Leo Von Klenze, Atene (nell'età classica) |
PER VISUALIZZARE IL GRECO CLICCA QUI E SCARICA IL FONT HELLENIKA
Critiche alla democrazia ateniese
Nella Costituzione
degli Ateniesi pseudosenofontea, scritta da un pubblicista di parte
oligarchica, il dialogante A biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e
sostiene che essa è la conseguenza dell’impero marittimo: la canaglia ha preso
il potere e ha reso forte la città o{ti oJ
dh'mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau'~ (1, 2), in quanto è il popolo che
fa andare le navi. E aggiunge: “I migliori sono nemici della democrazia poiché
nei bevltistoi c’è il minimo di ajkolasiva, e di ajdikiva (sfrenatezza e ingiustizia). Nel popolo invece (ejn de; tw`/ dhvmw/) c’è il massimo di ajmaqiva, ignoranza, ajtaxiva, disordine e ponhriva, cattiveria e povertà che spinge
alle turpitudini a[gei ejpi; ta; aijscrav.
Nel popolo poi c’è ajpaideusiva,
l’incultura che spesso nasce dall’indigenza.
Senofonte indica invece l’esemplarità della Costituzione
spartana: Licurgo non ha imitato altre costituzioni ma ha scelto l’opposto
rispetto alla maggior parte di esse e ha reso la sua città superiore alle altre
nella felicità. Licurgo capì che oiJ a[jponoi,
quelli che non si sobbarcano le fatiche diventano gonfi (pefushmevnoi-fusavw “gonfio”) aijscroiv,
“brutti” e ajsqenei`~ “deboli”. (Costituzione degli Spartani, I).
Nell’Agesilao,
Senofonte scrive che la monarchia spartana si conserva ininterrotta (sunech;~ basileiva) , mentre gli altri
governi di ogni tipo non durano nel tempo.
Polibio individua la prima Costituzione mista (mikth; politeiva) nella rJhvtra di Licurgo (VI, 3, 8). C’erano i re,
la gerousiva, l’Apella e gli Efori
che sindacavano l’operato dei potenti.
Isocrate nell’Areopagitico,
il principale scritto di politica interna (del 356) scrive che la Costituzione non è
altro che l’anima dello Stato (e[sti ga;r
yuch; povlewς oujde; e{teron h}
politeiva (14)
Gli studi classici e la scuola
Il liberal conservatore Tocqueville voleva ridurre al minimo
le scuole classiche in quanto c’è il rischio che producano giacobini e
rivoluzionari (La democrazia in America,
1840). Il comunista Gramsci, invece, sosteneva che il latino e il greco sono il
più efficace strumento di disciplina intellettuale.
Democrazia contiene la parola kravtoς
che secondo i critici di questo regime può significare “strapotere dei non
possidenti”, come ricorda Canfora
“E’ nel fuoco di questi problemi
che nasce la nozione-e la parola-democratìa,
a noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello “scontro”, come
termine di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo “strapotere” (kràtos) dei non possidenti (dèmos) quando vige, appunto, la
democrazia”[1].
Aristofane, in forma comica, poi Platone e Aristotele
denunciano la demagogia, il disordine e la corruzione di questo sistema.
Cfr. Le Vespe di
Aristofane del 422, dove il commediografo mette in rilievo la parzialità
dell’Eliea che in origine era una corte d’appello istituita da Solone, poi
ampliata fino a seimila giudici.
Il figlio di Filocleone esorta il “babbino”(pappivdion, 655) a calcolare qual è il
tributo (to;n fovron) che Atene riceve
dalle città alleate poi tutte le altre rendite (tevlh,
imposte, miniere, mevtall j,
mercati, porti, confische 649)[2].
Gli stipendi dei 6000
eliasti arrivano 150 talenti (un talento equivalgono a 6000 dracme a 36 mila
oboli. Una dracma=6 oboli)
Il vecchio ci rimane male: nemmeno la decima parte?
E gli altri quattrini?
Il figlio risponde che vanno ai demagoghi che adulano la
folla e prendono cinquanta talenti alla volta dagli alleatti terrorizzandoli
prima, poi facendosi corrompere
Tu ti accontenti di rosicchiare i rimasugli del potere (672)
dice Bdelicleone a suo babbo.
