Pericle copia romana di un originale greco 430 a.C. circa. |
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Ultimo discorso di Pericle (II.
60-64) e giudizio di Tucidide sull’uomo
Nel 430 ci fu la seconda invasione
(deutevra ejsbolhv, 2, 59)
dell’Attica da parte di Archidamo, quindi la peste (hJ novso") che infuriava. Gli Ateniesi volevano venire a
patti con i Lacedemoni e accusavano Pericle di averli persuasi a fare la
guerra.
Pericle dice che si aspettava la
loro collera (ojrghv) e per questo
ha convocato l’assemblea (kai; ejkklhsivan
touvtou e{neka xunhvgagon, 2, 60). Dice che non è corretto prendersela
con lui.
Pericle ricorda di essere filovpoliς
te kai; crhmavtwn kreivsswn (II, 60, 5) amante della città e superiore
al denaro. La guerra è stata decisa da tutti.
La guerra era necessaria per non
cedere.
La sua non cambia, mentre talora
muta quella del popolo.
Dovete imparare a non cedere alle
disgrazie (taĩς xumforaĩς
mh; ei[kein
“ Io sono sempre il medesimo,
dice, e non cambio “kai; ejgw; me;n oJ
aujtov" eijmi kai; oujk ejxivstamai”, ha un’identità sicura, che
non muta, mentre talora varia quella volubile del popolo. Ora voi siete
inficiati da debolezza di pensiero (ejn
tw'/ uJmetevrw/ ajsqenei' th'" gnwvmh"): vedete i mali
presenti e non i vantaggi lontani. La vostra mente è meschina (tapeinh; uJmw'n hJ diavnoia) e non ha la
forza di tener duro (ejgkarterei'n)
nelle decisioni. Dovete pensare alla salvezza comune consolandovi dei lutti
privati. Atene ha il dominio assoluto del mare e nessuno puà ostacolarlo. La terra
devastata in confronto a tale dominio marittimo è come un giardinetto khpivon o un oggetto ornamentale (ejgkallwvpisma, 2, 62, 3) fornitoci dalla
nostra ricchezza. Se saremo sudditi di altri, verrà limitata la nostra libertà,
se invece la salveremo, ricostruiremo ciò che abbiamo perduto. Non dobbiamo
apparire inferiori ai nostri padri (patevrwn
ceivrou") e andare contro i nemici non solo con sicurezza ma con
disprezzo (mh; fronhvmati movnon, ajlla;
kai; katafronhvmati). La iattanza, la vanagloria (au[chma) può esserci anche in un vile, ma
il disprezzo katafrovnhsi" solo
in chi ha fiducia nella propria superiorità di cui ha la piena coscienza (hJ xuvnesi").
Allora è giusto che non evitiate
le fatiche necessarie agli onori (povnoi-timaiv cfr. l’Iliade). Non potete tirarvi indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, 2, 63). wJ"
turannivda ga;r h[dh e[cete aujthvn, oramai l’avete come una tirannide[1],
e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo sarebbe pericoloso. L’inerzia
infatti non salva-to; ga;r a[pragmon ouj
swv/zetai se non è schierata con l’attività e non conviene in una città
che comanda ma in una che è suddita.
Gli attacchi dei nemici erano
previsti, la pestilenza no.
Bisogna sopportare come necessità
(ajnagkaivw") quello che viene
dagli dei e virilmente (ajndreivw") quanto
viene dagli uomini, Questo è nell’ e[qo",
nell’abitudine della nostra città che ha una grandissima rinomanza tra
gli uomini proprio perché non cede alle sventure (dia; to; tai'ς xumforaĩς
mh; ei[kein 64, 2) e perché ha speso in guerra vite umane e fatiche. Per
questo è diventata ricchissima e grandissima. Saremo oggetto di biasimo dagli
accidiosi, di emulazione e invidia dalle persone attive. I più forti non si
abbattono nelle difficoltà e resistono con energia.
