Sofocle
Sommario
Vita
e opere. L’assenza della misura è la radice di ogni male. L’u{bri~ fa
crescere la mala pianta del tiranno. La devozione verso gli oracoli, prima di
tutti quello delfico. L’eujkoliva e la qeofiliva di Sofocle. Il suo debito a
Omero. La critica elogiativa dell’Anonimo Sul
sublime. L’ambiguità dell’affabulazione sofoclea. L’ironia tragica. La
forza dei legami di sangue. L’arcaismo di Sofocle. L’umanesimo di Sofocle. Le Trachinie: Il tema della moglie
trascurata e oltraggiata che cerca di recuperare il marito assenteista e
infedele.
Sulla
vita di Sofocle riferisco i dati che possono avere influenzato l'opera o
impressionato la critica. Nato nel 497 - 496 da famiglia agiata, nel 480 guidò
il coro dei giovinetti che celebrarono la vittoria di Salamina danzando e
cantando un peana ad Apollo. Fruì di un'accurata educazione ginnica e musicale,
tanto che poté recitare nei suoi drammi, interpretando la parte di Tamiri cui
spettava suonare la cetra, e quella di Nausicaa impegnata a danzare lanciando
la palla. Rimase quasi sempre ad Atene, dove partecipò alla vita politica fra i
dirigenti della città. Nel 442 fu ellenotamio, uno degli amministratori della
confederazione delio - attica; nel 441, in seguito al successo dell'Antigone, fu eletto fra i dieci
strateghi, e fu stratego anche una seconda volta, nel 427, con Nicia. Queste
notizie significano che nemmeno Sofocle fu l'intellettuale da tavolino, come
sarà lo scrittore bibliotecario di Alessandria, anticipato in qualche modo da
Euripide che nelle Baccanti del resto arriverà al disgusto del sapere
libresco e cerebrale:" to; sofo;n d j ouj sofiva (v.395), il sapere non è
sapienza. E’ quella che T. Mann chiama “nausea del conoscere”[1].
Nel
413, dopo la catastrofe della spedizione in Sicilia, Sofocle fece parte del
collegio dei Probuli che prepararono il governo oligarchico dei Quattrocento.
Verso la fine della vita venne citato in giudizio dal figlio Iofonte per
demenza senile. Il vecchio recitò il primo stasimo del suo ultimo dramma, l'Edipo a Colono, quale prova che non
aveva perduto il senno. Naturalmente fu assolto. L'episodio è raccontato in
modo sintetico e vivace da Apuleio nell' Apologia:"Sophocles
poeta Euripidi aemulus et superstes, vixit enim ad extremam senectam, cum
igitur accusaretur a filio suomet dementiae, quasi iam per aetatem desiperet,
protulisse dicitur Coloneum suam, peregregiam tragediarum, quam forte tum in eo
tempore conscribebat, eam iudicibus legisse nec quicquam amplius pro defensione
sua addidisse, nisi ut audacter dementiae condemnarent, si carmina senis
displicerent. Ibi ego comperior omnis iudices tanto poetae assurrexisse, miris
laudibus eum tulisse ob argumenti sollertiam et coturnum facundiae, nec ita
multum omnis afuisse quin accusatorem potius dementiae condemnarent"(37),
il poeta Sofocle, rivale di Euripide e a lui sopravvissuto, arrivò infatti fino
alla vecchiaia estrema; allora accusato di demenza dal suo stesso figlio, come
se per l'età oramai vaneggiasse, si dice che abbia presentato il suo Edipo a Colono , ottima tra le tragedie,
che egli componeva appunto in quel tempo, e l'abbia letta ai giudici,
aggiungendo a propria difesa nient'altro che osassero condannarlo per pazzia se
dispiacevano i versi del vecchio poeta. Trovo scritto che tutti i giudici si
levarono in piedi davanti a tanto poeta, esaltandolo per la bravura della trama
e la grandiosità dello stile tragico, e non mancò molto che piuttosto
condannassero l'accusatore per demenza.
Morì
nel 406, poco dopo Euripide, per la cui scomparsa durante il proagone delle
Dionisie fece recitare il coro e gli attori in abito da lutto e senza corona.
