Philippe-Laurent Roland, Omero |
Non abbiamo bisogno di un Omero
elogiatore
Tucidide, Storie, II, 41, 4. Siamo e saremo dai posteri senza avere bisogno
né di un Omero elogiatore (oujde;n
prosdeovmenoi ou[te JOmhvrou ejpainevtou) né di chiunque altro che
diletterà con i versi sul momento ( ou[te
o{stiς e[pesi me;n to; aujtivka
tevryei).
Oggi il politico ha bisogno non di
un Omero che lo celebri, ma della televisione che gli dia visibilità.
Alessandro avrebbe voluto essere
cantato da Omero: “cum in Sigeo ad
Achillis tumulum adstitisset, “o fortunate, inquit, adulescens, qui tuae
virtutis Homerum praeconem inveneris! (Cicerone, Pro Archia, 24)
( Cfr. cfr to; mh; muqw'de" di I, 22, 4" e la mancanza del
favoloso di questi fatti , verosimilmente, apparirà meno piacevole
all'ascolto".-) e, subito dopo, “infatti come un possesso per l'eternità
più che come declamazione da udire per il momento di una gara, essa è
composta”.
Tutto il mondo è pervio agli
Ateniesi
I, 40, 4: La verità metterà nudo
il significato dei fatti e noi saremo ammirati per avere reso tutto il mare e
la terra accessibile (ejsbatovn)
alla nostra audacia (th̃/ hjmetevra/ tolmh/) avendo edificato
ovunque monumenti eterni delle nostre imprese buone e cattive
Il secondo coro (vv. 301-379)[1]
della Medea di Seneca maledice
la navigazione come attività troppo audace per l'uomo: “ Audax nimium, qui freta primus/rate tam
fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit
auris/ dubioque secans aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae
mortisque vias/nimium gracili limite ducto" (vv. 301-308),
audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e
vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti/ e fendendo
gli spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole
guidato sul confine troppo sottile tra le vie della vita e della morte
Il primo a violare il
mare è stato Giasone la cui audacia ha trovato degni antagonisti nei freta perfida. Audax nimium (v. 301) è ripreso da
avidus nimium navita (v. 326), il
marinaio che, troppo avido, vuole ormai tutti i venti. "L'avverbio è
segnale esplicito e 'tecnico' del motivo della hybris dell'uomo che 'forza' la
natura"[2].
Cfr. il primo stasimo dell’Antigone
di Sofocle.
La bellezza nella morte (cfr. Aiace, Antigone di Sofocle;, Polissena nell’Ecuba di Euripide).
II, 41, 5
Per una tale città dunque, ritenendo
giusto che non venisse loro tolta, i nostri concittadini morirono combattendo
nobilmente gennaivwς ,
II,
42,1
Mi sono dilungato a parlare della
nostra citrtà per insegnarvi –didaskalivan
te poiouvmenoς- che il nostro agone per una tale città non è lo stesso
che hanno altri.
Componente didascalica e
agonistica dunque.
Nietzsche scrive: “Indizi di una
natura aristocratica: non degradare mai i propri doveri, pensando che siano i
doveri di tutti; non voler rinunciare mai alla propria responsabilità e non
volere dividerla con nessuno"[3].
II, 42, 2
Il valore dei morti ha reso belle
le mie parole. Il discorso corrisponde ai fatti.
Vizi privati e pubbliche virtù.
II, 42, 3
Quei morti possono avere compiuto
anche azioni meno belle ma hanno fatto sparire il male con il bene e recarono
pubblico vantaggio-koinw̃ς wjfevlhsan-più di quanto abbiano
danneggiato con i loro vizi privati.
Un tocco di eleganza e di
originalità: non segue il luogo comune del de
mortuis nihil nisi bonum.
II, 42, 4
Nessuno di loro si rammollì (ejmalakivsqh) godendo della ricchezza, né
rimandò il pericolo, ma stimò questo cimento il più nobile dei rischi (kinduvnon kavlliston) .
Preferirono soffrire (paqeĩn)
che salvarsi cedendo (h] to; ejndovnteς sw/vzesqai) e nella brevissima occasione
offerta dal destino se ne andarono al colmo della gloria.
Vediamo qui l’ideale eroico del
non cedere (Achille nell’Iliade,
Callino e Tirteo (VII secolo).
Il guerriero piantato in prima
fila è xuno;n ejsqlovn, un bene
comune per la città e il popolo. Muore combattendo in prima fila con i piedi
ben fissati al suolo e mordendo il labbro con i denti ceĩloς ojdoũsi
dakwvn (Tirteo, fr. 10 W. 32)
L’Achilleide di Stazio racconta l’educazione del Pelide da parte di
Chitone che spingeva il ragazzo a battere nella corsa i cervi veloci e i
cavalli dei Lapiti (II, 111-113)
L’eroe non cede (Achille in Iliade XIX, 423 ouj lhvxw, non cederò) e Pericle nel terzo discorso della
fine estate del 430 dice che Atene ha grandissima rinomanza tra gli uomini dia; to; taĩς xumforaĩς mh; ei[kein,
(II, 64, 3) per il fatto che non cede alle disgrazie.