Il popolo non mandò più ambascerie
a Sparta ma multarono Pericle. Tuttavia lo rielessero stratego. Morì due anni e
sei mesi dopo lo scoppio della guerra, alla fine del 429,
Tucidide apprezza Pericle: la sua provnoia, gli faceva prevedere che
bisognava curarsi della flotta e non correre rischi (II, 65, 6-7).
Nella veduta tucididea la politica
è l’arte della previsione.
Temistocle è l'eroe di questa intelligenza laica: egli che
"oijkeiva/ xunevsei"
appunto, con la sua facoltà di capire, era "tw'n
te paracrh'ma di j ejlacivsth" boulh'" kravtisto" gnwvmwn",
ottimo giudice della situazione presente attraverso un rapidissimo esame"
e "tw'n mellovntwn ejpi; plei'ston
tou' genhsomevnou a[risto" eijkasthv"" (I, 138, 3), e
ottimo a congetturare il futuro per ampio raggio in quello che sarebbe
accaduto. Prevedeva benissimo i danni o i vantaggi quando erano ancora avvolti
nell’oscurità: “tov te a[meinon h] cei'ron
ejn tw/' ajfanei' e[ti proewvra malista”.
"Per questo più
che lo stesso Pericle, è Temistocle il politico per eccellenza, il modello e
insieme l'ideale: colui nel quale l' eijkavzein
, il ricavare per indizi dall'esperienza del passato l'orientamento per
l'azione, è dote naturale (oijkeiva
xuvnesi"), come Tucidide si esprime nel memorabile elogio che gli
dedica al termine del racconto della sua vicenda estrema"[2].
Dopo la morte di Pericle, gli
Ateniesi vennero fuorviati dai demagoghi
Tucidide fa
l'elogio finale di Pericle dicendo lo statista, per il fatto di essere
chiaramente e assolutamente incorruttibile dal denaro (crhmavtwn te diafanw'~ ajdwrovtato~[3]
genovmeno~ , II, 65, 8), teneva in pugno la massa lasciandola libera
("katei'ce to; plh'qo"
ejleuqevrw"").
“plh`qo~ sono i
cittadini che formano la massa dell’assemblea popolare, la parte più
“democratica” del popolo, in contrapposizione con correnti più conservatrici o
anche oligarchiche”[4].
Pericle era dunque superiore al denaro. Plutarco scrive che
rese la città da grande grandissima e superò in potere molti re e tiranni, ma
non accrebbe di una sola dracma il suo patrimonio privato, quello ricevuto in
eredità dal padre: “miã/ dracmh̃/
meivzona th;n oujsivan oujk ejpoivhsen” ( Vita, 15, 3)
Confronto tra Pericle e Alcibiade che non realizzò i piani
del suo predecessore.
Verso la fine delle Storie di Tucidide si legge che
Alcibiade, quando (nel 411) la flotta di Samo si accingeva a navigare contro
Atene, fermò i marinai nel momento in cui nessun altro sarebbe stato capace di
trattenere la folla: “kai; ejn tw'/ tovte
a[llo" me;n oujd j a]n ei\~ iJkano;" ejgevneto katascei'n to;n o[clon"(VIII,
86, 5); egli però fu responsabile dell'impresa fallimentare di Sicilia che, a
giudizio di Tucidide, fu "peggio di qualsiasi delitto; fu un errore
politico o meglio una serie d'errori"[5].
Sulla vita privata non irreprensibile di Alcibiade, Tucidide
afferma che nutriva desideri troppo grandi rispetto alle sue ricchezze, sia per
l'allevamento di cavalli sia per le altre spese: “ ejpiqumivai" meivzosin h] kata; th;n uJpavrcousan oujsivan ejcrh'to
e[" te ta;" iJppotrofiva" kai; ta;" a[lla"
dapavna""(VI 15, 3); e, per questo essendo criticabile, non
poteva permettersi a lungo l'arroganza con cui diceva: “Kai; proshvkei moi ma'llon eJtevrwn, w\ jAqhnai'oi, a[rcein"(VI
16, 1), spetta a me Ateniesi, più che ad altri comandare.
