Il tovpo" dell'amore che insegue chi fugge e
scappa da chi lo insegue.
Quod
sequitur, fugio; quod fugit, ipse sequor. (Ovidio,
Amores, 2, 20, 36)
Tale
locus ha un'ampia presenza nella
poesia amorosa e, probabilmente, pure nell'esperienza personale di ciascuno di
noi: Teocrito nel VI idillio paragona Galatea che stuzzica Polifemo alla chioma
secca che si stacca dal cardo quando la bella estate arde: "kai; feuvgei filevonta
kai; ouj filevonta diwvkei" (v. 17), e fugge chi ama e chi non
ama lo insegue. Nell'XI idillio lo stesso Ciclope si dà il consiglio di non
inseguire chi fugge ma di mungere quella presente (75), femmina ovina o umana
che sia.
Abbiamo anche qui l'ironia teocritea che
deriva dalla consapevole dissonanza tra l'elemento popolare e quello raffinato
letterario. Teocrito è, come Callimaco, un rappresentante di una poesia
cosiddetta postfilosofica: "Post-filosofici sono questi poeti, nel senso
che non credono più nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e
nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un
carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall'universale e si
rivolgono con amore al particolare"[1]. Lo
stesso Snell qualche capitolo prima aveva ricordato che nel V secolo era
comunque già avvenuto "quel distacco fra il mondo della storia e quello
della poesia" codificato da Aristotele quando afferma "che la poesia
è più filosofica della storia poiché la poesia tende all'universale, la storia
al particolare"[2] (p.
141). La poesia postfilosofica dunque non racconta più l'universale.
Post-filosofica o almeno post-illuministica sarebbe anche quella di
Goethe:" Callimaco e Goethe si trovano entrambi ad una svolta storica; al
tramonto di una più che secolare cultura illuministica che ha dissolto le
antiche concezioni religiose, quando è venuto a noia anche il razionalismo e
incomincia a sorgere una nuova poesia significativa. Ma l'evoluzione del mondo
antico segue una via così diversa da quella del mondo moderno, che Callimaco, e
con lui tutto il suo tempo, si dichiara per la poesia minore, delicata, mentre
Goethe, interprete anch'egli dei suoi contemporanei, dà la preferenza alla
poesia patetica, interiormente commossa"[3].
"Un
epigramma di Callimaco (Anth. Pal. 12, 102) liberamente tradotto
per l'occasione in versi latini, è in Orazio
il ritornello caro a questi incontentabili stolti:" Come il cacciatore
insegue la lepre nella neve e non la prende quando è a portata di mano, così fa
anche l'amante che oltrepassa a volo ciò che è alla portata di tutti e cerca di
prendere quello che fugge: "Meus est
amor huic similis: nam/transvŏlat in
medio posita et fugientia captat " (Sermones , 1, 2, 107s.). Ed è proprio questo epigramma di Callimaco
che fornisce ad Ovidio (in un
componimento degli Amores tutto impegnato
a redigere il codice della perfetta relazione galante) il motto che può
rappresentare emblematicamente la tormentata forma dell'amore elegiaco: quod sequitur, fugio; quod fugit, ipse
sequor (2, 20, 36) "[4],
evito ciò che mi segue, seguo ciò che mi evita.
E'
questo un luogo comune dell'amore, o, forse, della non praticabilità
dell'amore.
Sentiamo
qualche altra testimonianza.
Catullo cerca di sfuggire obstinata mente
(8, 11) a questa legge che nega la realtà dell'amore facendone un'utopia:"nec
quae fugit sectare, nec miser vive " (8, 10), non dare la
caccia a quella che fugge e non vivere da disgraziato.
Nell'
Hercules Oetaeus attribuito a Seneca la nutrice di Deianira per
consolare la sua alumna le dice che Iole ridotta oramai a schiava è una preda
oramai troppo facile per Ercole e, quindi, non più ambita: "illicita
amantur; excidit quidquid licet" (v. 357), sono amate le cose non
consentite, tutto quello che è concesso decade.