Dopo la morte fu onorato come eroe Dexion, l'Accoglitore, poiché aveva
partecipato al culto di Asclepio, il dio risanatore, ospitandone in casa la
statua quando questa fu portata da Epidauro ad Atene. Un segno della sua pietas e della sua lontananza dalla
medicina scientifica.
Il Dioniso delle Rane di Aristofane rivela che il poeta
conservò anche dopo la morte quello spirito equilibrato e sereno che lo aveva
caratterizzato sulla terra:"oJ d j eu[kolo" me;n e[nqavd j, eu[kolo" d j
ejkei'",
egli è di buon carattere qua come lo era là (v.82).
I drammi sofoclèi danno
insegnamenti: prima di tutto vogliono indicare a dito[2] la necessità di mantenere viva la religione
delfico - apollinea e di credere nella santità dei precetti
pitici:"Conosci te stesso" e "Nulla di troppo".
Hillman nota che
Goethe irrise il primo questi precetti: “Conosci te stesso? Se io conoscessi me
stesso, scapperei a gambe levate”[3].
Tutta l'opera di Sofocle indica
l' u{bri",
la
prepotenza,
come
madre della tirannide[4] e di ogni
dismisura. "Non invano il
coro della tragedia sofoclèa parla sempre dell'assenza di misura quale radice
di ogni male"[5]. Secondo il poeta, nel
cosmo c'è un ordine, più grande e più vero di quello delle leggi scritte dagli
uomini ed essi devono comprenderlo e rispettarlo.
"Il destino
dell'uomo è inserito nell'ordine divino del mondo; e quando l'ordine divino e
il disordine umano vengono al cozzo, si sprigiona la scintilla della tragedia.
…In base a tutti i drammi di Sofocle risulta evidente che le leggi non scritte
non sono costituite esclusivamente né dalle tradizioni familiari né dal rituale
mortuario. Le leggi non scritte regolano l'intero ordinamento divino del
cosmo" [6].
“Ogni respiro che facciamo
lo prendiamo dal cosmo. Inaliamo la sua aria; parliamo con il suo fiato; il suo
pneuma è la nostra ispirazione. La parola “cosmo” indica un mondo conformato
dall’estetica. “Cosmesi” e “cosmetica”, che derivano dal greco kovsmo~, alludono al significato greco originale,
quando la parola rimandava alle vesti delle donne, alla decorazione e agli
abbellimenti, a tutto ciò che è idoneo, ordinato, arredato e ben disposto, con
connotazioni etiche di proprietà, decenza, onorabilità. L’immaginazione estetica
è la modalità primaria di conoscenza del cosmo e il linguaggio estetico il modo
più appropriato per formulare il mondo”[7].
“L’impressione di
compostezza, di equilibrio, di lucida razionalità che molte rheseis sofoclee ci trasmettono è in
realtà il frutto della somma perizia del poeta, il prodigio di una genialità
espressiva capace di tradurre in forme di austera e semplice eleganza
sentimenti, passioni e tensioni di eccezionale intensità”[8].
Sentiamo Thomas Mann
a proposito della visione religiosa di Giacobbe e di suo figlio Giuseppe: “la
convinzione che una vita e un accadere, i quali non possono legittimarsi con
una realtà superiore, che non si fondino e non si appoggino su elementi sacri e
noti, che si dimostrino incapaci di rispecchiarsi e di riconoscersi nel divino,
non sono né vita né accadere; la convinzione, quindi che quel che accade
quaggiù non saprebbe accadere né si sognerebbe mai di accadere se non avesse il
suo modello e il suo corrispettivo astrale, era in lui non meno profondamente
radicata che nel padre; l’unità nella dualità, l’eterno presente della sfera
che eternamente si volge, la commutabilità del mondo celeste e del terrestre,
che permette all’uno di convertirsi nell’altro e agli dèi di trasformarsi in
uomini ma anche agli uomini in dèi, tutto questo costituiva anche per lui la
certezza di fondo della vita”[9].