Pericle
poteva contrastare il dh'mo" fino a
spingerlo all'ira (kai;
pro;" ojrghvn,
II, 65, 8) poiché era inattaccabile nelle questioni di denaro: “ciò gli dava
l'autorità di dire al popolo la verità, anziché piaggiarlo. Egli ebbe sempre le
redini in pugno: se la moltitudine voleva romper la cavezza, egli sapeva
imporlesi e intimidirla; se era abbattuta, sapeva rianimarla. Così Atene sotto
di lui, "non era più una democrazia che di nome, ma in realtà era
l'imperio del primo uomo"[6].
Tucidide
usa un'espressione ( " ejgivgnetov te lovgw/ me;n dhmokrativa, e[rgw/ de; uJpo; tou'
prwvtou ajndro;" ajrchv", II, 65, 9) per la quale Jaeger nota che
"la teoria filosofica posteriore, della costituzione mista quale ottima
forma di Stato, è qui anticipata da Tucidide. La "democrazia"
ateniese non è per lui la realizzazione di quell'esteriore eguaglianza
meccanica che gli uni esaltano quale apice della giustizia, gli altri
condannano quale suo opposto"[7].
La democrazia ateniese del tempo di Pericle, nel discorso
epitafico di Aspasia riferito da Socrate nel Menesseno di Platone è un’aristocrazia con il consenso della massa:
“met j eujdoxiva~ plhvqou~ ajristokrativa”
(238d).
Costituzione mista fu per Tucidide quella del governo dei
5000 del 411. La definisce infatti metriva
xuvgkrasiς, misurata mescolanza di oligarchia e democrazia (VIII, 97, 2)
E’ quello che Canfora chiama “ Il meccanismo della circolarità
masse-capi….Il demo crede di imporre il proprio volere ma è il capo che lo
pilota, anche attraverso i “retori minori”…Quella circolarità riemerge, sulla
scala dei millenni, ogni volta che un moto di popolo, un ridestarsi del
“popolo”, prende corpo e dà forma a uno Stato”[8].
Alexis De Tocqueville nota che
“Atene, con il suo suffragio universale, non era dunque, dopotutto, che una repubblica
aristocratica in cui tutti i nobili avevano eguale diritto di governo”[9].
Era insomma una aristocrazia democratica, e, per certi versi, socialista.
“Pericle è considerato in particolare come colui che
“reggeva saldamente la folla, pur nella libertà, e la guidava più di quanto non
fosse da essa guidato” (katei'ce to;
plh'qo" ejleuqevrw", kai;
oujk h[geto ma'llon uJp j aujtou' h[ aujto" h\ge, II 65, 8), colui
che aveva trasformato, quasi insensibilmente e senza pregiudizio alcuno per i
cittadini, la democrazia vigente a Atene in una sorta di regime personale: “a
parole si trattava dunque di una democrazia, ma in realtà del governo del primo
cittadino” (II 65, 9). Approvare in pieno e con entusiasmo la politica
periclea, per un ateniese del tempo di Tucidide, significava sostanzialmente
accettare le due realtà che ne costituivano le emanazioni più dirette: il
regime democratico e l’impero. Qualche riserva, tuttavia, Tucidide esprime sia
sulla politeia democratica, sia sul
ruolo imperiale della città. Per quanto riguarda la democrazia, la questione è
abbastanza semplice: lo storico manifesta con insistenza giudizi negativi e
talvolta vero e proprio disprezzo nei confronti delle masse, che gli appaiono
incompetenti, incostanti e volubili (cfr. II 65, 4; IV 28, 3; VIII 97, 2); di
conseguenza, la sua adesione ad un regime che prevedeva e consentiva di fatto
la partecipazione di tutti i cittadini al governo dello Stato era
necessariamente subordinata alla esistenza di una qualche forma di controllo
delle forze popolari. Uno dei grandi meriti di Pericle era stato appunto quello
di avere esercitato una funzione di controllo sulla massa.
Il giudizio espresso a proposito del governo dei Cinquemila
instaurato nel 411 a .