Nella
Gerusalemme liberata leggiamo: "Ma perché istinto è de l'umane genti/che
ciò che più si vieta uom più desìa,/dispongon molti ad onta di fortuna/seguir
la donna come il ciel s'imbruna" (V, 76).
"L'amore fugge come un'ombra l'amore reale che
l'insegue, inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue". (William Shakespeare, Le
allegre comari di Windsor, 1602)
Nella commedia La locandiera (del 1753)
Goldoni fa dire alla
protagonista, Mirandolina, in un monologo. "Quei che mi corrono dietro,
presto mi annoiano" (I, 9).
Una
situazione analoga troviamo ne Il giocatore di Dostoevskij dove il protagonista dichiara il suo amore a Polina in
questi termini: "Lei sa bene che cosa mi ha assorbito tutto intero.
Siccome non ho nessuna speranza e ai suoi occhi sono uno zero, glielo dico
francamente: io vedo soltanto lei dappertutto, e tutto il resto mi è
indifferente. Come e perché io l'amo non lo so. Sa che forse lei non è affatto
bella. Può credere o no che io non so neppure se lei sia bella o no, neanche di
viso? Probabilmente il suo cuore non è buono e l'intelletto non è nobile; questo
è molto probabile"[5].
Proust nel V e terzultimo volume della Ricerca,
conclusa negli ultimi mesi di vita (tra il 1921 e il 1922) esprime lo stesso
concetto: "Qualsiasi essere amato-anzi, in una certa misura, qualsiasi
essere-è per noi simile a Giano: se ci abbandona, ci presenta la faccia che ci
attira; se lo sappiamo a nostra perpetua disposizione, la faccia che ci
annoia"[6].
L'analogia
con il cacciatore può essere estesa a quella con il raccoglitore di fiori. Il fiore raccolto non è più amabile.
Molto note sono le ottave dell'Orlando furioso: "La verginella è
simile alla rosa,/ch'in bel giardin su la nativa spina/mentre sola e sicura si
riposa,/né gregge né pastor se le avicina;/l'aura soave e l'alba
rugiadosa,/l'acqua, la terra al suo favor s'inchina:/gioveni vaghi e donne
innamorate/amano averne e seni e tempie ornate.//Ma non sì tosto dal materno
stelo/rimossa viene, e dal suo ceppo verde,/che quanto avea dagli uomini e dal
cielo/favor, grazia e bellezza, tutto perde./La vergine che 'l fior, di che più
zelo/che de' begli occhi e de la vita aver de',/lascia altrui còrre, il pregio
ch'avea inanti/perde nel cor di tutti gli altri amanti" (I, 42-43).
Troviamo
un’occorrenza di questo topos in El
burlador de Sevilla (1630) di Tirso de Molina: “regola dell’amore/è amare
chi ci odia, /sprezzare chi ci adora,/perché, se è pago, muore,/e vive se è
ferito” (I, 10).
Meno
noti sono forse il sentimento e la riflessione di Vrònskij dopo che ha
realizzato il suo sogno d'amore con Anna Karenina: "Lui la guardava
come un uomo guarda un fiore che ha strappato, già tutto appassito, in cui
riconosce con difficoltà la bellezza per la quale l'ha strappato e
distrutto"[7].
Gozzano, su questa linea, sospira con
ironia:" Il mio sogno è nutrito d'abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/
che non colsi"[8].
Sentiamo infine C. Pavese: "Ma questa è la più
atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la
propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"[9].
FINE
[1] Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 372.
[2] Aristotele, Poetica, 1451b.
[3]Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, p. 371.
[4]G. B. Conte, introduzione a Ovidio rimedi contro l'amore, p. 43.
[5] F. Dostoevskij, Il giocatore,
p. 42.
[6] M.
Proust, La prigioniera, p. 183.
[7] L. Tolstoj, Anna Karenina,
p. 366.
[8] Cocotte, vv. 67-69.
[9] Il mestiere di vivere, 30
settembre 1937.
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