Platone nell'VIII libro della Repubblica
biasima la mancanza di serietà della democrazia, una costituzione che non si dà
pensiero delle abitudini morali di chi fa politica, ma onora chi dice di essere
amico del popolo.
E' una costituzione populista, piacevole, anarchica e variopinta, che
distribuisce una certa uguaglianza nello stesso modo a uguali e disuguali (hJdei'a politeiva kai;
a[narco" kai; poikivlh, ijsovthtav tina
oJmoivw~ i[soi~ te kai; ajnivsoi~ dianevmousa, 558c).
Un'uguaglianza divaricata dalla giustizia dunque se è vero quanto dice
Don Milani: "Perché non c'è nulla che sia ingiusto quanto far le parti
eguali fra disuguali"[3].
Io credo che sia più ingiusto fare parti troppo diverse tra persone che
sono sostanzialmente uguali come siamo noi uomini.
I demagoghi beniamini del popolo furono via via Cleone (fino al 422),
Iperbolo (fino al 417) e Cleofonte (fino al 404), ma Platone ( nel Gorgia) non salva nemmeno Temistocle,
Cimone e Pericle. Costoro anzi, a[neu swfrosuvnh~ kai; dikaiosuvnh~, saggezza e giustizia, hanno riempito la
città di porti e di altre simili sciocchezze rendendola gonfia e purulenta
invece che grande: oijdei` kai; uJpoulo;~ ejsti (Gorgia, 519A). Platone li
indica quali tou;~
aijtivou~ tw`n kakw`n, le cause
dei mali.
Ma torniamo al lovgoς ejpitavfioς.
ejleuqevrwς… politeuvomen, liberamente viviamo da cittadini (II, 37,
2)
Parte importante di questa libertà nella cultura logocentrica, e
parlata, dei Greci è la parrhsiva,
come si legge nello Ione e nelle Fenicie di Euripide (Polinice).
Anche la nostra Costituzione conferisce somma importanza alla libertà
di parola: "Articolo 19: "Tutti hanno diritto di professare
liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il
culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Articolo 21: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il
proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione".
Pericle poi ricorda ouj paranomoũmen
(II, 37, 3) , non trasgrediamo le leggi per paura (dia; devo~)[4], soprattutto obbediamo a quelle poste a
tutela di chi subisce ingiustizia[5]
(o{soi te
ejp j wjfeliva/ tw̃n ajdikoumevnwn), e anche se non sono scritte (o{soi a[grafoi o[nteς) portano un disonore riconosciuto da tutti (aijscuvnhn
oJmologoumevnhn fevrousin).
Le leggi
Il dibattito leggi scritte o no si fa a distanza, tra le opere di
Sofocle (Antigone[6],
Edipo re[7]),
Euripide (Supplici), Antifonte
sofista (Della verità la legge
danneggia la vita), Isocrate (Archidamo),
Alcidamante (Messeniaco), Platone (il
personaggio Callicle del Gorgia: le
leggi sono vincoli para; fuvsin, mentre kata; fuvsin è il diritto del più forte di prevalere
483e) e chissà quanto se ne parlava.
Manzoni in I promessi sposi fa
dire a Don Abbondio: "Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione;
si tratta di forza" (cap. II).
E nel III capitolo il dottor Azzecca-garbugli dice a Renzo:
"perché, vedete a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno
è innocente". E "mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole,
Renzo lo stava guardando con un'attenzione estatica, come un materialone sta
sulla piazza guardando al giocator di bussolotti che, dopo essersi cacciato in
bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non
finisce mai".
Nella Vita di Solone
dello stesso Plutarco troviamo una derisione delle leggi scritte da parte di
Anacarsi che fu ospite e amico del legislatore Ateniese. Lo Scita dunque
derideva l’opera di Solone che pensava di frenare l’iniquità dei cittadini con
parole scritte le quali, diceva, non differiscono affatto dalle ragnatele (mhde;n tw`n ajracnivwn diafevrein, 5, 4),
ma come quelle trattengono le prede deboli e piccole, mentre saranno spezzate
dai potenti e dai ricchi (uJpo; de;
dunatw`n kai; plousivwn diarraghvsesqai).
