Novi Sad |
La domenica mattina al caffè Palma di Debrecen
Domenica 29 luglio 1979 non c’erano lezioni né altre
attività organizzate per noi ospiti antichi e recenti dell’Università Kossuth
Lajos di Debrecen.
La mattina del giorno di festa è simpatica per chi, al pari
di me, è senza famiglia: lo lascia dormire a volontà, bere il caffè dove e come
gli pare, osservare senza fretta le novità della giornata, riflettere come gli
garba. Isomma, quelli della mia razza di solitari introversi, la domenica al
risveglio provano un senso di libertà e disponibilità a chissà quali avventure.
Ma dopo un secondo o anche terzo caffè, se non si presenta la prospettiva di un
incontro emozionante con una donna bella e fine, se non dobbiamo portare avanti
un lavoro o svolgere un’attività da cui dipende il nostro equilibrio, se non abbiamo
il progetto di creare un’opera d’arte che redima il caos doloroso con la
bellezza, se non c’è niente di questo, il dì del riposo dopo il terzo caffè
diventa il più squallido e crudele dei giorni per noi solitari.
Quella mattina mi alzai alle nove, poi, senza fretta, mi
incamminai attraverso il grande bosco per fare colazione e prendere il sole
sulla terrazza del Palma. Speravo di farvi qualche incontro non insignificante.
Vidi seduta a un tavolo, da sola, Giulia, la bionda di Novi
Sad corteggiata da Alfredo in piscina. La salutai, mi invitò e sedetti con lei.
Era giovane e bella assai, ma non quanto la donna che mi aspettava in Italia.
Ifigenia allora nella mia mente era la splendidissima fra tutte le femmine
umane più luminose del mondo. Ai miei occhi incarnava un’idea che effondeva
luce dalle sue membra, come lo spirito divino si fa vedere attraverso la sfera
del sole. Eppure, quella radiosa bellezza prima dei venticinque anni si era già
opacizzata, forse perché la ragazza aveva smarrito la coscienza di sé e dei
suoi scopi possibili, attribuendosi un’identità posticcia e fini non suoi. La
ingannavano istrioni più o meno famosi, scrittori indecenti, imbonitori
televisivi e altra gentaglia priva di anima.
Tornato da Debrecen mi accorsi con dolore che dentro la
ragazza geniale e gioiosa di un tempo non c’era più quella scintilla del fuoco
divino che procede metodicamente alla creazione, del sole insomma che porta
significazione del Creatore ed è nel visibile quello che è Dio nel pensabile.
Un egoismo feroce aveva spento quella luce santa. Quando
tornai, la sua povera carne mi parve materia inerte.
Con Giulia non avevo nulla da dire: era vuota e la sua
vicinanza mi dava angoscia.
Allontanandomi dal caffè Palma pensai che se Ifigenia per
nove mesi mi aveva interessato come un’opera d’arte, dentro le membra luminose
doveva avere un’anima radiosa e potente al pari del corpo.
Andai in camera e le scrissi che mi mancava, ma il desiderio
di lei non mi rendeva debole o neghittoso, pingue e fiacco al pari di un
eunuco, bensì mi faceva agire continuamente per onorarla e venerarla come si fa
con una dèa, la prima fra tutte le dèe. Dovevo rendermi degno almeno di essere
il suo paredro, non abissalmente lontano dalla sua sublime olimpicità: ogni
giorno, una volta dopo le lezioni, un’altra prima di cena, correvo i 5000 metri
nello stadio sempre più rapidamente, leggevo, studiavo, imparavo, pensavo.
Pensavo a lei. Notavo e respiravo la bellezza del mondo, atto di cui ero diventato
desideroso e capace solo dopo avere ricevuto nell’anima e sul corpo l’impronta
della sue incensurabili forme corporee e mentali
Questo scrivevo, senza ironia.
giovanni ghiselli . Bologna 27 luglio 2017
Mi piace . Giovanna Tocco
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