La forma di u{bri" segnata a dito da Sofocle è la presunzione
intellettuale che costituisce il vero peccato di Edipo il quale crede troppo
nella propria intelligenza e, istigato per giunta dalla madre, arriva a
bestemmiare gli oracoli. Uno dei centri ideologici del dramma è costituito dai
versi 396 - 398:"arrivato io,/ Edipo, che non sapevo nulla, lo feci
cessare/ azzeccandoci con l'intelligenza (gnwvmh/// kurhvsa" ) e senza avere imparato nulla
dagli uccelli".
Questa
affermazione di autonomia, per Sofocle, poeta tradizionalista e pio, è dismisura, prepotenza, cecità
mentale e morale che fa crescere la mala pianta del tiranno (v.873), il quale,
salito su fastigi altissimi è però, destinato a precipitare nella necessità
scoscesa[10]
dove non si avvale di valido piede, ajpovtomon…eij~ ajnavgkan e[nq j ouj podi; crhsivmw/ - crh'tai" (vv. 877
- 879). Vedremo che il despota è spesso affetto da zoppia, quanto meno mentale,
ma non solo, e che la tirannide è una “sovranità claudicante” [11].
Anche
Mefistofele del Faust di Goethe è zoppo, per via di un piede equino. Nella
taverna di Auerbach a Lipsia, uno dei goliardi buontemponi, come le vede
entrare, domanda: Was inkt der Kerl auf
einem fub in?, come mai
zoppica da un piede quello?
continua
[1] Tonio Kröger, 4.
[2] "Non andrò più
all'intangibile/ ombelico della terra a pregare,/ né al tempio di Abae,/ né a
Olimpia, /se queste parole indicate a dito (ceirovdekta)/
non andranno bene a tutti i mortali" canta il Coro nel Secondo Stasimo dell'
Edipo re. (vv.897 - 902).
[3] J. Hillman, La forza del carattere, p. 207.
[4] u{bri" futeuvei tuvrannon,
(Edipo re , v. 873), la prepotenza fa crescere il tiranno.
[5]Jaeger, Paideia 1, p. 481.
[6]V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle , p. 40 e p. 49.
[7] J. Hillman, La forza del carattere, p. 254.
[8] Di Marco, Op. cit., p. 225.
[9] T. Mann, Il giovane Giuseppe, p.
234 - 235
[10] Troviamo un locus
analogo nel primo coro dell'Agamennone di Seneca quando le donne di
Micene notano che la Fortuna /
fallax (vv. 57 - 58) inganna con grandi beni collocandoli troppo alti in
praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e insicuro. Infatti le cime
sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi della Fortuna, e
predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:"quidquid in
altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae
quisquis turbae/sorte quietus…" (vv. 101 - 104), tutto ciò che la Fortuna ha portato in
alto, per atterrarlo lo solleva. E' più lunga la vita per le creature modeste:
fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua sorte.
La caduta dall'alto è prevista dal
Viceré del Portogallo in La tragedia spagnola di Thomas Kyd (del 1585)
:"Sciagurata condizione dei re, assisi fra tanti timori senza rimedio!
Prima, noi siam posti sulla più eccelsa altezza, e spesso scalzati dall'eccesso
dell'odio, ma sempre soggetti alla ruota della fortuna; e quando più in alto,
non mai tanto godiamo quanto insieme sospettiamo e temiamo la nostra
rovina" (III, 1).
Non
solo nella tragedia il potere è malvisto da Seneca: nel De brevitate vitae
troviamo l’immagine di Augusto che, come altri potenti, desidererebbe
discendere dalla sua sommità: “cupiunt
interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere; nam, ut nihil extra
lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit " (4, 1, 2), desiderano
talora discendere da quel culmine, se fosse possibile farlo senza pericolo;
infatti posto che nulla dall'esterno la minacci o scuota, la fortuna implode da
sola.
Del resto Proust ci ricorda che la vecchiaia fa
precipitare tutti:"la vecchiaia... è pur sempre lo stato più miserando per
gli uomini, e che li precipita dai loro fastigi a somiglianza dei re delle
tragedie greche" Il tempo ritrovato
, p. 359.
[11]Vernant e Vidal - Naquet, Mito e tragedia due , p. 49.
Più leggo questi commenti e più amo la tragedia greca.Giovanna Tocco
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