Le cose poi andarono secondo le previsioni di Anacarsi il
quale disse anche, dopo avere assistito all’assemblea degli Ateniesi, di essere
stupito del fatto che presso i Greci parlassero i sapienti ma decidessero gli
ignoranti (o{ti levgousi me;n oiJ sofoi;
par j { Ellhsi, krivnousi d j oiJ ajmaqei`~ (5, 6).
Le leggi dunque colpiscono solo i deboli
Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono
fatte a favore delle persone colte e ricche”[8].
Tacito: corruptissima re publica
plurimae leges, Annales, III,
27).
Passiamo a II, 38, 1 del logvoς ejpitavfioς
Essere cittadino impegnato non
significa non avere svaghi. Ad Atene vige una festività agonistica: abbiamo
procurato pleivstaς ajnapauvlaς th̃/ gnwvmh/ moltissimi
sollievi allo spirito, ajgw̃si mevn ge qusivaiς diethvsioς con agoni e feste sacre che
durano tutto l’anno.
(Grandi Dionisie in primavera, Dionisie rurali
e Lenee d’inverno) e anche con eleganti arredi privati il cui piacere
quotidiano di queste cose scaccia il dolore.
Insomma non circenses, ma teatro quale festa e quale rito che pone l’uomo e
dio, e la polis e la politica come
problemi
Nietzsche: “La festa è paganesimo
per eccellenza” (Umano, troppo umano).
E’ visione della classicità non molto diversa dall'idea
dell'imperatore Giuliano di Ibsen: “Esiste un mondo splendido che voi galilei
non vedete; un mondo dove la vita è una festa solenne fra belle statue e inni
nei templi, con calici colmi di vino e rose fra i capelli. Ponti vertiginosi
vengono gettati fra spirito e spirito"(L'apostasia
di Cesare [9],
I parte Cesare e Galileo, atto primo,).
continua
[1]
L. Canfora, La democrazia. Storia di
un’ideologia , p. 15 e p. 33.
[2] tevlo~ (lat. vectigal ) è la tassa indiretta; fovro~ (lat. tributum) la diretta.
Cfr. la Lettera ai Romani di
Paolo: “Reddite omnibus debita: cui tributum (fovron) tributum (tassa diretta), cui vectīgal (tevlo~) vectigal (tassa indiretta
), cui timorem timorem, cui honorem
honorem” ( 13, 7) Paolo gerarchizza tutto in una prospettiva
carismatica.
[3]
Lettera a una professoressa, p. 55.
[4]
Cfr. la necessità della paura (to; deinovn)
affermata dalle Erinni (517) e da Atena (689) nelle Eumenidi di Eschilo. Se sparisce la paura subentra l’anarchia. O
anche la funzione positiva del metus
hostilis un Sallustio (Bellum
Iugurthinum, 42)
[5] Pelasgo nelle Supplici
di Eschilo dice che il popolo ama accusare il potere (ajrch̃ς ga;r filaivtioς lewvς, 485). Gli Argivi provano compassione per le Danaidi
e odiano il maschio stuolo. Infatti ognuno ha simpatia toĩς h{ssosin, per i perdenti.
[6] "E allora osavi trasgredire queste leggi?"
(v. 449), domanda Creonte.
E Antigone risponde:” Sì, infatti secondo me non è stato per niente Zeus il banditore di
questo editto/né Giustizia che convive con gli dei di sotterra/determinò tali
leggi tra gli uomini,/né pensavo che i tuoi bandi avessero tanta/forza che tu,
essendo mortale, potessi oltrepassare/i diritti degli dei, non scritti e non
vacillanti (vv. 450-455)
[7] Per Antigone le leggi che contano sono quelle
provenienti dagli dèi. Lo stesso pensa il coro dell'Edipo re che nella prima
strofe del secondo Stasimo, punto nodale della tragedia, canta:"Oh, mi
accompagni sempre la sorte di portare/ la sacra purezza delle parole/e delle
opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi/sublimi,
procreate/attraverso l'aria celeste di cui Olimpo è padre da solo né le
/generava natura mortale di uomini/né mai dimenticanza/potrà
addormentarle:/grande c'è un dio in loro e non invecchia" (vv. 863-872).
[8]
Frammenti postumi, 1876, 14
[9]
Del 1873.
Nel nostro attuale sistema l'ignoranza non nasce solo dalla povertà.Giovanna Tocco
RispondiElimina