C. costituisce un preciso riscontro a questa interpretazione della posizione
politica di Tucidide: “allora per la prima volta, almeno per quanto riguarda i
miei tempi, gli Ateniesi risultarono retti da un governo assai buono. Si ebbe,
infatti, una moderata combinazione fra gli oligarchici e la massa (metriva ga;r h{ te ej~ tou;~ ojlivgou~ kai; tou;~
pollou;~ xuvgkrasi~ ejgevneto) e ciò contribuì più di ogni altra cosa a
sollevare la città da una situazione che era diventata brutta” (VIII 97, 2).
Morto Pericle , vennero alla ribalta personaggi che non solo
non erano in grado di esercitare alcuna funzione di controllo, ma subivano
anche forti condizionamenti dalla massa ed erano più inclini a compiacerla per
soddisfare le ambizioni personali che a contrastarla per salvaguardare i
superiori e generali interessi dello Stato (II 65, 10).
“Soltanto un regime
di democrazia moderata o di oligarchia allargata, che comportava
l’estromissione dalla vita politica di una parte consistente della cittadinanza
sulla base dell’assenza della necessaria qualificazione censitaria, poteva
incontrare l’approvazione e il plauso di Tucidide”[10].
La guerra dunque fu
persa per la mancanza di un uomo simile, il vero capo nell'antico senso
solonico, mentre i suoi successori commisero una serie di sbagli, soprattutto
quello di fare la spedizione in Sicilia: “ hJmarthvqh
kai; oJ ej" Sikelivan plou'""(II 65, 11) senza avere
assegnato a chi partiva i mezzi sufficienti. Per giunta seguirono calunnie e
discordie tra gli Ateniesi. Eppure, dopo la catastrofe siciliana, Atene
resistette per dieci anni ai tanti nemici, a quelli di prima, e a quelli che si
aggiunsero in seguito alla sconfitta, compreso il figlio del re di Persia, Ciro:
“ o}" parei'ce crhvmata
Peloponnhsivoi" ej" to; nautikovn" (Tucidide, II 65, 12)
il quale forniva ai Peloponnesiaci il denaro per la flotta, fatto che segnò la
fine della guerra e, dal punto di vista della letteratura, che è il nostro,
provocò la chiamata a raccolta di tutte le energie contro i Persiani da parte
di Euripide nell'Ifigenia in Aulide in
particolare, quando la ragazza proclama la necessità della guerra santa contro
i barbari di Oriente (vv. 1397-1401 che vedremo più avanti).
[1]
Cfr. le parole simili di Cleone in III, 37, 2.
[2]Canfora ,Antologia Della Letteratura Greca , II
vol., p. 459.
[3] Si pensi ai basilh'~ dwrofavgoi,
i re divoratori di doni, cui Esiodo
chiede di raddrizzare i giudizi (Opere,
263-264).
[4]
Avezzù, Guidorizzi, Edipo a Colono,
p. 216.
[5]Jaeger, Paideia , I vol., p. 677.
[6] Jaeger, op. cit., p. 680.
[7]Op. cit. p. 684. La costituzione è un nutrimento di uomini (trofh; ajnqrwvpwn), di persone buone, se è buona, di individui malvagi se è
cattiva. Quella ateniese ha nutrito
uomini di valore. p. 198. Essa non esclude nessuno per
debolezza sociale, né per povertà, né per oscurità dei padri; e neppure
preferisce alcuno per i motivi contrari. I medesimi pregi vengono attribuiti
alla “sua” democrazia dallo stesso
Pericle nel discorso che gli attribuisce Tucidide in Storie II 35 sgg. quando lo stratego fa l’encomio dei caduti nel
primo anno di guerra e l’elogio di Atene, la scuola dell’Ellade (II, 41).
[8]
Luciano Canfora, Legge o natura? In NOMOS
BASILEUS, p. 59
[9]
La democrazia in America, p. 479
[10]
Mauro Moggi, Op. cit., p. 2303-2304.
Giovanna Tocco
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