Platone nel Fedro dice che hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche
quelli che fanno prevalere la parte migliore dell’anima: l’auriga aiutato dal
cavallo bianco.
Ma Leopardi nello Zibaldone sostiene che “l’eroismo e la
perfezione sono cose contraddittorie. Ogni eroe è imperfetto” (471). Enea è
meno bello di Achille.
II, 43, 1
Questi caduti furono tali da
convenire alla città (proshkovntwς th̃/
povlei ejgevnonto)
Le hanno dato un vantaggio. I vivi
devono seguire il loro esempio
La tomba come altare.
II, 43, 2
Dando la loro vita per il bene
comune hanno ricevuto una lode che non invecchia (ajghvrwn e[painon ejlavmbanon) e una tomba dove la gloria
rimane indimenticabile.
La loro tomba è un’ara, come
quella dei caduti alle Termopili.
Simonide elogia Leonida e i suoi opliti morti per ritardare
l'avanzata di Serse (fr.5 D.):
"dei morti alle Termopili
gloriosa è la sorte, bello il destino,
un altare è il sepolcro (bwmo;~
d j o tavfo~), e invece dei lamenti c'è il ricordo, e il compianto è un
encomio (oi\kto~ e[paino~)
Un sudario del genere né ruggine
né il tempo che tutto doma (oJ
pandamavtwr crovno~[4])
oscurerà.
Questo recinto sacro di uomini prodi si prese
come custode la gloria dell'Ellade: lo testimonia anche
Leonida
re di Sparta che ha lasciato un grande ornamento
di valore, e fama perenne.
Nell’Eracle di Euripide, il Coro dei vecchi Tebani dice: il valore delle
imprese nobili è l’ornamento dei morti (“gennaivwn
d j ajretai; povnwn toĩς qanoũsin a[galma” (357-358).
In tempi moderni, oltre Leopardi che traduce letteralmente bwmo;~ d j o tavfo~ con "la vostra tomba è un'ara" (All'Italia , v.125), l'episodio torna
diverse volte nella poesia.
In quella
ottocentesca italiana di spirito patriottico-risorgimentale: prima di Leopardi,
Foscolo nel carme Dei Sepolcri (98)
ricorda che le tombe erano "are a' figli".
“Testimonianze ai fasti eran le tombe
ed are a’ figli e uscian quindi i responsi
de’ domestici Lari e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento” (I Sepolcri, 97-100)
II, 43, 3
Ogni terra è tomba degli uomini
insigni il cui ricordo aleggia ovunque.
II, 43, 4
Voi, emulando questi e
considerando felicità la libertà (to;
eu[daimon to; ejleuvqeron kribnante~), e la libertà coraggio (to; d’ ejleuvqeron to; eu[yucon), non
considerate con timore i rischi della guerra.
Felicità invero è la coincidenza
tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E’ un buon rapporto
con il daivmwn nostro. L’infelicità
è lo squilibrio tra la potenza e l’atto.
II, 43, 5-6
Più dolorosa della morte è la sventura
che sopravviene con la viltà.
II 44, 1
Morire può coincidere con essere
felici. Quei morti hanno compiuto la vita felicemente.
Cfr. La sapienza silenica
II, 44, 2-3-4
I genitori dei morti devono
consolarsi pensando alla gloria. I più giovani possono avere la speranza di
altri figli. La gloria non invecchia ed essere onorati è il guadagno più grande
II 45, 1-2
I morti hanno lasciato un grande
esempio e una grande gara ai figli e ai fratelli (oJrw̃ mevgan to;n ajgw̃na). Cfr. la mentalità agonistica dei
Greci
Il vanto delle donne sarà non
essere inferiori alla loro natura, e buona sarà la reputazione di quella la cui
rinomanza in lode o biasimo sarà minima tra gli uomini.
II, 46, 1-2
I sepolti sono stati onorati e i
loro figli saranno mantenuti a spese pubbliche. Ora che avete pianto
abbastanza, andate a casa.
II, 47, 1
Tale discorso cadde nell’inverno
(431-430) e passato questo finiva il primo anno di guerra.
continua
[1]
In dimetri anapestici (quattro piedi anapestici). Sono monometri (due piedi
anapestici) i versi 317, 328, 379.
[2] G. B. Conte, op. cit., p. 346.
[3]Di là dal bene e dal male , Che cosa è
aristocratico, 272. 1886
[4] Nella prima scena di Love’s Labour’ s lost (del 1595) Ferdinando re di Navarra definisce
il tempo “cormorant devouring Time”
(I, 1), il cormorano che ci divora. In Pericle,
principe di Tiro (1608) “Time ‘s the
king of men;/He’s both their parent and he is their grave,/And gives them what
he will, not what they crave” (II, 3), il Tempo è il re degli uomini, è
insieme il loro padre e la loro tomba, e dà loro ciò che vuole, non quello che
essi desiderano.
Eroismo e perfezione,questo tema mi fa riflettere. Giovanna Tocco
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