti ragazzi. Piace forse a quelli che hanno la
vocazione burocratica, a parecchi presidi dunque e a certi insegnanti. La
maggior parte dei dirigenti della “buona scuola” premierà i docenti fatti come
loro, non certo gli educatori, gli studiosi che costituiscono un termine di
confronto e un rimprovero a chi passa il tempo chiacchierando e riempiendo
scartoffie, senza mai leggere libri, studiarli, impararli, senza amare altro
che l’approvazione del burocrate superiore.
Dopo qualche altro chilometro superai un passaggio a livello
e vidi un cartello con la scritta “Cittadella”. “Meno male”, pensai.
giovanni ghiselli
la scuola sicuramente sta andando male, e l'università, con quella stupida invenzione del 3+2, anche peggio, ma fortunatamente penso che esistano ancora insegnanti seri e innamorati come te. alla fine sei diventato eternamente genitore, essendo educatore al bello e al bene!
RispondiEliminamaddalena